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Una famiglia quasi felice
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E-book370 pagine5 ore

Una famiglia quasi felice

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Info su questo ebook

«Nessuno è così bravo a scrivere storie familiari come Amanda Prowse.»
Daily Mail

Kathryn Brooker è la moglie del preside. Mentre suo marito Mark passa le giornate cercando di arginare l’esuberanza di frotte di adolescenti indisciplinati nelle grandi sale dell’edificio scolastico dove lavora, Kathryn prepara focaccine per la partita di cricket del figlio nel cottage all’interno del cortile della scuola. La sera, quando torna a casa, Mark si complimenta con lei e la bacia, mentre i figli li prendono in giro per quelle melense dimostrazioni di affetto. Kathryn Brooker sembra davvero rispondere all’immagine di moglie e madre soddisfatta. Se qualcuno riuscisse a sbirciare attraverso la finestra della loro casa ordinata, vedrebbe quattro figure sedute comodamente intorno al tavolo della cucina a chiacchierare: l’immagine di una famiglia felice, un’oasi di amore e serenità. Quel qualcuno di certo proverebbe invidia per Kathryn e per la sua vita perfetta. Ma si sbaglierebbe di grosso. Kathryn è intrappolata in un incubo. Ed è arrivata a un punto di non ritorno, tanto da essere pronta a compiere un passo che solo una donna veramente disperata sarebbe in grado di fare…

Un'autrice da 1 milione di copie
Numero 1 in Inghilterra

«La storia di questa donna che lotta per ricostruire la sua vita andata in frantumi è appassionante, straziante e superbamente raccontata.»
Closer

«Nessuno è così bravo a scrivere storie familiari come Amanda Prowse.»
Daily Mail

«Un grande romanzo con un personaggio femminile straordinario. Una delle cose migliori che mi sia capitato di leggere da tempo.»
Amanda Prowse
È autrice di numerosi bestseller. Vive a Bristol con il marito e i figli e si dedica alla scrittura a tempo pieno. La Newton Compton l’ha fatta conoscere al pubblico italiano con La figlia perfetta, mentre Una famiglia quasi felice è il suo maggiore successo di vendite e critica.
LinguaItaliano
Data di uscita9 mar 2017
ISBN9788822705723
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    Anteprima del libro

    Una famiglia quasi felice - Amanda Prowse

    1600

    Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti storici, personaggi o luoghi reali è completamente fittizio. Altri nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il frutto dell’immaginazione dell’autore, e qualunque somiglianza con fatti, luoghi o persone reali, viventi o defunte, è del tutto casuale

    Titolo originale: What Have I Done?

    Copyright © Amanda Prowse, 2013

    First published in the UK in 2013 by Head of Zeus Ltd.

    The moral right of Amanda Prowse to be identified as the author

    of this work has been asserted in accordance with the

    Copyright, Designs and Patents Act of 1988.

    All rights reserved.

    Traduzione dall’inglese di Mariacristina Cesa

    Prima edizione ebook: marzo 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0572-3

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Progetto grafico: Sebastiano Barcaroli

    Cover: elaborazione da © Shutterstock

    Amanda Prowse

    Una famiglia quasi felice

    Indice

    Dieci anni prima

    Sette anni prima

    Dieci anni prima

    Cinque anni prima

    Dieci anni prima

    Quattro anni prima

    Dieci anni prima

    Un anno prima

    Dieci anni prima

    Un mese prima

    Dieci anni prima

    Oggi

    Ringraziamenti

    Una famiglia quasi felice è dedicato a tutte le donne che vivono sotto la cappa del controllo. Troverete la felicità quando troverete il coraggio di rendervi libere…

    Raccoglierò tutti i pezzetti che hai sparso in giro, nascosto nei cassetti, spazzato sotto al tappeto e infilato tra i cuscini e mi ricostruirò. Diventerò tutto quello che ho sempre pensato di poter essere. Tutti i sogni che avevo accarezzato prima che tu mi facessi a pezzi, li inseguirò.

    Dieci anni prima

    Kathryn Brooker osservava la vita scivolare via da quel corpo, convinta di vedere uno spirito nero sgusciare fuori e scomparire subito attraverso il pavimento, a spirale, sempre più giù. Sedette bene indietro sulla sedia e respirò profondamente. Si era aspettata di provare euforia, o per lo meno sollievo. Di certo non aveva previsto quel torpore che ora la avvolgeva. Nel pensare ai propri figli che dormivano nella stanza accanto, chiuse gli occhi e augurò loro un riposo profondo e pacifico, sapendo che per un po’ di tempo non ne avrebbero più goduto. Come sempre, considerare ciò che sarebbe stato meglio per loro, fu il suo primo pensiero.

    La stanza sembrava quasi vuota nonostante il corpo inzuppato di sangue al centro del letto. C’era un’atmosfera di pace, la temperatura giusta.

    Kathryn registrò un piccolissimo scintillio di disappunto; si sarebbe aspettata di provare qualcosa di più.

    Una volta cambiatasi con un paio di jeans e un maglione, rimase tranquilla accanto al letto in cui giaceva il corpo esangue di suo marito. Con grande determinazione, e per la prima volta nella sua vita, digitò il 999. Sembrava surreale mettere in pratica l’unica azione che avesse mentalmente ripercorso fin da quando riusciva a ricordare, sebbene nella sua immaginazione l’idea di emergenza era sempre stata un bambino con la gamba rotta o un incendio nel palazzo disabitato a fianco, niente di troppo drammatico.

    «Emergenza, di quale servizio ha bisogno?»

    «Oh, salve, sì, non so bene di quale debba chiedere».

    «Non lo sa?»

    «Penso probabilmente la polizia o l’ambulanza, forse entrambi. Mi scusi, come le dicevo, non so bene…».

    «Posso chiederle con che cosa ha a che fare, signora?»

    «Ah, giusto, sì, certo. Ho appena ucciso mio marito».

    «Mi scusi, cos’è che ha appena fatto? La linea è molto disturbata».

    «Oh, lo so, mi scusi, cercherò di parlare più forte. La linea è sempre terribile qui, anche quando chiamo qualcuno di zona. È perché sono nella camera da letto al piano di sopra e la ricezione è pessima. Mio figlio pensa che dipenda da tutti quegli alberi che ci sono qui intorno; li abbiamo fatti tagliare un anno fa, ma non riesco a ricordare se è cambiato qualcosa. Poi ci sono le interferenze con i computer dell’edificio a fianco; abbiamo intenzione di farli vedere, ma questo è un inciso. Giusto, sì, dicevo, ho ucciso mio marito».

    ***

    Kathryn sbatté gli occhi al fascio di luce ronzante che sfarfallava sopra di lei; bisognava sostituire la lampadina. Era una distrazione alquanto fastidiosa.

    «Sei stata tu?».

    Roland Gearing portò il peso sulle dita aperte, le mani formavano due piccole piramidi che, incredibilmente, sostenevano la sua struttura muscolosa mentre si appoggiava al tavolo. Abbassò la voce di un tono; era l’unica domanda che sapeva di dover porre, eppure temeva la risposta.

    «Se sono stata io?»

    «Sì, Kathryn. Sei stata tu?».

    La guardò negli occhi, sperando di instillarle fiducia, cercando di tirarle fuori una risposta sincera. Conosceva bene le bugie e si fidava del suo istinto. I tanti anni di quel lavoro gli avevano insegnato a monitorare con attenzione le pupille dell’interrogato.

    «È una domanda che normalmente non faccio così presto, ma come tuo amico, e come amico di Mark, sento di doverlo fare. Va bene?»

    «Sì, sì, naturalmente. Capisco».

    Fece un sorriso incerto mentre con l’indice e il pollice si mise i capelli dietro l’orecchio sinistro e poi dietro il destro.

    L’atteggiamento calmo di lei lo inquietava; non c’era niente dell’isteria o della paura che di solito caratterizzavano questi incontri. Le donne, in simili circostanze, spesso erano prese dal terrore, dalla rabbia o dalla paura dell’ingiustizia. Kathryn, invece, appariva placida.

    Ripensava agli occhi vitrei di suo marito. Al modo in cui le sue dita erano scivolate e avevano perso la presa mentre lottavano con un invisibile laccio emostatico che gli mozzava il respiro in gola. Arricciò il naso, le narici conservavano ancora una debole traccia del lezzo metallico del sangue di Mark che fluiva. Le aveva dato conforto e repulsione in egual misura. Era come se potesse sentirne il sapore in fondo alla gola. Non aveva cercato di lenirgli il disagio negli ultimi istanti di vita, né gli aveva dispensato parole di conforto. In effetti aveva sorriso, come se lui potesse ancora farcela, come se fosse ancora l’uomo forte e abile, in grado di tagliare alberi, dipingere pareti e alzare le mani.

    Kathryn aveva perfino canticchiato a labbra chiuse, come se non stesse lì a incombere, nel disperato desiderio di assistere alla disfatta che avrebbe significato la fine di tutto quel sordido capitolo. Quando aveva parlato, lo aveva fatto con tono indifferente.

    «Prenditi il tempo che vuoi. Ho ore, nessun posto dove andare, una vita intera davanti a me. Una promessa è una promessa».

    Il suo leggero pragmatismo nascondeva un cuore che gemeva di sollievo.

    «Non mi resta molto».

    La voce di lui era stato un sussurro sempre più debole. Le sue ultime parole uscivano a fatica tra gli ultimi respiri mozzi.

    «Troppo lento, doloroso. Pagherai».

    Prima ancora che lui finisse di parlare, Kathryn cancellò mentalmente le sue parole. Non le avrebbe condivise, raccontate o ricordate in seguito.

    «Oh, Mark. Ho già pagato».

    Chinandosi su di lui, il viso a pochi centimetri dal suo, respirò l’aria fetida che esalava, condividendo il piccolo spazio in cui la vita volgeva al termine. Kathryn si era meravigliata della capacità dell’animale uomo di restare aggrappato al qui e ora. Era piuttosto impressionante, perfino affascinante, nonostante l’ovvia inutilità.

    «Sì, sì, l’ho fatto, Roland. Sono stata io. Io da sola».

    C’era un accenno di orgoglio nella sua ammissione, come se stesse parlando di una promozione. Roland lo trovò ancora più sconcertante. Scosse il capo, l’incredulità appannava tutto, anche dopo aver visto e sentito la sua confessione. Osservava la donna di mezza età che gli sedeva di fronte, curata, un bel viso. La stessa che gli aveva servito i canapè su vassoi decorati da centrini, caffè filtrato e torte fatte in casa. Qualcosa non quadrava. Era sposata con Mark Brooker, un uomo che ammirava e stimava. Un uomo cui aveva affidato l’istruzione della sua unica figlia.

    Roland respirò lentamente e si grattò il mento dove la ricrescita della barba gli dava più fastidio. L’ambiente caldo e stressante della sala degli interrogatori non giovava certo alla sua pelle sensibile. Voleva andare a casa a farsi una doccia. Ancora di più, avrebbe voluto riavvolgere il nastro di quella giornata e non rispondere alla telefonata delle tre del mattino che avrebbe turbato il riposo della sua famiglia e distrutto la comunità per come la conosceva.

    Kathryn percepì la sua irritazione, sapendo che era un tipo che amava dormire. Lo immaginò a casa sua la sera prima, mentre gustava un’orata con contorno di verdure al vapore e vino bianco ghiacciato, dopo un’ora di palestra per conservare la pancia piatta. Niente avrebbe lasciato credere che il suo momento sabbatico sarebbe finito così, di fronte a lei al tavolo della stazione di polizia di Finchbury a quell’ora assurda, cercando di capire cosa diavolo fosse successo.

    «Sei sicura di voler parlare con me?», la sollecitò.

    La giacca si aprì rivelando la fodera di seta rosa acceso del suo vestito di sartoria. Kathryn immaginò i suoi colleghi che lo prendevano per i fondelli, ma conosceva abbastanza Roland e la cura che dedicava al proprio aspetto per sapere che non avrebbe prestato loro la minima attenzione. Non lo avrebbero mai visto in abiti spiegazzati di marca economica come altri del suo gruppo. Ricordò una conversazione che aveva sentito tra lui e Mark in cui si lamentava di non dover più indossare l’uniforme, conseguenza inevitabile dell’avanzamento nella gerarchia, con la nomina a ispettore capo. Gli piaceva così tanto strofinare i bottoni, lucidare gli stivali e rimuovere filetti dalla lana della giubba. Lo osservò passarsi una mano sugli addominali, chiaramente godendosi la sensazione di se stesso contro il tessuto della camicia bianca.

    «Sì».

    «Sei assolutamente certa che non sarebbe più facile con un estraneo?».

    A Kathryn non sfuggì il lampo di speranza nei suoi occhi spalancati.

    «Per me va bene così, Roland. Grazie per averlo chiesto, ma non c’è nessun altro con cui sceglierei di parlare e apprezzo che sia venuto tu, rinunciando al sonno, davvero».

    Era come se non capisse, come se lo avesse invitato invece che tirato fuori dal letto alle prime ore del mattino, in risposta al primo caso di presunto omicidio che aveva trovato sulla sua strada in diciotto anni. Non c’era cedimento nella voce della donna, né nervosismo evidente. Teneva le mani raccolte con cura in grembo. Appariva calma come se stesse nella sala d’attesa del medico.

    Roland era poliziotto da vent’anni. Ne aveva viste di situazioni – raccapriccianti, inique e divertenti. Ma questa? Non aveva senso; era sconcertante. Lo aveva sorpreso, scosso.

    «Sembri molto calma, considerando la tua situazione attuale».

    Si chiese se non fosse sotto shock.

    «Sai, è buffo che tu lo dica, perché mi sento calma, mi sento molto calma».

    «La cosa mi preoccupa immensamente».

    «Oh, Roland, non c’è da preoccuparsi, non c’è bisogno. È un grande cambiamento per me, questa sensazione di serenità. Avevo quasi dimenticato come fosse! In effetti, credo di non provarla da quando ero bambina. C’è stato un tempo delizioso nella mia vita in cui non avevo assolutamente niente di cui preoccuparmi ed ero molto amata. Ho avuto un’infanzia meravigliosa, una vita meravigliosa. Non sono stata sempre così».

    «Così come?»

    «Oh, sai… impaurita, nervosa, repressa. Ero piuttosto determinata. Mai selvaggia o audace, ma ero abbastanza convinta di poter incendiare il mondo, segnare un cammino. Pensavo che avrei ottenuto così tanti risultati. I miei genitori mi dicevano che l’unico limite ai risultati era la mia immaginazione e io ci credevo. Sono morti entrambi, ora, e non penso più tanto a loro».

    «Perché no?».

    Respirò profondamente.

    «A dire la verità, Roland, ho sempre pensato che i morti in qualche modo possono osservarci, che abbiano la capacità di proteggerci. Se i miei genitori mi avessero osservato, mi sarei vergognata di tutto quello a cui avrebbero dovuto assistere, mortificati da quello che ero diventata. Di contro, se fossero stati in grado di proteggermi dalla loro galleria di osservazione lassù, perché non lo hanno fatto? Ho perso il conto di quante volte ho chiesto, pregato per un aiuto, sempre invano. Quindi tendo a non darmi pena. È troppo confuso e se c’è una cosa che non mi serve più è la confusione».

    «Se sei stata tu, Kathryn, allora la domanda è: perché? Perché l’hai fatto?».

    Con il sorrisetto di chi non sa da dove cominciare ma sa di doverlo fare, Kathryn formulò lentamente la sua risposta.

    «È piuttosto semplice, in realtà. L’ho fatto perché potessi raccontare la mia storia senza paura».

    «La tua storia?». Roland era sconcertato.

    «Sì, Roland. Avevo bisogno di raccontare la mia storia ai miei figli, alla nostra famiglia, agli amici, perfino alla comunità, senza paura».

    «Paura di cosa, esattamente?».

    L’ascoltava da un po’, ormai, eppure non era minimamente vicino a capire.

    Una risatina le sfuggì dalle labbra. Nello stesso momento una lacrima prese a rigarle la guancia.

    «Oh, Roland, non so da dove cominciare! Paura di soffrire, di morire ma, soprattutto, paura di scomparire dentro me stessa e non riemergere più. Non so dove sono andata, vedi. Non so più dov’è la persona che ero una volta. È come se fossi diventata nessuno, come se avessi vissuto al di fuori della società pur standoci dentro. La mia vita è diventata del tutto irrilevante, come se quello che mi succedeva non importasse a nessuno. Sono diventata invisibile, molto spesso parlavo, ma nessuno mi ascoltava. Oggi è successo qualcosa che mi ha cambiato, Roland. Non posso dire che sia stato un momento grandioso, né tantomeno qualcosa di particolarmente memorabile, ma qualcosa è successo e ho capito che era l’ora di dire basta. Era il momento, il mio momento».

    Roland si fermò a riflettere sulle sue parole e decise di non chiedere cosa fosse stato quel qualcosa che l’aveva cambiata.

    «Devi considerare quello che dici, Kathryn. Voglio che rifletti molto, molto attentamente su quello che dici e a chi lo dici. Le tue parole e le tue azioni da ora in poi possono influenzare nettamente quello che ti accadrà. Ogni stralcio di informazione che uscirà dalla tua bocca verrà registrato e avrà conseguenze sul tuo futuro».

    Di nuovo una risatina.

    «Oh, mio Dio, il mio futuro? Ecco un’altra cosa buffa: il fatto è che adesso non devo pensare attentamente proprio a niente. Ho già pensato molto. Ho avuto anni per pensare».

    Roland tacque e soppesò le opzioni, cercando di decidere il corso migliore da dare agli eventi. Spalancò improvvisamente gli occhi. Forse c’era una via d’uscita per la moglie del preside.

    «Penso che sarebbe una buona idea che vedessi un dottore, Kathryn. Per il tuo bene».

    «Ah, sì. Uno psichiatra, presumo. Potrebbe andare. Vedrai che sono molto brava ad agire dietro suggerimento, concordare con affermazioni ed eseguire ordini. In effetti, non distinguo più una cosa dall’altra! Ma forse è bene che tu sappia che, dopo un’attenta valutazione e diagnosi, lui o lei ti scriverà una lunga, contorta e costosa relazione in cui ti dirà che sono sana al cento percento, razionale e nel pieno possesso delle mie facoltà mentali. Il fatto è che ho agito da sola e con totale consapevolezza e comprensione, sia delle mie azioni che delle conseguenze. Ma, vai avanti; trova qualcuno con un certificato incorniciato in oro appeso sulla parete dietro alla sua comoda poltrona girevole che lo confermi, se ti rende le cose più facili».

    «Non si tratta di rendere le cose più facili a me! Cristo, Kathryn, posso solo presumere che tu sia sotto l’effetto di qualche esaurimento nervoso e che le tue azioni siano il risultato di qualche altra forma di follia, temporanea o no».

    A quel punto rise.

    «Temporanea o no? Mi piace. Il fatto è, Roland, che sto dicendo la verità e a mente lucida. Posso raccontarti una cosa?».

    Pregò che fosse qualcosa di razionale e rivelatore, un fatto o un piccolo particolare, qualsiasi cosa.

    «Sì, sì, certo».

    «Ci sono stati momenti negli ultimi vent’anni in cui avrei potuto benissimo perdere il senno, momenti in cui le cose erano così squallide e tristi che mi sono chiesta se non sarebbe stato più facile sprofondare nella depressione e rinunciare. Due cose mi hanno distolto dal farlo, per quanto ne fossi tentata: Dominic e Lydia. Sono stati loro che mi hanno mantenuto lucida e fatto andare avanti. Non sarei stata loro di alcuna utilità se fossi diventata pazza. È stata una dura battaglia, però, non posso negarlo. Ho fissato il mio viso distratto nello specchio giorno dopo giorno chiedendomi fino a quando sarei riuscita a fingere. Ne è uscito fuori che è stato un bel po’!».

    Scoppiò in una risata breve e innaturale.

    Roland la fissò, convinto che avesse davvero perso la ragione, nonostante la sua insistenza.

    «Devo dire, Kathryn, come amico e non come ispettore capo di polizia, che sono preoccupato per te, molto preoccupato».

    La sua risata lo interruppe. Sospirò, inclinandosi leggermente per sfilare dalla manica del maglione un pezzo di Scottex umido con cui si tamponò gli occhi e il naso.

    «Scusami tanto, Roland. Non dovrei ridere, lo so. Sono un po’ emotiva. Sono state quarantotto ore molto difficili».

    Nessuno dei due commentò quella grossolana minimizzazione.

    «Il motivo per cui rido è che negli ultimi diciotto anni avrei tanto voluto che qualcuno si preoccupasse di me o mi salvasse. Ma ora, per la prima volta dal giorno del matrimonio, non ho bisogno che qualcuno mi salvi perché, finalmente, sono al sicuro».

    Appoggiò il palmo delle mani sul tavolo, come ad acquisire forza dalla sua solidità, per enfatizzare il concetto che ora poteva prendersi cura di sé.

    Roland si alzò e cominciò a misurare a grandi passi la sala degli interrogatori della stazione di polizia; le mani sui fianchi, i gomiti in fuori. Stava iniziando a perdere la pazienza, la sua frustrazione aumentava di pari passo con l’assenza di progressi. Aveva la sensazione che quella loro conversazione avrebbe potuto trascinarsi in quel modo per ore e non aveva tempo da perdere.

    «Okay, Kathryn, mi metto nei tuoi panni. Mi trovo in una situazione molto difficile. Non intendo dal punto di vista professionale, ma psicologico. Ho molta difficoltà a capire cosa ti succede. Conosco te e Mark da… quanto? Quasi dieci anni?».

    Kathryn ripensò all’arrivo alla Mountbriers Academy della figlia di Roland, Sophie, all’età di otto anni, con la sua piccola borsa di pelle, gli occhi impauriti, le lentiggini e le trecce oscillanti. Ora era una sedicenne sicura di sé che era stata adocchiata non solo dal suo stesso figlio, ma da qualsiasi altro ragazzo del suo anno. Kathryn annuì. Quasi dieci anni.

    «E in tutti questi anni tu e Mark siete sempre apparsi come una coppia molto affiatata, devota. Parla… parlava… molto bene di te, Kathryn, sempre. Quindi puoi ben capire perché tutto possa sembrare…?».

    Roland fissò per un attimo il soffitto, raddrizzandosi e cercando un approccio diverso.

    «Dio, Kathryn, fatico a trovare le parole per dirlo educatamente, quindi smetterò di provarci e andrò dritto al punto. Mark è… era… un uomo molto rispettato e amato in questa comunità. Era il preside, per l’amor del cielo! Da pochissimo riconosciuto a livello nazionale, rispettato da tutti. E tu ti aspetti che io… tutti noi, in effetti… crediamo che negli ultimi diciotto anni hai vissuto una vita infelice dietro quelle mura di arenaria e le finestre a ghigliottina? Quando tutti noi abbiamo visto una coppia solida e felice, in cui sembravate così devoti l’uno all’altra? Capisci perché la gente avrebbe qualche difficoltà ad accettarlo?».

    Kathryn fece il suo sorriso esitante e scelse con cura le parole.

    «Capisco che la gente vede solo quello che vuole vedere, Roland. Lo so questo. Ma è importante anche riconoscere che alcune persone sono grandi ingannatori. Mark era un grande ingannatore e, in un certo senso, lo ero anch’io. Lui era un mostro che fingeva di essere diverso e io la vittima che fingeva di non esserlo. Colpevole delle accuse».

    «Kathryn, cerca di non usare quella frase, ti prego».

    Kathryn non capì se stesse scherzando oppure no.

    «Okay, Roland. Il concetto che sto affermando è che non mi importa veramente ciò che la gente pensa o quello che pensa di sapere. Io so qual è la verità e un giorno i miei figli la sapranno e questa è l’unica cosa che mi importa. Il fatto è che io sono colpevole e mi aspetto una condanna. Faresti bene a capire che per me non c’è pena che possa eguagliare la vita che ho vissuto come moglie di Mark. Nessuna. Non ho paura, non più».

    Roland sedette all’altro capo del tavolo rettangolare. Allungò le gambe incrociandole all’altezza della caviglia, intrecciò le mani dietro la testa e sospirò. La sua mente tornò alle numerose volte in cui era stato seduto al tavolo della calda cucina di casa Brooker, Kathryn con il grembiule a fiori a servire tè da una teiera a pallini. Mark che teneva banco sfornando battute dopo la celebrazione della domenica, discutendo delle ultime notizie di cricket, mentre la stazione radio di musica classica ronzava piano dietro il delicato tintinnare della porcellana.

    Niente di tutto ciò aveva senso. Roland era pienamente coinvolto e disposto ad ascoltare. Era essenziale che ascoltasse perché ne aveva bisogno. Doveva capire.

    Si fece scorrere la mano sul viso e continuò tra i capelli, abbassando la riga da una parte.

    «Sono anni che faccio questo lavoro e so che le cose possono succedere. A volte per un raptus momentaneo; cose brutte, incidenti…».

    «Penso di sapere dove vuoi arrivare», lo interruppe Kathryn, «ma dovrei fermarti subito. Non è stato un incidente. Non che io avessi pianificato o organizzato niente di tutto ciò, ma non è stato un incidente. Ho pugnalato Mark intenzionalmente e ho tenuto il coltello in mano, volevo ucciderlo. A pensarci bene, in fondo probabilmente era tanto che volevo farlo. Quindi, se è stato un raptus momentaneo, come dici tu, non è stato di fatto un incidente».

    Roland scosse il capo; quella donna non si stava aiutando affatto.

    «Ti dico cosa mi sarebbe di grande aiuto… Perché non mi fai qualche esempio?»

    «Esempio?»

    «Sì, qualcosa che mi farebbe capire appieno cos’hai passato. Raccontami qualcosa di tipico».

    «Qualcosa di tipico?»

    «Sì, un’istantanea, se vuoi. Fammi un quadro che mi aiuti a capire: dimmi esattamente com’era lui. Spiegami cosa ti faceva di tanto brutto. Illuminami in parole semplici su cosa ti ha fatto passare. Hai parlato di paura e torture, ma io ho bisogno che siano reali. Dimmi cosa ti faceva per farti così tanta paura. Raccontami cosa ti ha fatto per spingerti a togliergli la vita».

    Roland aveva abbandonato l’angolazione da amico ed era ora in piena modalità poliziotto.

    «Vuoi un’istantanea?»

    «Se vuoi, sì».

    «Fammi pensare. Un’istantanea. Qualcosa che era tipico…».

    Tacque.

    «È difficile sapere da dove cominciare. Quanto darti».

    «Dammi qualcosa, Kathryn, qualcosa che non sia la frase mio marito era un mostro, che è un po’ troppo generica e drammatica per risultare davvero utile. Dammi qualcosa di tangibile, qualcosa che mi aiuti a capire, qualsiasi dettaglio che mi aiuti a spiegarlo agli altri».

    «Giusto. C’è una cosa che vorrei dire prima di cominciare ed è che non esagererò né minimizzerò i fatti. Ti ho detto che continuerò a dire tutta la verità e nient’altro che la verità, è così la frase?».

    Roland annuì. «Sì, ci sei molto vicina. Quando vuoi, sono pronto».

    Kathryn prese un respiro aspro e con il pollice sinistro fece girare la fede intorno al dito. Non le era passato per la testa di toglierla, ma in quel momento decise di farlo non appena fosse rimasta sola. La tirò su e constatò brevemente il segno che le aveva lasciato, chiedendosi quanto tempo ci sarebbe voluto perché scomparisse. Avrebbe segnato un grande passo verso l’emancipazione.

    «Be’, Mark era molto esigente, ossessivo in realtà. Non mi era permesso indossare jeans o pantaloni, solo gonne. Dovevo dar conto più o meno di ogni minuto della mia giornata; c’era pochissimo spazio per la libera scelta. Potevo decidere che strada fare per andare al supermercato e quale verdura mettere nella minestra, ma niente altro. Come e dove riporre gli alimenti, quando servire la cena, era tutto prescritto. Dovevo sbrigare ogni giorno una serie di faccende, spesso inutili e ripetitive che erano pensate per esaurirmi e annullarmi nell’anima…».

    Roland si poggiò l’indice e il pollice nelle orbite. Riusciva solo a immaginare quelle parole ripetute in tribunale: Ho ucciso mio marito perché era un po’ esigente, mi preferiva con la gonna. E dovevo fare i lavori di casa. Oh, Gesù, se si presentava con queste cose, la maggior parte delle donne della corte avrebbe avuto un movente. Sperava che avesse qualcosa di meglio.

    «Alla fine di ogni giornata dovevamo salire al piano di sopra insieme. Con un unico muro di malta a dividermi dai miei bambini, dovevo inginocchiarmi ai piedi del letto e Mark mi assegnava dei punti in base a quanto male pensava che avessi eseguito le faccende quel giorno. Punti extra mi venivano aggiunti se lo avevo fatto arrabbiare o irritare».

    Ottenne la sua attenzione.

    «I punti andavano su una scala da uno a dieci, e quanto era negativo il punteggio, dieci era il peggiore, determinava quello che sarebbe accaduto dopo».

    Le lacrime di Kathryn si insinuarono nel pezzo di Scottex in attesa. Il respiro le si fermava nella gola, lo stress più per la vergogna di raccontarlo che per il ricordo degli eventi.

    «Punti?».

    Roland scosse il capo. Kathryn non riuscì a capire se per compassione o incredulità.

    «Sì. E poi mi avrebbe fatto del male».

    Questo lo sussurrò e Roland dovette tendere le orecchie per sentirla.

    «Da quanto tempo ti faceva tutto questo, Kathryn?».

    Tossì, si ricompose e continuò abbastanza vivacemente, come se volesse illudere se stessa che andava tutto bene.

    «Be’, a riguardare indietro, posso dire che mi ha vessato dal primo momento in cui ci siamo conosciuti. All’inizio erano piccole cose: criticava il mio abbigliamento, il modo in cui mi acconciavo i capelli e non gli piaceva nessuno dei miei amici. Ha messo fine alla mia carriera di insegnante di Inglese, che è stato un peccato. Ha rotto o gettato via tutto quello che possedevo prima di incontrare lui, ascoltava le mie telefonate, quel genere di cose. Mi ha lentamente alienata dalla mia famiglia. Tutte le sue azioni erano pensate per destabilizzarmi e rendermi sempre più dipendente da lui, tagliando i ponti con i miei alleati e distruggendo la mia autostima, in modo che quando ha iniziato con i veri abusi ero già una vittima e praticamente sola. Sono diventata incapace di prendere una decisione con sicurezza, tale era la mia confusione. Non avevo voce. O per lo meno così mi sentivo».

    «E quando dici veri abusi… da quanto tempo duravano?»

    «Oh, fammi pensare… da quando ero incinta di Dominic».

    «Che adesso ha sedici anni?»

    «Sì, è così, anche se non sembra possibile. Sedici anni… come passa il tempo, eh? Sicuramente te ne accorgi con Sophie. A volte mi sembra di aver inseguito un lattante in pannolino in giro per casa, di aver voltato un attimo le spalle per ritrovarmi con questa invincibile forza vitale, un teenager. Scusa, Roland, forse sto andando un po’ fuori tema, vero?».

    Osservò l’espressione dell’uomo, comprendendo che si trovava in una posizione scomoda. Kathryn sapeva che non sembrava plausibile; suonava da folli che lei stesse parlando di Mark Brooker, il preside! Sapeva che Roland e qualsiasi altro genitore riusciva a pensare solo al Mark con le sue solide strette di mano e la battuta pronta. Sarebbero stati tutti d’accordo nel definire sconcertante l’intera vicenda. Come avrebbe reagito a tutto ciò Judith, la sua segretaria personale? Kathryn sorrise a se stessa pensando alla reazione di quella donna, riusciva solo a immaginarla mentre diceva: Mark non era un uomo odioso, anzi, era alquanto meraviglioso….

    Kathryn sperò che, dopo che i fatti fossero stati resi noti una volta per tutte, la gente si sarebbe posta un’importante domanda: se la sua vita fosse stata così perfetta come Roland e tutti gli altri avevano sempre pensato, perché lo avrebbe fatto? Perché avrebbe costruito l’intero incubo e poi chiesto di scontare la pena, se non fosse stato vero? Sempre che non fosse pazza, ovviamente. E Kathryn era determinata a dimostrare di non esserlo

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