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La famiglia al numero 13
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La famiglia al numero 13
E-book342 pagine5 ore

La famiglia al numero 13

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Info su questo ebook

Tutti hanno dei segreti.
I loro sono molto pericolosi.

Mary è bella, ricca e incarna alla perfezione il ritratto di una donna felice. La sua splendida casa gode di una vista mozzafiato e il giardino è sempre in ordine. La sua vita sembra proprio perfetta. Ma dietro la porta di ingresso si nasconde una realtà molto diversa. Il marito, Andrew, le rivolge a stento la parola e trascorre le sue giornate da solo nel seminterrato, mentre suo nipote combatte con gravi disturbi del comportamento, che spesso provocano scatti d’ira imprevedibili. L’illusione di perfezione che Mary ha faticosamente costruito sta cominciando a sgretolarsi. Come se non bastasse qualcuno ha iniziato a inviarle messaggi anonimi, minacciando lei e la sua famiglia. E sembra conoscere i lati più nascosti della vita di Mary, quelli che lei si sforza di celare. Possibile che uno dei segreti dell’appartamento numero 13 sia in grado di mettere in serio pericolo lei e i suoi cari?

Ai primi posti delle classifiche in Inghilterra e negli Stati Uniti

«Incredibile! Mi ha completamente ipnotizzato fin dalle prime pagine.»

«Un titolo imperdibile per tutti gli amanti del thriller.»

«Colpi di scena a non finire e una conclusione magistrale.»

S.D. Monaghan
È cresciuto a Dublino, ma ha sempre viaggiato per il mondo. Dopo due anni trascorsi in Thailandia a insegnare inglese, è tornato in Irlanda e si è laureato in psicologia. Ha vissuto in Canada per quattro anni e ha studiato sceneggiatura a Toronto, per poi conseguire un master in scrittura creativa a Dublino. La famiglia al numero 13 è il suo primo libro pubblicato dalla Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita18 feb 2020
ISBN9788822743510
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    Anteprima del libro

    La famiglia al numero 13 - S.D. Monaghan

    EN.jpg

    Indice

    PARTE PRIMA

    Capitolo uno. Connor

    Capitolo due. Mary

    Capitolo tre. Connor

    Capitolo quattro. Mary

    Capitolo cinque. Connor

    Capitolo sei. Mary

    Capitolo sette. Connor

    Capitolo otto. Mary

    Capitolo nove. Connor

    Capitolo dieci. Mary

    Capitolo undici. Connor

    PARTE SECONDA

    Capitolo dodici. Connor

    Capitolo tredici. Mary

    Capitolo quattordici. Connor

    Capitolo quindici. Mary

    Capitolo sedici. Connor

    Capitolo diciassette. Mary

    Capitolo diciotto. Connor

    Capitolo diciannove. Mary

    Capitolo venti. Connor

    Capitolo ventuno. Mary

    Capitolo ventidue. Connor

    PARTE TERZA

    Capitolo ventitré. Connor

    Capitolo ventiquattro. Mary

    Capitolo venticinque. Connor

    Capitolo ventisei. Mary

    Una lettera da S.D. Monaghan

    Ringraziamenti

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    2592

    Questa è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi,

    le organizzazioni, gli eventi e gli avvenimenti sono frutto

    dell’immaginazione dell’autore o sono usati in modo fittizio

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta,

    memorizzata su un qualsiasi supporto o trasmessa in qualsiasi forma e

    tramite qualsiasi mezzo senza un esplicito consenso da parte dell’editore

    Copertina © Sebastiano Barcaroli

    Titolo originale: The Family at No. 13

    Copyright © S.D. Monaghan, 2018

    S.D. Monaghan has asserted his right to be identified

    as the author of this work

    Traduzione dalla lingua inglese di Beatrice Messineo

    Prima edizione ebook: marzo 2020

    © 2020 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-4351-0

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma

    S.D. Monaghan

    La famiglia al numero 13

    OMINO.jpg

    Newton Compton editori

    Per Anne, lo spazio bianco in ogni pagina

    Parte prima

    Capitolo uno

    Connor

    Quel giorno

    Il sangue continuava a uscire mentre un freddo vuoto e crudo s’insinuava nella ferita come un fantasma. Connor fissava il cadavere. Riconobbe quel viso, un viso che aveva imparato a conoscere anche troppo bene. Poi annuì, il corpo sotto shock e la mente rimasta lucida dicevano la stessa cosa: Sì, questo è ciò che un coltello fa alla carne. Afferrò il manico verde mimetico e osservò l’acciaio, poi abbassò lo sguardo sulla ferita, come se non riuscisse a credere che, nel giro di pochi istanti, un vecchio arnese come quello fosse riuscito a sfondare la gabbia toracica e raggiungere la colonna vertebrale. La lama scintillò per un attimo sotto il bagliore dei lampioni di St. Catherine’s Hill, prima di finire inghiottita dall’ombra degli alberi dove la macchia di sangue sembrava una pozza oleosa.

    Connor sollevò delicatamente la testa, nella speranza di trovare un barlume di vita da confortare. E poi voleva guardare ancora un’ultima volta quel volto che gli era diventato così familiare. Doveva mantenere il peso in equilibrio, senza scuotere troppo il corpo, quasi si aspettasse davvero di riscontrare un lamento, un piagnucolio che gli desse speranza. Ma era consapevole anche che quello fosse il fardello più pesante che un uomo potesse sostenere. Una pozza di sangue denso come vernice aveva già invaso il vialetto, mentre più in là era schizzato ovunque, come un furioso quadro di Jackson Pollock.

    Al piano superiore di una casa del vicinato, si aprì la finestra di una camera da letto e una donna si affacciò nella solita quiete di St Catherine’s Hill. Ci fu un momento di silenzio, nel quale il suo cervello processò con esattezza ciò che vedevano gli occhi: e poi iniziò a gridare, la penetrante e sgomenta consapevolezza di ciò che giaceva, crudelmente mutilato, sul vialetto del numero 13.

    Connor sollevò lo sguardo e fece per urlare, ma ne emerse soltanto un bisbiglio: «No. Non sono stato io. Non so cos’è successo. Non c’ero». Nel panico crescente, un lampo gli attraversò i pensieri come un proiettile: Mi hanno incastrato. Fin dall’inizio. Adesso non mi crederà mai nessuno. Sono fottuto, completamente fottuto.

    La donna gridò ancora per tutta St. Catherine’s Hill, stavolta formulando delle parole: «O mio Dio! Polizia. Chiamate la polizia!».

    Connor guardò la strada oltre le due colonnine all’inizio del vialetto, sormontate dai pacchiani grifoni in pietra. Era questione di minuti, poi avrebbero sguinzagliato ogni pattuglia, ogni agente per trovarlo il prima possibile. Per forza. Si sa che quando qualcuno uccide e si sporca le mani di sangue, sprofonda in un baratro dell’esistenza in cui la vita non vale granché. A quel punto strapparne qualche altra non fa più tanta differenza. Nei portici di qualche casa vicina si accese la luce. Il tempo era ormai agli sgoccioli.

    Capitolo due

    Mary

    Tre giorni prima

    Premo l’interruttore e le luci esterne si spengono. Il buio cala nel giardino, il prato diventa un lago scuro. Nel cielo brilla uno spicchio di luna così affilato che un uomo ci si potrebbe tagliare. Appoggiata alla ringhiera, mi sistemo al solito posto sul patio, almeno tre metri sopra gli altri cortili ben curati di St Catherine’s Hill.

    Il mio riflesso si specchia nel vetro alle mie spalle. Ho un nuovo taglio di capelli: castano scuro, piuttosto corto, le punte leggermente più chiare mi donano un aspetto curato. Temevo di apparire troppo formale. Ma ho dovuto ricredermi: mi fa sembrare più sicura di me ma non arrogante, sobria ma non severa. Un’elegante quarantenne, tutt’altro che scialba. Quando ho chiesto a mio marito: «Allora?», Andrew mi ha osservata in silenzio, come se in un’ora avessi cambiato completamente aspetto e non sapesse che dire. Ma lentamente il viso si è illuminato nell’espressione che mi aspettavo. Mi ha detto che quel taglio mi dava dieci anni in meno, e dato che già prima ne dimostravo una trentina, la gente avrebbe finito per pensare che fossi sua figlia. Nelle rare occasioni in cui Andrew dice cose del genere mi fa sentire legata a lui come se fosse il mio re e io la sua guardia del corpo.

    Adoro questo nuovo taglio.

    Chiudo gli occhi e do inizio al rituale del mio momento preferito della giornata. Eccolo qui: lo scatto metallico del vecchio accendino di mio marito, seguito dalla profonda inalazione di fumo nei polmoni. Anche a occhi chiusi, percepisco la punta accesa. Quando vedo la gente fumare fuori dagli uffici, nelle macchine o davanti ai locali bloccando l’ingresso, mi sembra sempre un vizio compulsivo e sgradevole. Ma quando lo faccio io, di nascosto, una volta al giorno, in questo stesso punto poco prima di mezzanotte, a ogni tiro ho l’impressione di calarmi in un bagno perfetto.

    Lascio cadere la cenere a terra, e mi perdo a guardare il retro della casa di Brona e Zachery oltre il giardino. I fiori sulla ringhiera insieme alle siepi e agli alberi in fondo al cortile mi nascondono. Meglio che una come Brona non venga a conoscenza del mio segreto. I segreti sono belli solo se restano tali.

    Come al solito, ho una visuale perfetta di Brona che, una quindicina di metri più in là, passa di fronte alla finestra del salotto al primo piano e apre la porta scorrevole che affaccia sul patio. «Vedo tutto», mormoro come se fosse una buona cosa. Lo strano vaporizzatore di Brona si illumina di verde. Ma che senso ha? Il gusto di una cicca sta nel fatto che è pericolosa, proibita, nociva. Fa un tiro della sigaretta elettronica, fumandosi nient’altro che tecnologia, ed espira vapore denso nell’aria notturna. La sigaretta consumata mi brucia le dita e subito mi rendo conto di essermi aggrappata alla ringhiera del patio come se fosse quella di una nave che affonda. La spengo in uno di quei massicci vasi ornamentali.

    Il telefono vibra, ma non rispondo. Tutti gli indizi puntano su una brutta notizia. A quest’ora della notte arrivano solo brutte notizie. In preda al terrore aspetto l’arrivo di un messaggio e alla fine il cellulare vibra di nuovo. Lo schermo è a qualche centimetro dal mio viso. Chiamo la segreteria e ascolto attentamente.

    HAI UN NUOVO MESSAGGIO. IL MESSAGGIO È STATO LASCIATO ALLE ORE VENTITRÉ E CINQUANTUNO MINUTI.

    Una voce femminile, educata ma pressante, comincia a parlare. Sembra una registrazione dei tempi della guerra più che una comunicazione di pochi minuti fa. Dal tono sembra quasi che abbia paura che un soldato possa sentirla: cosa che, a dire il vero, è perfettamente plausibile, considerato dove si trova mia sorella.

    «Mary, sono Emer. Insomma, tu credi che il tempo cancelli tutte le colpe. Ti sei convinta che confinando nel passato la scelta che hai fatto – la tua sporca scelta – sarà più semplice conviverci. Forse speri che un giorno riuscirai a convincerti di non aver mai fatto niente. Che non sia mai successo niente. Sei mia sorella maggiore, Mary. Avevi delle responsabilità. Hai delle responsabilità. È colpa tua. Sono qui per colpa tua».

    Emer fa una breve pausa per placare il respiro affannato dal turbinio di parole.

    «Lui non doveva esistere. È proprio qui che ho sbagliato. Provando a nascondere la verità. Provando a ignorarla. A fingere che non provassi nulla. Lui non doveva esistere».

    A mia sorella piace parlare dei propri sentimenti, cosa comprensibile quando i sentimenti sono l’unico argomento di cui ti parla la gente importante, l’unica cosa capace di tirarti fuori dal tuo inferno personale e trascinarti nel mondo reale. È più forte di lei, Emer non può non essere egocentrica. Anche se sono felice che abbia scelto di aggrapparsi proprio a me. Abbiamo così tanto in comune, così tanta storia condivisa. Voglio aiutarla di più. Devo. Solo che ancora non so come.

    «Mary… c’è dell’altro. Una cosa nuova, una cosa che non ti ho mai detto».

    Ne dubito.

    «Mary… vorrei che ci fossi tu qui, al posto mio».

    Questa sì che è nuova.

    «È più forte di me, Mary. Oggi e in qualche altra occasione… ultimamente… ti odio».

    Il cellulare si allontana di qualche centimetro dal mio orecchio.

    «È così, ti odio. E ce l’ho con te. Io… ti guardo e divento piccola. Sono piccola. Tu mi fai sentire così. E devo crescere adesso. Ma avrai mie notizie. Molto presto. Te ne accorgerai».

    Salvo il messaggio, che si aggiunge alle altre ventidue missive dal fronte mandate da Emer. Andrew non ne sa nulla. Non posso dirglielo. In quanto ex soldato, è un uomo molto protettivo – soprattutto per quanto riguarda questa faccenda. Passa subito all’azione. Non conosce altri modi. Ma questa situazione non richiede azione. Non ancora.

    Per Brona è ora di andare a letto, già da un po’. Le luci nel suo salotto si spengono, oscurando il mio giardino con una spruzzata d’inchiostro color ebano. Da quando mi sono licenziata dall’agenzia di viaggi, questo giardino è diventato la mia ragion d’essere: il mio progetto infinito. È come avere la campagna nella casa di città: un cortile di dimensioni gestibili, ma abbastanza grande da risvegliare il mio pollice verde. Sono laureata in letteratura e non in botanica, ma tutto ciò che so – ogni conoscenza accademica che ora possiedo – riguarda gli alberi, i cespugli e i fiori. Questo giardino mi rende consapevole della natura: le lussureggianti e rigogliose esplosioni di nascita e rinascita, in un ciclo continuo, di stagione in stagione.

    C’è un rumore improvviso nell’oscurità del giardino di sotto. Si fa subito più forte: è come il suono sordo di un pugno che colpisce ripetutamente della carne umidiccia. Aguzzo gli occhi nel buio. Quel suono raccapricciante mi spaventa. So che non c’è un animale là sotto. So esattamente che cos’è. Consapevole di quanto sta per accadere, mi sorprende l’idea che avrei davvero potuto girare i tacchi e andarmene.

    «O Dio santo», mi ritrovo a bisbigliare. «No, non di nuovo…».

    Capitolo tre

    Connor

    Due giorni prima

    Fuori dalla finestra dell’ufficio al piano terra, la giornata era splendida: il bagliore chiaro e lattiginoso delle prime luci del mattino faceva sembrare fresca e salubre l’aria inquinata della città. Connor si passò una mano fra i capelli scuri, scompigliandoli un po’, e chiuse gli occhi. Lo scenario peggiore in assoluto. Strinse i pugni. Ma era del tutto inutile: dietro le palpebre abbassate riusciva ancora a sentire l’eco del futuro che lo aspettava, lo stesso rumore di un cassonetto del vetro lanciato dal decimo piano di un palazzo.

    Per tre anni palazzo Fitzgerald era stata una dimensione perfetta. Chi può lamentarsi di dover prendere soltanto un ascensore per passare dalla camera da letto all’ufficio ogni mattina? Ma poi c’erano stati due avvenimenti, uno subito dopo l’altro, e tutto il suo mondo era saltato in aria.

    Innanzitutto, avevano aperto un Airbnb proprio sopra il suo appartamento tre mesi prima. Connor se n’era diligentemente lamentato con il padrone di casa, un ente pensionistico cinese che gli aveva giurato di risolvere la faccenda. Un mese dopo, gli avevano comunicato che non gli avrebbero rinnovato l’affitto. A quanto pareva, anche loro avevano deciso di convertire gran parte delle proprietà in Airbnb. Così, appena due settimane prima, gli avevano ingiunto di liberare sia l’appartamento che l’ufficio entro la fine del mese.

    Ovviamente non gli sfuggiva l’ironia di tutta quella situazione: era lui a venir tormentato dagli Airbnb adesso, ma nel giro di un anno sarebbe entrato nella nuova Commissione per la salute mentale e l’inquinamento acustico. La Commissione avrebbe avuto facoltà di multare vicini sconsiderati e far chiudere locali e bar che superavano la regolare soglia di rumore, senza contare la possibilità di promulgare nuove leggi per regolarizzare tutti gli Airbnb che continuavano a spuntare in città.

    Mancavano ancora diversi mesi, però. E, fino a quel momento, Connor aveva bisogno di un posto in cui vivere e poter esercitare la sua professione di psicoterapeuta. Doveva fare in modo che il Dipartimento salute lo vedesse come una figura professionale su cui valeva la pena investire, a cui bisognava dare ascolto e credito. Tuttavia, era stato così preso dalle domande di collaborazione per l’università di Londra e della Finlandia e da tutta l’attività da mandare avanti, che non aveva avuto il tempo di occuparsi di scemenze come un avviso di sfratto. E così, all’improvviso, si era ritrovato con meno di due settimane per sistemare le cose.

    Seduto alla scrivania, Connor esaminava ciò che i pazienti vedevano nel suo ufficio al piano terra di palazzo Fitzgerald: i riconoscimenti incorniciati al muro, le certificazioni e le lettere di congratulazioni pacchiane e presuntuose appese alle pareti. C’era una cornice digitale sopra a un armadietto, le immagini cambiavano ogni trenta secondi. Da una foto di Connor insieme a un illustre personaggio di un programma TV sulla psicoterapia, con una spirale si passava a un’altra di lui che stringeva la mano ad Angela Merkel, o che se ne stava fianco a fianco con un vecchio dio del rock. Non c’era il minimo disordine nello studio, nessuna distrazione. Tutte le penne, le matite, i quaderni, l’agenda in pelle e la spillatrice erano ordinatamente allineati di fianco al portatile sulla scrivania. Le pareti erano bianche, la moquette di un ordinario beige.

    Erano le nove del mattino, mancava poco al primo dei sei appuntamenti previsti per la giornata. In genere i pazienti di Connor appartenevano tutti all’alta e media borghesia e condividevano gli stessi segreti e timori: una gita a Parigi per una tappa veloce in ospedale ad abortire e poi qualche giro di shopping; fantasie sul cambiamento di sesso; paura che l’Iran distruggesse l’Occidente con il nucleare o che il sistema bancario collassasse cancellando tutte le loro ricchezze, speranze e sogni. Erano tutte persone istruite, professionisti in preda all’ansia che lottavano per trovare il tempo di godersi i frutti della loro dipendenza dal lavoro, o anche solo per una boccata d’aria fresca. Ma non appena i suoi progetti con il Dipartimento salute avessero preso la piega giusta, si sarebbe ritrovato nella posizione finanziaria per poter scaricare i pazienti e dedicare tutta la sua attività privata a rendere la città, la nazione e, magari un giorno, anche il mondo, un posto migliore.

    In perfetto orario, Zachery D’Silva si accomodò sulla poltrona di fronte alla scrivania, lanciando il cappotto su quella vuota come se si trattasse del suo maggiordomo. Aveva l’aria cupa di un affascinante poeta tormentato, e la pelle scura di un trentenne per metà olandese e per metà marocchino, anche se in verità era nato in Canada e cresciuto in giro per il Nord America.

    «Sembri esausto, Connor».

    «Sono esausto». Il giorno prima – domenica sera – a notte fonda, dal suo balcone aveva guardato con puro sgomento una lunghissima limousine in festa, con tanto di luci da discoteca e un potente impianto stereo, che parcheggiava di fronte a palazzo Fitzgerald e lasciava uscire un gruppetto di pollastrelle gallesi armate di champagne e di DJ personale.

    Zachery era un giovane milionario che viveva della gestione delle sue multiproprietà, ma non era un riccone di prima categoria come altri suoi pazienti. Insomma, non era il tipo di persona che se ne usciva con: «Facciamo fare un giro allo yacht questo weekend». La sua era una ricchezza di categoria due. Comunque sia, era a dir poco facoltoso. Ma quel che lo distingueva davvero dagli altri era che negli anni Novanta Zachery era stato un musicista e aveva preso parte al tour di diversi cantanti pop suonando ai festival più celebri. Si era ritrovato persino sul parco del Madison Square Garden a strimpellare le corde del suo basso. Ma quei tempi erano andati, il presente era questo.

    Durante le sedute, si chiedeva spesso cosa avrebbe pensato il giovane Zachery di quello che era finito a fare a trent’anni: amministrava il parco investimenti di una banca olandese che mirava soltanto al mero profitto. Anche se non perdeva mai l’occasione di parlargli di quel talento naturale che gli aveva donato Dio – mettendolo in mostra e ammirandolo come una gemma preziosa – Connor non pensava affatto che il giovane Zachery ne sarebbe rimasto deluso. In vita sua, a Connor ancora non era capitato di incontrare un liberale con un sesto senso per gli affari che, sotto la patina da lettore del «Guardian», non nutrisse qualche istinto conservatore. Per esempio, quando Zachery dimenticava per un momento il passato, finiva sempre per tessere le lodi di quell’entità quasi magica che era il Mercato. «Conosci i Green stock?», gli aveva chiesto la settimana precedente. «I Green stock non sono male. Ma non sono una mossa astuta. E i mercati ripagano solo l’astuzia. Così, ho scommesso contro e qualche tizio alla Harvey Slings se n’è accorto – stavo componendo un jingle per loro. E, di colpo, mi sono ritrovato con una nuova carriera. Capisci? Ho sempre creduto nella favola dell’artista squattrinato… Ma non era necessario».

    Secondo Connor, Zachery combatteva contro delle tendenze masochistiche che avevano cominciato a palesarsi durante i loro incontri. Zachery chiedeva, chiedeva e chiedeva finché lui non poteva far altro che rifiutare senza mezzi termini. Probabilmente queste tendenze masochistiche dipendevano da una profonda infelicità, ma questo era un tasto che Connor non poteva toccare. Le sue competenze si limitavano a riorganizzare la vita dei clienti per massimizzarne il benessere.

    Tuttavia, di recente il transfert di Zachery nei suoi confronti – invece di un normale rapporto terapista-paziente, immaginava una potenziale amicizia o addirittura attrazione – gli stava sfuggendo di mano e gli impediva di fare progressi. Zachery si era fatto più insistente, chiedeva più incontri di quanti fossero davvero utili, era affascinato anche dal più infimo dettaglio della vita di Connor che saltava fuori durante una sessione, e così aveva cominciato a oltrepassare il confine interessandosi alla sua sfera personale.

    «Ti ho visto al St. Anne’s Park sabato pomeriggio, può essere, Connor?».

    Non si era minimamente sentito osservato. «Be’, sembra proprio di sì».

    «Vivi da quelle parti?»

    «Sono cresciuto nel North side», disse Connor, rispondendo a una domanda che non gli era stata fatta. Voleva che i pazienti sapessero il meno possibile della sua vita privata – o quel che ne restava nel poco tempo libero a sua disposizione.

    «Ma abiti vicino al parco?».

    Connor esitò prima di rispondere, una pausa abbastanza lunga da creare imbarazzo. Era abituato a mettere distanza fra sé e il paziente. «Ci sarà un parco anche vicino casa tua, no?»

    «Ce ne sono diversi, in realtà. Ma ho deciso di portare Brona a fare una gita. Siamo stati anche a Bull Island, al tramonto. Bellissimo».

    Connor ripensò alla sua ultima ragazza. L’ultima volta che si erano visti era stato proprio a Bull Island, seduti nella sua Saab parcheggiata sul lungomare. Era passato quasi un anno. Come vola il tempo. Da allora la mole di lavoro l’aveva costretto a ricorrere a un esclusivo sito d’incontri, ma non era mai riuscito a iniziare una vera relazione con i suoi appuntamenti settimanali. Ultimamente aveva accettato il consiglio di un articolo sull’«Irish Times» e aveva scaricato l’app di Tinder, ma anche se sul suo profilo aveva specificato: NON INTERESSATO A UNA BOTTA E VIA, tutti i match che riceveva non avevano alcun interesse ad andare oltre.

    «Io ti guardo, Connor – mio giudice, giuria e sentenza – e ti invidio. Però mi chiedo spesso se hai tutto ciò che desideri».

    Se avessi tutto ciò che desidero, non avrei dormito per tre mesi con un Airbnb sopra al letto e non sarei sul punto di essere cacciato da casa mia e dal mio ufficio… Vivrei in una bella casa, con un giardino curato e una donna che ricambia il mio amore…

    «Zachery, non spostiamo l’attenzione su di me. Ricorda il lavoro. Rivolgi la tua curiosità a ciò che hai dentro».

    Zachery rispose con un sorriso ampio, infilò una mano nella giacca del completo e tirò fuori un foglietto di carta accuratamente piegato. «Ascolta, amico, vado dritto al sodo. Ho io ciò che ti serve. Per una volta, tu sei la preghiera e io la risposta». Lo posò sulla scrivania che li divideva. «Non c’è di che».

    «È un regalo?». Connor lo chiedeva sempre, quando i suoi pazienti gli portavano qualcosa. Era un trucchetto da analisti, serviva a forzarli a riconoscere apertamente il loro transfert. Di solito il timido piacere che provavano per la riconoscenza tanto attesa si trasformava in imbarazzo, poi in risentimento e, infine, grazie a quelle emozioni estranee, accadeva che abbassavano la guardia e finivano per dire qualcosa di utile che poteva essere usato per farli stare meglio. Insomma, era uno di quei casi in cui bisognava usare il pugno di ferro.

    «No, non è un maledetto regalo». Zachery si guardò intorno. Gli piaceva dare un’occhiata all’ufficio di Connor. Era l’unico modo per entrare nella mente del suo terapista.

    Connor aprì il foglio: la stampa a colori di un annuncio immobiliare online. C’erano due foto, una era di un condominio esclusivo, l’altra di un soggiorno elegante. Il costo dell’affitto era sottolineato. Un centinaio di bigliettoni in meno di quanto pagava ora, ma comunque piuttosto costoso.

    «Devi lasciare questo posto, no? Allora ecco dove devi andare. C’è pure lo spazio per l’ufficio al piano terra. Proprio come qui. Sono certo che l’affitto sarà su per giù lo stesso di adesso. Fattibilissimo. Sei a posto, amico».

    «Come facevi a sapere…».

    «Prego – di nuovo. Chi me l’ha detto? Nessuno. Ti ho sentito la settimana scorsa. Ricordi? Sono rimasto qui ad aspettarti mentre tu discutevi con un tizio del consiglio direttivo che avevi appena visto passare. Maledetti Airbnb, eh? Fantastici in teoria. Fantastici per i proprietari degli immobili. Ma viverci accanto? Neanche per sogno. Un incubo. Solo un maledetto incubo. Non ti invidio per niente, bello. Neanche un po’. È questo il problema dei palazzi più vecchi. Non aggiornano le norme per gli inquilini. Certi non le vogliono neanche. Dipende tutto da dove provengono i soldi. Se si tratta di Russia o Cina, scordatelo proprio. Sono lo zoccolo duro di tutti gli Airbnb».

    Connor mise via il foglio. Solo a sentir parlare di Airbnb, iniziava a mancargli il fiato. Ormai era diventata una malattia. «Grazie, Zachery. Apprezzo davvero il pensiero, ma…».

    «Nah, nessun problema. Nel fine settimana mi sono ritrovato fra le mani un affitto in un quartiere potenzialmente ricco di opportunità finanziarie. Conosco bene la zona. Ho pensato a te e, be’, ecco qua».

    Stronzate. Pensate tutti quanti a voi stessi, prima. Riusciva a leggere nella mente di Zachery come in un libro aperto. «È inappropriato. Non puoi metterti a curiosare nella mia vita privata. Anche se in buona fede».

    «Gesù, Connor, sto solo cercando di dare una mano a un fratello».

    Connor rimase a guardare Zachery che sorrideva come il vincente che aveva sempre creduto di essere. Poteva quasi sentire il rumore degli ingranaggi nel suo cervello, che cercava la battuta giusta per risolvere la questione. Ma non la trovava.

    «Non sono tuo fratello».

    Silenzio.

    «E nemmeno tuo amico».

    Silenzio.

    «Sono il tuo terapista. Vogliamo andare avanti?».

    Zachery era sbiancato. Aveva le labbra serrate e le sopracciglia contratte, lo sguardo era di ghiaccio e deglutiva in maniera nervosa. Connor era a suo agio con il silenzio: sapeva di poterlo fermare in qualsiasi momento. Ma non gli piaceva dover fare certe scenate. Non gli dava soddisfazione far vacillare altri uomini e, consapevole com’era della disparità delle loro posizioni, gli sembrava quasi un atto di bullismo. Con Zachery, però, sapeva di non avere scelta. Il transfert era un problema fin troppo evidente.

    Zachery domandò: «Allora, come prosegue la partita, coach?»

    «Va’ avanti. Riprendi da dove abbiamo interrotto la settimana scorsa. La vita a casa».

    «Be’, la cosa più interessante di cui mi sono reso conto è che…».

    Ma Connor perse velocemente l’attenzione: per il suo cervello esausto era impossibile restare lucido, così, ancora una volta, riprese a preoccuparsi per l’avviso di sfratto. Airbnb gli aveva letteralmente fatto a pezzi la vita con un martello, proprio come suo fratello maggiore da ragazzino gli aveva sfasciato la batteria e il gruppo di amici. Se il Dipartimento salute avesse saputo delle sue difficoltà, la sua ammissione alla Commissione per la salute mentale e l’inquinamento acustico sarebbe stata a rischio.

    Zachery gli disse: «Ehi, coach, mi segui?»

    «Uh-huh». Sta’ attento. Comportati in maniera professionale.

    «Brona». Il volto gli si colorava sempre quando parlava di lei: era come se fosse Brona a mantenerlo in vita. «È sempre di lei che finisco per parlare. Di Brona».

    La ragazza di Zachery era una specie di mistero. Dalle sue descrizioni, non era ancora riuscito a inquadrarla: ogni tanto gli dava una mano con gli affari, ma al di fuori

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