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Zvanì. Il fanciullino di casa Pascoli
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Zvanì. Il fanciullino di casa Pascoli
E-book292 pagine4 ore

Zvanì. Il fanciullino di casa Pascoli

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“Zvanì”, un romanzo-saggio sulla famiglia Pascoli, che entra nel quotidiano, fin dall’infanzia del piccolo Giovannino. Emerge una storia intricata, senza spiare dal buco della serratura e senza la morbosità intorno ai suoi presunti o falliti amori, come talvolta, è stato fatto. Dopo tutto Pascoli nutrì un solo amore: quello fanciullesco ed intenso per sua madre. Fu l’amore, che egli, volle inseguire, nel corso della sua vita adulta, anche dopo la morte della stessa madre. E fu il suo tormento. Ma anche la grandezza della sua arte.
“Zavnì” ci aiuta a conoscere il Pascoli studente in collegio ad Urbino, quello attratto dalla politica, che lo condusse in carcere, del Pascoli docente e bibliotecario nel suo peregrinare tra Matera, Massa, Livorno dove il “nido” sembra disfarsi, per poi trovare la ri-creazione a Castelvecchio.
Il libro è nato nella scuola per la scuola e insegue una finalità didattica. In senso lato, perché rivolto agli studenti “per sempre”. A quelli che oggi studiano il poeta e che vogliono riceverne uno stimolo ulteriore, a quelli che l’hanno studiato ieri ed hanno una nostalgica voglia di rileggerlo, a quelli che lo studieranno un domani e conserveranno ancora la voglia di poesia.
La narrazione tende al colloquio scolastico con tre interlocutori: Giovanni, Zvanì e Mariù. Con il Pascoli sopravvissuto alle sue angosce di distruzione, soltanto, perché la madre gli ha fornito, per consolarlo, la ri-creazione del Nido. É il segreto della sua esistenza e della sua arte. Giovanni lo rivela all’incredula sorella Mariù, che, avendo contribuito a ri-creare la famiglia ideale della loro infanzia, è convinta di essere stata l’unica donna depositaria di tutti i suoi affetti. Lo scenario, in cui il poeta rivela alla sorella il suo drammatico scacco esistenziale, è la notte dopo il doppio tramonto del sole dietro il Monte Forato sulle Alpi Apuane. Il poeta ha assistito a quel miracolo della natura, con religiosa commozione, come se si trattasse di un sacro rito massonico - templare.
Poi gli è apparso Zvanì.
 
LinguaItaliano
Data di uscita14 lug 2020
ISBN9788832281552
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    Anteprima del libro

    Zvanì. Il fanciullino di casa Pascoli - Vincenzo Placido

    edizioni

    Copyright

    © Copyright Argot edizioni

    © Copyright Andrea Giannasi editore

    Lucca, luglio 2020

    1° edizione

    Tutti i diritti sono riservati. Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633).

    ISBN 978-88-32281-53-8

    I lettori che desiderano informazioni possono visitare il sito internet: www.tralerighelibri.com

    Con il contributo della Fondazione Banca del Monte di Lucca.

    Con il patrocinio della Fondazione Giovanni Pascoli.

    dedica

    A Vincenzo, Margherita e Samuele

    i miei tre nipoti

    perché amino la poesia.

    Premessa

    Zvanì mira a svincolarsi dal genere narrativo del romanzo, a cui apparterrebbe, e aspira a diventare saggio. Senza averne la possibilità. Perché non nasce dal rigore di un ricercatore, ma dall’esperienza sul campo di un docente di scuola secondaria. Durata trentacinque anni è stata sorretta da uno studio appassionato per gli autori di letteratura ed in particolare per Giovanni Pascoli. Un amore fatto condividere ai suoi studenti. Essi sono i coautori occulti di Zvanì, ma non per questo minori; se non altro per gli appunti, che hanno preso, durante le lezioni, e per le riflessioni svolte durante le visite guidate a Casa Pascoli. Nel loro insieme hanno costituito, il canovaccio su cui l’autore primario ha articolato l’elaborazione del testo.

    Se si vuole, quindi, Zvanì è un romanzo-saggio sui generis. Nato nella scuola per la scuola, insegue ancora oggi una finalità didattica. In senso lato, perché rivolto agli studenti per sempre. A quelli che oggi studiano il poeta e che vogliono riceverne uno stimolo ulteriore, a quelli che l’hanno studiato ieri ed hanno una nostalgica voglia di rileggerlo, a quelli che lo studieranno un domani e conserveranno ancora la voglia di poesia.

    La narrazione, perciò, semplice, ma scorrevole, tende al colloquio scolastico. Per facilitarne la lettura, ha altresì un andamento dialogico, con tre interlocutori: Giovanni, Zvanì e Mariù. Interviene di tanto in tanto una voce narrante, che, non ne spezza il ritmo. Sviluppa, infatti, una serie di riflessioni sulle vicende biografiche più significative dell’uomo Pascoli e sul suo sofferto vissuto interiore. Esse si collegano puntualmente al dialogo svolto e ad alcune sue liriche, esposte e parafrasate a corredo della narrazione. In questo quadro Zvanì vuole piacere al lettore, perche ne risulta una storia intricata, senza spiare dal buco della serratura e con morbosità i suoi presunti o falliti amori, come talvolta, è stato fatto. Dopo tutto egli nutrì un solo amore: quello infantile ed intenso per sua madre. Fu l’amore, che egli, volle inseguire, nel corso della sua vita adulta, anche dopo la morte della stessa madre. E fu il suo tormento. Ma anche la grandezza della sua arte.

    L’autore.

    PRIMA PARTE

    CAPITOLO 1

    Il 20 Settembre del 1897 vi era un’insolita animazione nella splendida cittadina toscana di Barga. La festività nazionale della Breccia di Porta Pia coincideva con un evento molto importante: la consegna della cittadinanza onoraria a Giovanni Pascoli.

    Il poeta, da circa due anni, si era trasferito da Livorno nella frazione di Castelvecchio di Barga. Aveva scelto di abitare in una casa sul colle di Caprona, immersa nel verde, ad alcuni chilometri di distanza dal capoluogo. Il Consiglio Comunale aveva deciso di conferirgli l’importante riconoscimento per aver privilegiato Barga come luogo di abituale dimora. Era un valore in più per il prestigio del Comune, che già poteva menare vanto di aver dato i natali al Senatore Antonio Mordini, ex mazziniano e garibaldino, famoso per essere stato Prodittatore nella Sicilia liberata dai Mille. Per questo motivo, a sottolineare, ancora di più, l’importanza della cittadinanza concessa al poeta nazional-popolare, sarebbe stato proprio il senatore Mordini, eroe della Patria, a presentarlo ufficialmente ai concittadini nella giornata simbolo della compiuta unità d’Italia.

    Il luogo prescelto per la solenne cerimonia era quello che, ancora oggi, è la sede delle adunanze civiche: la Sala Colombo al Giardino. Lo spazio antistante era gremito, sin dal primo mattino, dalla gente. Per lo più si trattava di semplici cittadini, curiosi di conoscere il poeta, o desiderosi di vedere − o di farsi vedere − dal senatore. Applausi scroscianti avevano accolto i due illustri personaggi, dopo che, scesi da un’automobile, si erano incamminati verso la Sala fra due ali di folla che applaudiva. Gli invitati ufficiali alla cerimonia vi avevano preso già posto in anticipo. Al loro arrivo si alzarono ed applaudirono a loro volta. Mordini e Pascoli, dopo una stretta di mano alle singole autorità presenti, che li attendevano seduti in prima fila, assunsero la presidenza del tavolo, a fianco del Sindaco Giuseppe Salvi. Il Senatore presentò a tutti il poeta pronunciando a gran voce il suo nome ed abbracciandolo fraternamente. Pascoli, dopo il discorso introduttivo del Sindaco, visibilmente commosso, prese la parola:

    Signor Sindaco e caro amico On. le Senatore, concittadini di Barga, Signori, ringrazio… ma devo limitare, circoscrivere l’onore che mi fate; se no, non l’accetterei…Voi mi dite vostro concittadino, per il gusto che ad altri parrà singolare e che a me pare così naturale, di stabilirmi in campagna presso voi. Né già per industria, né già per un calcolo qualunque, ma per contemplare il sole che tramonta dietro il Monte Forato, la luna che pende come una lampada accesa sul colle di Barga, per appoggiarmi all’ombra dei castagni e parlare con cuori di contadini.

    Nel discorso di ringraziamento per la cittadinanza concessagli, Pascoli, dunque, aveva premesso, come esclusiva, una motivazione artistico-contemplativa al suo trasferimento da Livorno.

    In realtà, più che esclusiva, era complementare a ragioni più profonde. Si occultavano negli intricati risvolti della sua personalità, oltre che nel disorientamento ideologico della fase storica in cui viveva. Ne era comune denominatore l’ossessione del Male.

    Il Male aveva armato la mano degli assassini che avevano ucciso suo padre in un vile agguato. Il Male aveva aggredito la famiglia della sua infanzia, spargendovi il seme della morte e disgregandola. Egli era riuscito a ricrearla con grandi sacrifici con le due sorelle rimaste sole in un convento: Ida e Mariù. Ma il Male disgregatore non aveva cessato di minacciarla. Ida ne era stata la testimonianza: si era sposata e se n’era andata lontano a creare un’altra famiglia. Rimasti a difendere quel piccolo Nido in due, Giovanni e Mariù, era necessario rafforzarne le difese, affinché non andasse incontro ad ulteriori rischi. Quale soluzione se non quella di occultarlo? Il miglior rifugio gli sembrò proprio la casa sull’isolato Colle di Caprona di Castelvecchio di Barga, uno sconosciuto villaggio nascosto tra i boschi della Media Valle del Serchio, incastrata fra il fiume e le due catene montuose dell’Appennino Tosco-Emiliano e delle Alpi Apuane.

    Oltre a questo motivo, a favorire il trasferimento da Livorno a Barga, fu un abbaglio storico che aveva investito l’animo del Pascoli, come quello di altri intellettuali, a partire dalla fine del secolo XIX.

    Il Positivismo aveva distrutto le certezze della Fede e non era riuscito a imporre quelle della Scienza. I miti della Tecnica e del Progresso erano crollati. Era soltanto la fine di una fase storica, che segnava la definitiva transizione dalla civiltà agricola a quella industriale. Ma la caduta dei valori di quel periodo fu confusa da molti come il crollo universale di tutti i valori. La maggioranza degli intellettuali, sentendosi privati dai consueti parametri di orientamento, si trovò allo sbando. Incapaci di affrontare il disagio dello stare al mondo, si sentirono perseguitati da un misterioso Male. La reazione conseguente fu la fuga.

    Per alcuni, come il Pascoli, dalla Civiltà che lo alimentava, verso un salvifico riparo fra le braccia della Natura.

    Il suo trasferimento, dalla cosmopolita città portuale di Livorno all’isolato e nascosto villaggio di Castelvecchio di Barga, significò per lui un rifugio dal Male che lo minacciava.

    Una scelta che ad altri poteva apparire fuori dal comune, ma che era invece naturale per Pascoli, se si considera che proprio la Natura, dotando i luoghi di Barga di meravigliose bellezze paesaggistiche, aveva fatto come dei miracoli. Ve n’era uno, in particolare, che affascinava oltremodo il poeta. A tal punto da farne il motivo centrale del discorso di ringraziamento, durante l’onorificenza della cittadinanza ricevuta.

    Il paesaggio che incornicia Barga, fra gli Appennini, la Valle del Serchio e le Alpi Apuane, già spettacolare di per sé, affascina ancora di più per un fenomeno che ha del magico in due diversi periodi dell’anno; durante i quali, prima dell’imbrunire, si può assistere ad uno spettacolo unico al mondo; il sole non tramonta una volta sola, ma due volte.

    L’osservazione del prodigio è possibile da vari luoghi del territorio di Barga. Ma la visione più suggestiva si presenta volgendo lo sguardo dal piazzale del monumentale Duomo della città, nella direzione Sud delle Alpi Apuane; verso il gruppo delle Panie, a meridione della Pania Secca, fra le due cime del Monte Forato. Il monte è così chiamato perché un’arcata originale le collega fra loro, dando origine ad un foro sottostante.

    Quaranta giorni prima e quaranta dopo il solstizio d’inverno, il Sole, che è già tramontato lungo la parte superiore dell’arco, riappare, dopo alcuni secondi, al suo interno, per poi tramontare definitivamente.

    Ovviamente il sole tramonta lungo la cresta del Monte Forato una volta soltanto, così come avviene all’orizzonte degli altri luoghi del mondo. Però l’illusione ottica che ne deriva all’osservatore dal piazzale del Duomo di Barga, in quei due giorni, è talmente suggestiva da far credere che si verifichi un doppio tramonto. La direttrice dello sguardo, infatti, va ad incrociare per una seconda volta la vista del sole già scomparso, quando esso combacia perfettamente con quella del foro, per poi tramontare davvero.

    Altrettanto suggestiva è la leggenda sull’origine del Monte Forato. Si narra che San Pellegrino − che poi santo non è, perché non risulta mai canonizzato, né rintracciabile in nessun annuario dei Santi − sia vissuto intorno all’anno Mille. Si sostiene anche che sia stato l’erede del trono di Scozia. Già principe, giunto in età adulta, divenne consapevole che il suo regno, in quanto terreno, era legato alla fugacità del tempo, come tutte le cose di questa terra. Volle allora rinunciarvi per conquistarsene uno eterno. I monaci scozzesi gli avevano garantito che lo poteva ottenere, con sicurezza, soltanto dedicandosi alla vita ascetica e contemplativa dell’eremitaggio. Partito perciò dalla Scozia, dopo varie peregrinazioni, giunse in Italia. Qui scelse, come luogo ideale per la sua vita solitaria, un cucuzzolo dell’Appennino Tosco-Emiliano, di fronte alle Alpi Apuane. Era un posto sulla cima di una montagna dove, in seguito, in suo ricordo, avrebbero avuto origine un paesino ed un santuario che portano il suo nome: San Pellegrino in Alpe. Il soggiorno però, per lui, non dovette rivelarsi tanto ideale. Non a causa del rigido clima invernale, che, come eremita, era tenuto a sopportare, bensì della coabitazione con un demonio tentatore, che non riusciva ad allontanare nonostante avesse piantato croci dappertutto. Il demonio continuava ad infastidirlo e a provocarlo di continuo, con svariati allettamenti, ma invano. Si presentò persino sotto le sembianze di una concupiscente fanciulla, senza che Pellegrino ne restasse minimamente turbato. Alla fine, visti gli inutili tentativi, il diavolo gli mostrò il suo vero e orribile volto. A quel punto l’eremita, che aveva resistito alle varie tentazioni, non ce la fece più. La vista del demonio gli apparve talmente abominevole da non poterla sopportare un istante. Allora afferrò il diavolo per la coda e, con tutta la forza che gli poteva dare il Padreterno, lo scaraventò contro una parete delle Alpi Apuane. La roccia delle montagne, evidentemente meno dura della testa del maligno, non resistette all’impatto. Fu lacerata ed attraversata dal corpo del diavolo, che finì nel mare della Versilia. Ebbe origine cosi il buco arcuato del Monte Forato. Pellegrino si liberò del diavolo, gli abitanti della costa videro due volte l’alba e quelli della parte di Barga due volte il tramonto del sole.

    Leggenda di San Pellegrino a parte, è ovvio che l’arco fra le due cime del Monte forato si è formato nel corso dei millenni, in seguito all’azione erosiva dell’acqua e del vento. Ma i popoli del Medioevo, a digiuno di nozioni geologiche, condizionati dalla loro visione ultraterrena della realtà, dovettero ricorrere alla leggenda del Santo Eremita. Giustificarono così l’esistenza di un monte forato, oltre che del doppio tramonto, e dettero vita al culto di un santo, che santo non era.

    I popoli ancora più antichi, che non conoscevano né miracoli, né santi, ma erano abituati ad attribuire la spiegazione di fenomeni misteriosi all’intervento della divinità, dovettero darsene una motivazione magico-sacrale, con riferimento al Dio-Sole. La credenza favorì il diffondersi, nei luoghi intorno a Barga, di arcaiche pratiche religiose rivolte all’infuocato astro celeste. Fu per questo motivo che, anche per la favorevole posizione geografica, il suo territorio, fin dalla preistoria, divenne sito privilegiato per le tappe dei popoli nomadi e, nell’età successiva, quello preferito della zona per la base dei primi insediamenti stanziali, ove poi sarebbe sorta la città.

    I resti di tali stanziamenti sono stati rinvenuti sulla cima della rocca su cui è sorto l’attuale duomo di Barga. La città, digradando a terrazzi verso la valle, offre un’ampia visuale delle Alpi Apuane. In più dalla sua sommità permette allo sguardo di incrociare, alla perfezione, l’arco del Monte Forato ed il sole che vi appare, scompare e poi riappare. Gli studi archeologici inducono ad ipotizzare che la rocca per questo motivo ebbe un ruolo sacro già prima del Cristianesimo. Su di essa vi sarebbe preesistito un tempio pagano, dedicato proprio al Dio Sole. Sui suoi ruderi, in seguito a vari rifacimenti, dal X al XVII secolo, è stata eretta l’attuale Chiesa.

    Un alone di misteriosi simboli avvolge il sacro monumento. A cominciare da quelli attribuiti ai monaci Templari. Il loro ordine, come è noto, legava alla missione religiosa finalità laiche e cavalleresche. I monaci-guerrieri sarebbero stati interessati ad erigere un loro tempio a Barga, nel luogo ove sorgerà il Duomo. Non dovrebbe trattarsi di un’ipotesi peregrina. L’avvalora la sua struttura di fortilizio, più che di Chiesa, e la sua allocazione sulla linea sacra di San Michele Arcangelo. Il luogo di osservazione preciso del doppio tramonto, ovverosia la rocca Duomo, è attraversato da un’immaginaria linea geografica, tracciabile lungo il continente europeo da Nord-Ovest a Sud-Est. Su di essa si attesta lo storico percorso attraversato dai pellegrini per venerare San Michele − l’Arcangelo vendicatore del demonio − nei sette santuari a lui dedicati lungo la linea sacra, che simboleggia il colpo di spada inferto dal Santo al demonio. Essa iniziava dal Santuario, costruito sulla Roccia di San Michele in Irlanda, e terminava con quello eretto in Palestina ad Haifa, presso il Monastero del Carmelo. Significativo è il fatto che uno dei due venerati in Italia fu scavato nella Grotta di Monte Sant’Angelo, sul Promontorio del Gargano in Puglia. Ed è importante rilevare come proprio da Brindisi, porto di quella regione, salpavano le navi dirette in Terra Santa per raggiungere il Santo Sepolcro di Cristo in Gerusalemme, ultimo approdo del sacro cammino dei pellegrini.

    L’ordine dei Templari, infatti, era nato per proteggere i pellegrini non solo dagli infedeli in Terra Santa, ma anche dai predoni durante il loro tragitto in Europa. La linea dei pellegrinaggi ed alcuni simboli rinvenutivi possono accreditare la tesi che il Duomo di Barga, all’epoca delle Crociate, fungesse anche da postazione militare dei Templari. A ridosso degli Appennini, di fronte alle Alpi Apuane, in posizione dominante sulla Valle del Serchio, costituiva un luogo strategico importante su una variante della via dei pellegrinaggi. Il Duomo, insomma, luogo di preghiera nel solco di una preistorica tradizione religiosa legata al Dio Sole, era inserito, per via del suo doppio tramonto, in un contesto geo-militare privilegiato, sia per la postazione difensiva che offensiva; luogo che predisponeva alla preghiera come alla battaglia e che pertanto si conciliava con la missione dei Templari, monaci ma anche guerrieri.

    Giovanni Pascoli non era né monaco né guerriero come lo erano i Templari, ma al pari di loro aveva scelto Barga, per contemplare il sole che tramonta dietro il monte forato. E ai Templari lo accomunava anche una credenza molto diffusa sull’origine della Massoneria, a cui egli teneva, in quanto il poeta fu anche un Libero Muratore. Era stato, infatti, iniziato alla Loggia Massonica Rizzoli di Bologna nello stesso anno in cui si era laureato. Lo testimonia il suo autografo testamento massonico, a forma triangolare, di recente ritrovamento. Alla prima delle tre rituali domande di affiliazione, ovvero Che cosa deve l’uomo alla Patria?, egli aveva risposto: la vita. Un’affermazione che appare retorica, se non impegnativa. Comprensibile, però nel contesto della fede massonica post-risorgimentale.

    Già nel Settecento una strumentale analisi storica aveva indotto ad una disinvolta interpretazione della fine dell’Ordine dei Templari. Alcuni di essi, riparando in Scozia, sarebbero sopravvissuti non solo alle persecuzioni di Filippo il Bello, ma anche alla Bolla di soppressione dell’ordine emanata da Papa Clemente V. Memori, quindi, della loro identità, per vendicare l’onta subita, sarebbero divenuti i paladini della lotta per ogni libertà. Fu così che, non potendo agire più allo scoperto, avrebbero fatto germogliare varie società segrete a tendenza libertaria, fra cui la Massoneria.

    Nell’età post-risorgimentale la portata di tale credenza crebbe. Nella vicenda storica dei Templari, molti artisti ed intellettuali vollero vedere non solo gli inizi della Massoneria, ma anche del Risorgimento; tanto che Garibaldi e gli eroi garibaldini vennero definiti i Nuovi Templari. Ecco perché il triangolo Templari-Massoneria-Risorgimento, per Pascoli, vissuto negli anni dopo l’Unità, influì sul suo giuramento iniziatico di affiliazione alla Loggia Rizzoli e diventa perciò comprensibile anche il motivo per cui fra i Poemi del Risorgimento, con i quali egli voleva offrire il suo supremo tributo alla patria, ne avesse previsto uno specifico intitolato I Templari.

    Il doppio tramonto del Monte Forato, pertanto, al di là del coinvolgimento estetico, metteva in moto nell’animo del poeta un atteggiamento fideistico-emotivo di notevole intensità. In quella mirabile visione egli, navigando nel tempo, vi ritrovava i primi Cavalieri del Tempio di Barga e vi rintracciava le radici del suo sentimento patriottico, oltre che del suo credo massonico. Assistere al fenomeno significava per il poeta compiere un rito. Il sole che tramonta per poi risorgere è il simbolo, per la liturgia massonica, della rinascita spirituale dell’iniziato, a conferma della vittoria della luce sulle tenebre.

    Pascoli, in genere, osservava il doppio tramonto dall’altana della sua casa di Caprona, in compagnia della sorella Mariù, o di qualche amico-fratello arrivato appositamente. Si tuffava nella spettacolarità del fenomeno lasciandosi avvolgere da una religiosa atmosfera di sacralità, simile a quella che già coinvolse i primi uomini insediatisi Barga e, successivamente, i monaci templari, stregati dal doppio tramonto. Un fascino che, superata indenne la barriera del tempo, coinvolgeva intensamente anche lui.

    CAPITOLO 2

    Erano trascorsi, ormai, quattordici anni dal giorno in cui Giovanni Pascoli era diventato cittadino onorario di Barga. Tante cose erano cambiate nella sua vita. La sua carriera accademica e la sua produzione artistica si erano incanalate in un crescendo inarrestabile, la docenza in cattedre sempre più prestigiose, da Bologna a Messina, a Pisa e poi ancora a Bologna, i successi poetici da Miricae ai Canti di Castelvecchio, i concorsi letterari, nazionali e internazionali, fra cui quelli in lingua latina vinti ad Amsterdam, a suon di medaglie d’oro; tutto ciò aveva fatto di lui un letterato famoso, i cui diritti d’autore gli procuravano un discreto benessere. La sua vita era mutata, anche se non era cambiata la sua voglia di fuggire, quando gli era possibile, dagli impegni pubblici e dalla vita mondana, per appartarsi nella sua casa-rifugio sul colle di Caprona, dalla cui altana non era mai mancato ai rituali appuntamenti con il doppio tramonto del sole.

    Quel tardo pomeriggio del 30 di gennaio del 1912 il poeta volle recarsi personalmente sul piazzale del Duomo, ove il fenomeno sarebbe stato più direttamente visibile. La giornata era fredda, molto fredda, ma il cielo terso e limpido. Il fumo dai ceppi accesi attraversava i camini e si diffondeva nell’aria. Un leggero alito di vento soffiava e la inzuppava della fragranza dei boschi che avvolgono Barga. Il profumo, benché i finestrini dell’auto noleggiata dal poeta fossero ben chiusi, penetrava egualmente nell’abitacolo, intasando le sue narici. Egli lo respirava intensamente, ne godeva e se ne inebriava.

    Lungo i monti apuani, nel frattempo, l’Omo Morto, come viene denominata la sagoma dai monti delle Tre Panie, simile ad un corpo esanime, si stagliava immobile all’orizzonte. E già un primo prodigio si approntava: la bocca dell’Omo, riprodotta dal foro, si sottraeva allo stato cadaverico del corpo e si colorava, pian piano, dei raggi del sole cadente, quasi a volerlo svegliare l’Omo, roccioso ed immobile, dal sonno mortale, rianimandolo.

    Un nutrito gruppo di paesani, di valligiani e di forestieri, nonostante il clima rigido, sostava sul piazzale antistante al Duomo per assistere, secondo un’antica tradizione, al doppio tramonto. Erano divisi in capannelli. Parlottavano fra loro con lo sguardo rivolto ad occidente. Alcuni puntavano di tanto in tanto l’indice della mano verso il sole, quasi a volerne sollecitare il passaggio attraverso il foro. Altri si limitavano ad indirizzare verso di esso lo sguardo.

    Quando il poeta e la sorella giunsero sull’erta, vennero riconosciuti ed accompagnati da un sommesso brusio. La stima per l’illustre cittadino barghigiano era ormai diffusa fra tutti gli abitanti della Valle del Serchio. Ne parlavano e ne erano orgogliosi tutti, indistintamente. In fondo erano i luoghi di Barga e della Valle ad essere stati scelti dal poeta come elettivi e come fonte d’ispirazione della sua opera. Gli amici e i conoscenti si fecero innanzi per salutare festosamente il poeta e la sorella. Alcuni lo fecero con curiosità, perché l’arrivo della famosa coppia sul piazzale era stato del tutto inaspettato. Erano parecchi giorni, infatti, che la coppia non usciva di casa, neppure per le usuali incombenze. Non se ne conosceva il motivo. La notizia da Caprona era rimbalzata a Barga, suscitando una viva voglia di sapere. Anche perché da tempo circolavano strane voci sulla salute del poeta; in parte ciò era vero, anche

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