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Un giorno a Napoli con san Gennaro
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E-book650 pagine9 ore

Un giorno a Napoli con san Gennaro

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Info su questo ebook

Misteri, segreti, storie insolite e tesori

I misteri e le storie inedite, le luci e le ombre del santo dei miracoli tra fede, esoterismo e scienza 

Chiamatelo pure come credete, tanto nessuno dei soprannomi assegnati a san Gennaro (’O Guappone, faccia ’ngialluta, l’Avvocato…) riesce a esprimere totalmente la sua storia – bistrattata, perfino dalla Chiesa – e il percorso politico-religioso che l’ha imposto sul trono della città di Napoli. Ai suoi piedi si è accumulato un patrimonio più ricco del tesoro della regina d’Inghilterra e degli zar di Russia; conta 25 milioni di devoti, eppure i fedeli lo hanno più volte accusato di tradimento e destituito con un colpo di spugna. Braccato dalla scienza, indagato dagli occultisti e osannato dai credenti, tirato per la mitra da Benevento e dalla Calabria che lo reclamano, san Gennaro è sempre nell’occhio di un ciclone, proprio com’è il luogo di culto del martire: di esclusiva proprietà della cittadinanza, benché all’interno della cattedrale partenopea. Ma, chi era realmente san Gennaro? E come mai del prodigio del sangue non c’è traccia fino a oltre mille anni dopo il martirio? Un viaggio contromano nell’universo del vescovo decollato che non piace al Vaticano al punto da retrocederlo. Un’incursione a trecentosessanta gradi tra i “vincoli carnali” che congiungono il campione di Napoli al suo popolo, e tra gli arcani che fanno di Januarius l’ultima divinità pagana della città. 

Un giorno a Napoli con san Gennaro

• Il santo glocal • Un santo tra i libri proibiti • Il rapimento di Sicone I: una storia censurata • L’anno del sangue: il 1389 • È vero che san Gennaro era al servizio dei potenti? • Il prodigio tra fede, alchimia, scienza e fantascienza • Gli esperimenti di quel satanasso di Sansevero • A passeggio con Gennaro: catacombe, cappelle, edicole, porte e guglie
Maurizio Ponticello
è stato corrispondente di testate radiofoniche e televisive, redattore di vari quotidiani e cronista de «Il Mattino». È autore di Napoli, la città velata; I misteri di Piedigrotta; I Pilastri dell’anno. Il significato occulto del Calendario e del thriller La nona ora. Per la Newton Compton ha pubblicato Forse non tutti sanno che a Napoli…, e con Agnese Palumbo, Misteri, segreti e storie insolite di Napoli e Il giro di Napoli in 501 luoghi. Ha avuto diversi riconoscimenti tra i quali il premio Domenico Rea. È vicepresidente della storica associazione Napolinoir.
LinguaItaliano
Data di uscita2 nov 2016
ISBN9788854199491
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    Anteprima del libro

    Un giorno a Napoli con san Gennaro - Maurizio Ponticello

    434

    Prima edizione ebook: novembre 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9949-1

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Realizzazione: Paola Hage Chahine

    Illustrazione: © Fabio Piacentini

    Maurizio Ponticello

    Un giorno a Napoli con san Gennaro

    Misteri, segreti, storie insolite e tesori

    Terra e Cielo sono uno.

    Non si arriva mai tanto lontano

    come quando non si sa più dove si va.

    J.W. GOETHE (1749-1832), Massime e riflessioni

    NB: Questo libro non è stato sottoposto a censura preventiva.

    1

    NAPOLI, CITTÀ IBRIDA

    E DI CONFINE

    Il santo glocal

    «D a opera d’arte vivente, dotata di sensibilità, intelligenza, ironia e straordinaria bellezza, ha voluto lei stessa contribuire al restauro di uno dei luoghi simbolo della storia della città di Napoli: la colonna spezzata…».

    L’accorta motivazione non fu sufficiente a smorzare le polemiche scattate in pugno ai fedelissimi fin dal giorno dell’annuncio. E, quando, a pochi passi dal luogo in cui si compie il prodigio, tra gli applausi e le urla di giubilo sopra il sagrato del duomo fu incoronata la statuaria Belén Rodríguez, bella e con le forme inguainate in un abito merlettato di una divinità pagana, qualcuno mugugnò contro i diavoli che si prendono pure il palco del paladino nostro. La terza edizione del San Gennaro Day – il premio dedicato al patrono napoletano per gratificare il miracolo terreno dell’arte, dell’imprenditoria, della musica, della cultura e della meridionalità – aveva scelto di agghindarsi con abiti succinti e profani. E lei aveva accettato la sfida, figuriamoci: con amabili rotondità, i seni pronti a tuonare dai pizzi del corpetto e il sorriso ammaliante di una sirena, com’era prevedibile, rubò la scena offuscando fior di personalità della cultura, dal filosofo Gerardo Marotta a Iaia Forte, da James Senese all’attore Vincenzo Salemme. Quel che fece, però, storcere maggiormente il naso a certi puritani del costume fu che la kermesse fosse stata organizzata con il patrocinio del Comune e – udite, udite! – della Curia partenopea. Agli occhi dei più ortodossi finì sotto processo anche la dubbia scelta dei tempi: la manifestazione, infatti, fu consumata neanche una settimana dopo i cerimoniali per lo scioglimento del 2015 del sangue di san Gennaro. L’avvenimento del prodigio, poi – in modo inconsapevole, va da sé – fu rievocato dal duetto improvvisato tra Belén e il direttore artistico, il noto conduttore radiofonico Gianni Simioli, che intonò Luna rossa, e per di più su un ritmo sdrucciolo e tarantellato, e perciò notoriamente inviso alla Chiesa. Tuttavia, la goccia che fece traboccare la pisside della tolleranza fu ancora altro: alla dea di carne e curve fu consegnata una maglietta evocativa con una scritta sul petto, ammiccante e con tanto di hashtag: #otengodintosanghe, ce l’ho nel sangue.

    Il cardinale, atteso fino all’ultimo istante sul palco della cattedrale, per la prima volta in tre anni, si era ritratto. In verità, era già sbottato in precedenza con un sonoro borbottio: la presenza della popolare bomba sexy gli era sembrata troppo ardita, eppure tutti avevano avuto la sensazione che, alla fine, la polemica fosse rientrata con un placet comprensivo di pia assoluzione. Probabilmente, l’idea che l’acqua santa condividesse la medesima pedana con una delle molteplici incarnazioni del demonio, fece desistere il cardinale. O, invece, il porporato preferì rimanere dietro le quinte per l’ansia che il fulgore luciferino della soubrette potesse accecare più dello sfavillio dell’arcivescovo?

    A parte le battute, nonostante le rigide perplessità di alcuni, il popolo laico di Gennaro apprezzò l’aspetto ironico dell’intera vicenda. Del resto, nessuno poté negare che pure lei, Belén, scioglie il sangue nelle vene, come ha fatto a lungo un altro compagno della schiera eroica e sovrumana di Gennaro, D10S, anche lui argentino, i cui miracoli da giocoliere del pallone sono stati equiparati a quelli del santo deputato alla protezione della città di Napoli. Questa, però, è stata l’unica fortuita coincidenza ad aver messo insieme il Pibe de oro e Belén, sebbene qualcuno abbia cercato di tirare in mezzo anche il papa. L’outsider gesuita, Francesco di Buenos Aires, infatti, era venuto in visita a san Gennaro non molti mesi prima, e quel che avvenne fu quasi un sequel anticipato di ciò che sarebbe accaduto con Belén. La presenza nella chiesa napoletana del pontefice aveva elettrizzato le monache di clausura in libera uscita, tanto da ispirare al cardinale Sepe un apprezzamento ambiguo e spontaneo assai discusso, captato integralmente dai microfoni con sommo imbarazzo di tutti: «Guarda ’cca… ma comm’è ’o fatto, sorelle! E ccheste so’ ’e clausura, figuriamoci chelle no ’e clausura!».

    A Napoli, in particolar modo per tutto ciò che concerne san Gennaro, sacro e profano non sono divisi da un rigido confine teologico, anzi, convivono senza scossoni e gravi rivendicazioni né dall’una né dall’altra parte. La città della Sirena è mezza in tutte le sue espressioni: è per metà donna e per metà uccello, per metà chiara e per metà scura, per metà solare e per l’altra parte lunare, ma alla stessa maniera di com’è evidente che il sopra e il sotto sono speculari, e tuttavia manca una netta demarcazione, tutte le parti si compenetrano e si stemperano fra loro. Certe volte il mare si confonde con il cielo: è così che va inquadrato ’o santo nuosto, tra le luci e le ombre che si attenuano nel loro punto d’incontro, rendendo impossibile individuare il limite di frontiera in cui si baciano e si mescolano, dove i bagliori invadono il territorio di pertinenza dell’oscurità, e viceversa. L’episodio di Belén, in realtà, è soltanto uno degli ultimi di una lunghissima cronaca secolare che, pur saltuariamente, ha giocato con il santo facendolo uscire dai canoni cupi del macabro martirio portando allo scoperto aspetti poco noti, a volte gioiosi, altre volte ironici.

    Il sincretismo partenopeo non ha bisogno di presentazioni. Non è sufficiente, però, riferirsi esclusivamente all’ibrida cultura locale che strizza l’occhio al cattolicesimo e al paganesimo mettendo insieme un meticciato religioso unico al mondo, bisogna scorgere una convergenza ben più ampia che, tra le sponde della città, ha la capacità di accogliere e di trasformare tutte le regioni del pianeta che vi hanno storicamente messo piede. È uno dei fenomeni ereditati dall’originaria appartenenza all’universo greco-romano la cui tolleranza prevedeva un pantheon nel quale ognuno adorava la propria divinità. Allora, anche se la notizia è in bilico tra cronaca e letteratura, a Napoli non è impossibile imbattersi in madonne con il naso-proboscide di Ganesh, o in altarini su cui convivono Budda, Krishna e san Gennaro. Il vescovo di Benevento è un modello di glocalizzazione, uno dei paradossi di questo XXI secolo: se da una parte corrobora il nazionalismo partenopeo e s’identifica con la natura più profonda e misterica dell’anima della città, dall’altro è un santo da asporto e apparentemente adattabile, tanto è vero che i suoi fedeli si contano in milioni sparsi per tutti i cinque continenti ove è sbarcato con la propria testimonianza, che però è esclusivamente napoletana. E non è una stravaganza, una contraddizione in termini? Gennaro si oppone al mondo globale con la sua forte e irripetibile caratterizzazione locale, nondimeno, oltre al napoletano, parla molte lingue.

    Odi, inni, sonetti, vere e proprie opere, oppure liriche con metro saffico: esiste una letteratura gennariana sconosciuta, gustosa, a tratti trasgressiva e anche irriverente. Eppure, è pur sempre parte di questo tutto ideologico in cui vivono insieme ironia e morte. Le passioni scritte per san Gennaro, che spingono l’acceleratore sull’emotività da tragedia, di sovente s’incordano su avvenimenti fantastici capaci anche di strappare un sorriso per la loro ingenuità. Un autore napoletano del XV secolo, Pietro Jacopo de Jennaro, ambasciatore del re Ferrante d’Aragona, compilò un poemetto ispirato alla Commedia di Dante in cui raccontava di essere guidato nell’oltretomba prima da san Tommaso d’Aquino, e poi da san Gennaro:

    Per me se ne va ne la città soperna,

    per me se va nel chiaro alto splendore,

    per me se va ne la salute eterna. ¹

    Molte di queste rime non hanno un reale valore letterario, beninteso, sono giochi di penna di autori spesso secondari e di qualità dubbia, però sembra importante rilevare che a volte rappresentano un tentativo, in poesia, di rendere aulico e sornione un ingombrante personaggio da sciagura. C’è stato addirittura chi ha impiegato un’allusione al prodigio dello scioglimento del sangue in una composizione amoroso-sentimentale. Alla fine del Quattrocento, quando per interessamento diretto della famiglia Carafa stavano per aprirsi le porte al culto istituzionalizzato di san Gennaro, un poeta spagnolo, un certo Azevedo, combinò a parole una strana mistura tra il sangue passionale, la bellezza di una principessa salernitana e le reliquie del martire. I versi fanno intendere che l’autore si fosse recato alla celebrazione del prodigio per incontrare la bella signora da adescare, e che gli occhi dei devoti preferissero posarsi sulle sue forme rotonde anziché sulle ampolle:

    Io non vidi giacché vi contemplavo il sangue quando bolliva, poiché il mio era ghiacciato dal vedervi e non adorarvi. Tutta la gente che vi vedeva nel non mettersi in ginocchio, tutti con gran devozione davanti alla vostra perfezione: molti ciechi, pochi occhi andavano alla processione. ²

    Il culto a san Gennaro ha sempre coinvolto tutte le Muse, non soltanto per la realizzazione della maestosa Cappella del Tesoro. Giovanni Paisiello, non era stato ancora nominato maestro di cappella della Real Casa napoletana quando fu invitato a scrivere la musica per una composizione in occasione della celebrazione della festa di maggio, l’Inghirlandata. Era il 1787, quell’anno toccava al Sedile di Nido ospitare la ricorrenza, e al compositore di corte Paisiello misurarsi con uno spettacolo drammaturgico in musica che si muovesse su un palcoscenico insolito, formato dai vicoli e dalle piazze dello storico quartiere. La complessità era data anche dalla partecipazione popolare alla festa con le macchine processionali barocche portate a spalla dai fedeli: non avevano la dimensione dei gigli di Nola, ma l’idea era comunque quella di un’articolata forma rituale che coinvolgesse il cuore del territorio. Già dal Seicento si usava allestire catafalchi o altari grandiosi su cui, in pieno splendore delle nuove agiografie, erano sciorinati al popolo quadri della vita prodigiosa del santo, e dal 1645 si era presa l’abitudine di chiedere a nomi più o meno illustri la stesura su commissione di opere dedicate al martire: da Leonardo Leo a Nicola Fago, da Nicola Porpora a Pasquale Cafaro, da Gennaro Manna a Fedele Fenaroli fino a Paisiello e Cimarosa, gli ultimi del ciclo (R. De Simone).

    La Cantata per la Traslazione del sangue di san Gennaro per soli, coro e orchestra di Paisiello fu un trionfo, e nel 1794 toccò a Domenico Cimarosa misurarsi con la devozione e con il tema della traslazione della reliquia. Il compositore aversano portò l’opera Il trionfo della fede a San Pietroburgo riportando un successo tale da incantare gli zar. Si racconta, erroneamente, che il Cesare di Russia avesse ricambiato con una visita a Napoli portando in dono una coppia di palafrenieri ispirati a Castore e Polluce comunemente detti Cavalli di bronzo – ora sono su una cancellata del Palazzo Reale –, ma furono un regalo di cinquant’anni dopo: pur sempre, plausibilmente, per una riverenza indiretta a san Gennaro, però dello zar Nicola I nel 1846.

    Per secoli, san Gennaro, le arti e la città di Napoli furono un’unica bandiera, un corto circuito intenso come un mudrā che alimentò il prestigio dei partenopei, e ciò malgrado non mancarono tentativi di strumentalizzare il tipo di devozione nazionalpopolare per affibbiare parole poco amabili ai napoletani. Neanche cinquant’anni fa, nell’edizione del 1972 dell’Enciclopedia delle religioni edita da Vallecchi, il culto al santo era definito «di stampo barbarico, assai distante dalla pietà verso le reliquie dei martiri» ³. La solita discussione a favore o contro la città, che fin dal Settecento ha sempre messo al centro Napoli, non poteva non ribaltarsi su san Gennaro. Il compatrono napoletano ha fatto parlare tutto il mondo di sé e della città e, spesso, anche a causa della natura inspiegabile del prodigio, in maniera fuori da ogni canone: anche con gli sfottò. L’irlandese Sylvester Mahony, per esempio, prima di diventare un giornalista e un umorista con lo pseudonimo di Father Prout, aveva tentato di fare carriera nella Compagnia di Gesù, ma fu messo in malo modo alla porta. Ai tempi vittoriani del reverendo Weedall – protagonista di un’accesa polemica di cui parleremo in seguito –, padre Prout pubblicò una curiosa poesia, La bottiglia di san Januarius, con cui ironizzò sul noto prodigio attribuendone la causa al calore:

    Nella terra del limone e del mirto [Napoli, n.d.a.], mi dicono che

    il sangue di un martire si conservi in una boccettina

    e che questo sangue, sebbene sia freddo e intorpidito

    come in letargo per l’intero anno,

    e sia tutt’uno con il cristallo, pure si scioglie al primo tentativo.

    Sia questo vero o falso, o convinti lazzaroni,

    non è mia intenzione discutere di ciò che vi sta a cuore:

    ma compiacete un vecchio sacerdote che desidera solamente trarre

    dalla vostra leggenda un carme, dal vostro santo una morale.

    Guarda! Ecco venire Gennaro dalla barba ghiacciata!

    E il sangue nelle sue vene è tutto gelido e congelato,

    e con sé porta una bottiglia, ma il letargo ha intorpidito

    tutte le sue membra: vuoi liberarlo da questo intontimento?

    Con mano amichevole afferra il saggio canuto,

    e subito il suo corpo incomincerà a rilassarsi e il suo battito

    diventerà più frequente;

    prendi la bottiglia che ha tra le mani e questa inizierà

    a riscaldarsi, te lo garantisco,

    fino a che il gelo da ogni cuore si scioglierà diventando liquido.

    Il vescovo di Benevento non ispirò solamente humour e passioni tragiche: giacché era sulla bocca di tutti, c’era da aspettarsi che il suo nome potesse finire anche in ambiti a dir poco sconvenienti, almeno per un santo. Alcuni di questi episodi sono pressoché sconosciuti poiché l’omertà riuscì a tirare su un impenetrabile muro di silenzio. Ne rammentiamo uno: non molto tempo dopo che il filosofo Friedrich Nietzsche, con il cuore rapito dal Mezzogiorno d’Italia, aprisse il IV libro della Gaia scienza con una poesia a Saint Ianuarius, Sigmund Freud riferì di un incontro terapeutico con un suo paziente che aveva sognato la liquefazione del sangue di san Gennaro. Il padre della psicanalisi diagnosticò un’associazione inconscia che conduceva a un flusso poco mistico e assai irriverente ma, tutto sommato, non troppo distante da una possibile raffigurazione dell’archetipo di una città femmina qual è Napoli: il ciclo mestruale ⁵.

    Il santo lazzarone, come lo chiamò Stendhal, arrivò a essere una tale celebrità da far diventare un luogo comune parlarne e inserirlo in ogni minestra colta, regale o popolana che fosse, ma non è più così. Ha vissuto un’epoca d’oro lunghissima, dai primi passi del culto sono trascorsi circa settecento anni, ma negli ultimi decenni il folclore gennariano ha cominciato a smorzarsi. Nonostante il «Time» nel 2010 abbia inserito il sangue di san Gennaro tra le dieci reliquie più famose al mondo insieme al dente di Buddha e alla Sindone, per assistere a una festa d’altri tempi bisogna volare negli Stati Uniti, dove quasi tutto è rimasto congelato agli anni delle prime migrazioni. Il battito brachicardico di questa crisi d’inerzia è suffragato anche dalla scarsità della diffusione del nome Gennaro tra i neonati: una volta era stabilmente in vetta alle classifiche, eppure dall’anno 2000 al 2014 si è quasi dimezzato, diminuendo da 614 a 338, pari allo 0,13 percento dei nati maschi. Il primo nome registrato a Napoli è Antonio, ed è seguito da Giuseppe, ma anche questi sono elementi fluttuanti, e al momento è ancora in voga il trionfo modaiolo dei Francesco: Gennaro si attesta al ventesimo posto, e sarebbe un miracolo che mantenesse questa posizione ancora un po’. I dati sono preoccupanti, i modelli cambiano continuamente, oggi al nome del patrono si preferisce quello più esotico di un attore performante di Hollywood, inoltre, in genere in questa epoca i nomi seguono flussi esterofili da showbiz. Si teme che con il brusco ridimensionamento dei nati Gennaro si comincino a perdere pure scampoli dell’identità partenopea e, se non fosse per il calcio più vivo che mai, con la velocità con cui si registra il calo affettivo si potrebbe arrivare al de profundis. A dare una mano notevole è la tecnologia moderna, glaciale e asettica quanto si vuole, ma da quando san Gennaro è approdato sul web sembra esserci una leggera inversione di tendenza. Le prime sperimentazioni di diretta streaming dell’evento del prodigio hanno fatto, con il solo passaparola, il tutto esaurito: quattrocentomila spettatori da tutto il mondo, un numero impossibile da ospitare nella chiesa cattedrale, addirittura piccolo per la Rete. I realizzatori parlano di un vero e proprio boom, o di un miracolo, e la Curia, non contenta, fa circolare la voce che ne siano stati il doppio: e comunque, fino a qualche anno fa sarebbe stato impensabile realizzare i collegamenti con questa capillarità mettendo insieme davanti a un piccolo schermo domestico l’Australia, il Sudafrica e le Americhe. Anche in questo caso non è tutto oro quel che luccica, e non mancano le polemiche dei puristi: c’è chi pensa che l’iniziativa sia un’aberrazione, e che sia meglio lasciarsi pezzi dietro anziché arrivare a questi mezzucci per battere cassa. Tra l’altro, dobbiamo aggiungere che la diretta streaming era stata anticipata di qualche anno da una novità rivoluzionaria nel campo della fede elettronica, un’app (ovvero, un’applicazione) gratuita da scaricarsi su uno smartphone, un tablet o un PC – purché tutti di tecnologia Apple – per accendere, da qualsiasi parte del globo, una candela a san Gennaro. La trovata, geniale, consente a chiunque, senza limiti di frontiera, di iscriversi, di lasciare messaggi o le motivazioni dell’atto di fede, di chiedere una grazia e di accendere, appunto, virtualmente candele al santo e, in questo modo, di aiutarlo a esibirsi nel prodigio. La candela brilla non più di un paio d’ore, ma nel frattempo è possibile leggere in formato elettronico i dispacci al patrono che arrivano da ogni continente. Inutile a dirsi, quando gioca il Napoli lo share s’impenna, e le candele ardono come un finale di fuochi d’artificio, a ripetizione.

    Il calcio Napoli e il santo, infatti, sono sempre andati d’accordo. È un’eccezione, il patrono non si occupa di grazie ad personam, ma qui si tratta di tutt’altro: la squadra è una fede, la squadra è una bandiera, la squadra è il cuore stesso della maggioranza dei napoletani, la squadra, insomma, è la stessa città che, ogni giorno di campionato, più dei punti in classifica si gioca orgoglio e dignità, una partita che va molto oltre la sfera di cuoio del pallone. Allora, il patrono ci mette il pensiero, o ancor meglio una mano, lo stesso palmo che fermò la lava è raffigurato nell’azione di parare un tiro in porta, o di colpire con un pugno malizioso il pallone, come fece Maradona in una partita consegnata alla storia. La fede per il martire e il calcio è così tanta che i tifosi, non appena possono, si appellano a lui e poi lo omaggiano di una bandiera azzurra o di una sciarpetta degli ultras. In via straordinaria, si racconta che, una volta, allo stadio di Napoli – dedicato a san Paolo, un controsenso che da sempre lascia sconcertati i tifosi – il generoso san Gennaro fece anche di più consentendo che la nazionale italiana andasse in finale agli Europei del 1968. All’epoca, le partite che terminavano in parità si risolvevano con il lancio della monetina: testa o croce, la soluzione dei rigori ancora non era stata introdotta. Italia e URSS si giocarono la semifinale e, dopo lo 0-0, l’arbitro fu costretto a ricorrere alla sorte e convocò i capitani negli spogliatoi. Il primo tentativo fallì, la moneta restò in bilico e non cadde né da una parte né dall’altra. Intanto, dagli spalti i settantamila spettatori inneggiavano a san Gennaro: nessuno poteva ancora saperlo, ma era stato certamente lui ad aver mandato a vuoto il lancio, ad aver bloccato sul minuscolo dorso il soldo nemico. Al secondo tiro, Facchetti scelse testa, e il patrono, magnanimo, favorì l’Italia.

    Effigi-del-santo-da-Acta_sanctorum_tomus-sextus_septembris-Anversa_1753.tif

    Effigi del santo. Da Acta Sanctorum, tomus sextus, Septembris, Anversa 1753.

    Tra favola e realtà, si racconta che nella zona delle scale di uscita al campo del San Paolo fosse esposta un’icona del santo. Per anni, prima di iniziare la partita, passando al cospetto del protettore della città i calciatori lambivano l’immagine con la mano affidando a lui la sorte dell’incontro. L’ex allenatore del Napoli Walter Mazzarri – di origini toscane, e perciò, di default, scortato da una reputazione di mangiapreti –, però, pretese di spostare l’effigie all’interno degli spogliatoi poiché temeva che pure gli antagonisti potessero avvantaggiarsi del flusso benefico di san Gennaro, e inficiare così la sua protezione alla squadra di casa.

    Non c’è eresia, inutile provarci soltanto a pensarlo: la devozione napoletana abbraccia ogni cosa, e se, come fu per i greci e i romani dell’antichità, per i partenopei non c’è differenza tra sacro e profano, figuriamoci se può essere considerata una bestemmia l’associazione tra il patrono e il calcio. Il santo è di famiglia, una persona intima alla quale rivolgersi per ogni necessità, per quanto tutti sappiano che il martire intercede con i suoi poteri solamente per il bene comune. Anche se non lo è per nulla, ha tutta l’aria di essere un martire a chilometro zero: Gennaro è il supereroe all’ombra del Vesuvio, genera un eccezionale fenomeno catalitico che gli consente perfino di avere un sito web tutto per lui. Quanti santi in Paradiso possono vantare il riconoscimento con un sito ufficiale a proprio nome? Altolocato, omaggiato da papi e da re, potrebbe restare ampolloso sul trono per l’eternità a guardare gli eventi e a farsi vincere dall’orgoglio come tanti altri suoi pari, ma lui non è così. Nonostante tutto, il popolo di Napoli non riesce a tenere la distanza di rispetto, come si dovrebbe per un tipo con le sue stentoree caratteristiche. È gettonatissimo come una stella dell’empireo cinematografico, ogni anno per tre volte attira i fari di tutto il pianeta scettico e credente e, ciò nonostante, lo considerano il supersanto della porta accanto, o un padre di famiglia aggiunto, per lui hanno sempre pronto un posto a tavola, e dichiarano apertamente, e candidamente, la sua appartenenza al clan: «Pe’ nuje nun è Gennaro, è Gennarone!».

    La città e il santo sono uno

    Lui è l’unico ad aver messo costantemente tutti d’accordo. Anche durante i periodi più difficili, nei momenti più estremi in cui la vita era in gioco e le sorti compromesse, ogni volta che la peste o la lava bussavano alle porte della città, oppure nei terribili lunghi istanti in cui, camuffata da colera o da carestia, la Signora della morte incominciava a falciare vittime, il santo si è dimostrato provvidenziale. Non tanto per la sua intrusione nei fatti cittadini, ossia per la mediazione con le sfere più alte, ma perché ha rappresentato l’emblema della speranza, l’ultimo baluardo che è riuscito a fermare – e con la sua sola presenza – la fine impetuosa che avanzava. Il vero miracolo di san Gennaro non è nel controverso prodigio della liquefazione del sangue bensì nella funzione che egli assume di gonfalone e collante che mette insieme miseria e nobiltà: con – e per – il santo, lazzari, borghesi e blasonati si stringono la mano e si uniscono in un unico coro solidale per difendere la propria terra. Per dirla tutta, il paladino si tramuta in condottiero, sebbene a fare la guerra – per così dire – sia il suo popolo terragno che sbandiera l’effigie benedetta alla testa degli estremi tutori della patria. Napoletana, s’intende. Ed è proprio questo l’evento straordinario che ne viene fuori con il comandante celeste che striglia la massa dalle barricate, o assiso su una nube: mentre a sua volta il santo condottiero è incitato affinché protegga i nobili, gli straccioni della plebe e le dame incipriate della middle class, la città torna a brillare di luce propria e a essere una capitale e una nazione invincibile. Sotto la bandiera di Januarius il popolo è di nuovo una comunità.

    Qualcuno ricorda l’assunto esoterico del tre volte grande Ermete Trismegisto? Nella Tabula smaragdina, il misterioso autore fondatore della letteratura ermetica incise le seguenti parole: «Ciò che è in basso è come ciò che è in alto, e ciò che è in alto è come ciò che è in basso per fare i miracoli della realtà una». Ecco, malgrado possa apparire una bestemmia (del resto, se letto con occhi cattolici, tutto ciò che concerne il santo è ben oltre il limite della miscredenza), Gennaro ritrae proprio questa simmetria speculare tra l’alto e il basso: il protettore beneventano lega il mondo ultraterreno al quotidiano di tutti, e lo fa più di ogni altro, addirittura sostituendosi al potere forte che più forte non ce n’è. Per intenderci, nel momento della bisogna generale i napoletani non invocano il padreterno, senza pensarci due volte rimpiazzano l’onnipotente con colui che assume le forme dell’alter ego divino più raggiungibile, se non altro per le secolari e regolari manifestazioni che egli dà della potentia che incarna, il prodigio dello scioglimento del sangue.

    In una delle note litanie attribuite alle cosiddette parenti di san Gennaro, le pie donne recitano «san Gennaro mio protettore prega a Dio nostro Signore»: il supremo sembra quasi inserito nell’invocazione per una mera captatio benevolentiae. La frase, a ben vedere, ha tutta l’apparenza di un innocuo occhiolino, di un malizioso ammiccamento al fine di evitare che chi è perennemente in ascolto s’indispettisca, come se si volesse fare intendere che è meglio non tenere dio del tutto fuori dalla orazione. «Gesù Cristo, prega, pregalo di fa’ ’o miracolo»: qui è ancora più evidente. L’unico vero intestatario della preghiera è Gennaro «che di Napoli è guardiano», non a caso egli è detto pure il Cittadino tra i cittadini, in altre parole, un membro della comunità, un fratello maggiore dotato di poteri straordinari cui rivolgersi per invocare la salvaguardia della popolazione. La responsabilità di quel che accade è solamente del patrono, d’altro canto è con lui che il popolo se la prende se le faccende non vanno per il verso giusto: il padreterno è tirato fuori dalla mischia. Nell’immaginario collettivo, Gennaro appartiene alla terra che l’ha adottato, il santo è il referente di ciò che un tempo identificava la patria più nobile, espressione sintetica dell’amalgama di suolo, stirpe e sangue, ciò che, con una sola parola, nel XIX secolo Ferdinand Tönnies definì comunità, in opposizione a società. Secondo lo studioso tedesco i due termini sono in conflitto: mentre la società è un’unione provvisoria edificata sul contratto e sull’interesse individuale, la comunità si fonda – alla stregua di un clan o di una famiglia tradizionale – su legami naturali, tanto vitali quanto indissolubili, e il vincolo è dato, anziché dallo scambio utilitaristico, dal mutuo interesse al fine comune, cioè dal bene del gruppo e dalla solidarietà ⁶.

    Le celebrazioni di san Gennaro sortiscono l’effetto di risvegliare il senso di comunità quale antidoto allo sradicamento imposto dalla società – e ancor più oggi dalla globalizzazione –, demarcano il suolo patriottico, frenano l’individualismo tipico della società liquida e pongono le basi di un’isola di roccia solida su cui, seppure temporaneamente, si frangono i malesseri e le crisi. La disgregazione sociale, con tutti i parossismi imposti dal modernismo, almeno due quando non tre volte l’anno cede il passo al suo contrario, all’aggregazione che, s’intende, non è da interpretare come il ritrovarsi a braccetto sotto la bandiera-ombrello della cristianità poiché il santo è al di là degli schieramenti religiosi: egli si pone per lo meno al limite della liceità ortodossa, basti osservare che il luogo di culto in cui i devoti attendono una prova della sua presenza è di proprietà della città, non è zona della Chiesa, e la Chiesa, d’altronde, come vedremo più avanti, lo ha anche in parte abbandonato.

    Di questa particolare funzione di santo super partes votato alla città di Napoli nella sua interezza, prese atto anche Alexandre Dumas padre, scrittore al soldo della politica antiborbonica, famoso per la fantasia scalpitante di cui era dotato, capace di stravolgere la realtà e di venderla per vera. Durante il suo primo viaggio napoletano nella prima metà dell’Ottocento, però, lo scrittore colse perfettamente nel segno:

    Cittadino, prima di tutto, san Gennaro non ama in realtà che la sua patria; la protegge contro ogni pericolo, la vendica di tutti i nemici: civi, patrono, vindici, come riferisce una vecchia tradizione napoletana. Se il mondo intero fosse minacciato da un secondo diluvio, san Gennaro non alzerebbe nemmeno il mignolo per impedirlo; ma se la minima goccia d’acqua dovesse nuocere ai raccolti della sua buona città, san Gennaro muove cielo e terra per ricondurre il bel tempo.

    La sensazione che la natura del martire sia differente rispetto a quella di tutti gli altri membri del Paradiso della cristianità, compresa la somma autorità costituita, si può percepire in diverse circostanze. Uno degli ambiti più evidenti è, per esempio, la pressoché totale inesistenza per le strade cittadine di edicole votive dedicate al vescovo di Benevento. Con questa parola ci riferiamo alle tipiche nicchie a vista, le cappellette miniaturizzate per il culto del popolo, insomma, non ai tabernacoli monumentali come quello maestoso a Castel Capuano, commissionato e pagato dalla Deputazione del Tesoro di san Gennaro per ringraziare lo scampato pericolo da una calamità. Le edicole hanno un’origine molto più antica, sono di un’entità minore – ma soltanto in apparenza – e hanno una mansione differente da un mausoleo in strada, con o senza busto, come un cenotafio: la loro discendenza è dalle are pagane dei Lari e dei Penati – gli spiriti greco-romani privati e domestici che proteggevano le abitazioni e le famiglie – e dalle erme, solitamente poste ai crocicchi delle strade, che ritraevano una divinità tutelare delle case e dei viandanti. Queste piccole are benedette, talvolta sistemate in un sacello, erano un segno palpabile del divino, raccontavano l’immanenza della divinità e pertanto rendevano certa e continua la presenza e la supremazia dei celesti. Anche millenni dopo il cruento passaggio tra le religioni, le edicole votive hanno continuato a serbare la medesima natura e a mettere i devoti direttamente in contatto con la beatitudine ultraterrena proscrivendo, in tal modo, l’interferenza clericale: esse favoriscono un rapporto uno a uno tra devoto e santo, ed esiliano gli uomini di chiesa da questa relazione esclusiva. Per i napoletani è così anche nella speciale devozione per san Gennaro: il loro rapporto con il paladino è senza intermediari, ed è una delle cose che la Chiesa non può tollerare, anche per questo periodicamente la Curia tenta di sottrarre il martire di proprietà del popolo e di mettere le mani sui suoi beni, e sulla gestione del business che volente o nolente egli genera.

    Ci fu un’epoca in cui questi mini santuari a cielo aperto (dal latino aedes, dimora degli dèi) proliferarono; ancora oggi è sufficiente guardarsi intorno per appuntare che presidiano il territorio come una volta, anche se molti si sono adattati ai tempi, ahimè, mimetizzandosi con un truce alluminio anodizzato. Le edicole devozionali sfuggono al controllo della Curia e rappresentano la testimonianza viva di un eccentrico sincretismo popolare: nella venerazione a santi e madonne, che vigilano sulle piazze, sulle vie e sui vicoli partenopei, le minuscole cappelle votive mettono insieme la devozione agli dèi con le forme cattoliche, croci con colonne doriche, frontoni e timpani delfici con teschi ammonitori, ardenti purgatori con beati e madonne isiache.

    Se si dovesse misurare la devozione a un santo con la conta di are da strada e dei segni per grazia ricevuta, san Gennaro uscirebbe perdente. È sicuramente singolare che il popolo non abbia elevato molte edicole intitolate a Januarius, il più amato tra tutti, se non altro quanto il fatto che scarseggiano anche gli ex voto al venerato. Per lo meno in città, gli oggetti che saldano il contratto con un voto e formalizzano l’avvenuta guarigione miracolosa – in genere, manufatti che raffigurano l’organo malato per cui si è chiesta la grazia, oppure scene della malattia esorcizzata dalla raccomandazione dei celesti –, sono così rari da costituire un fenomeno al contrario, e pure quelli conservati al Museo del Tesoro di san Gennaro sono in massima parte doni regali e principeschi al martire, non oblazioni della gente comune. I napoletani, infatti, hanno sempre riconosciuto al santo il potere di salvare la città con tutti i suoi abitanti, mentre per la richiesta di altri prodigi si sono affidati agli altri eletti specializzati della corte ultraterrena. Il sovrano Gennaro è depositario degli omaggi preziosissimi dei reali, quindi, non dell’arte minore dei manufatti votivi realizzati con il sudore, il dolore e il sangue del popolo. Questo, però, distingue il culto cittadino: uscendo dai confini urbani è possibile imbattersi in una situazione completamente diversa, come accade in costiera amalfitana nella chiesa parrocchiale dedicata al santo napoletano, a Vettica Maggiore nel comune di Praiano; oppure a Pozzuoli, dove le desiderata, sotto forma di pizzini di carta per l’oltremondo, sono infilate tra le fessure del marmo sotto il ritratto del martire, quasi a farlo diventare una specie di muro del pianto indigeno; o anche al santuario dei domenicani di Madonna dell’Arco alle falde del Vesuvio, in cui si conserva una collezione di oltre seimila ex voto, alcuni dei quali (pochi, in verità) tributati proprio a Gennaro. Per il resto, quest’assenza napoletana ha un suo senno: il venerabile protegge la città e il popolo, ed è il custode dei singoli soltanto in modo indiretto. Non si può certamente stilare una graduatoria dell’apprezzamento del potere salvifico in base alle testimonianze dell’artigianato per grazia richiesta o ricevuta (dalla formula latina ex voto suscepto, per promessa fatta a dio): lui, agli occhi di tutti, è l’unico campione della legione dei benefattori ultraterreni. E se gli ex voto sono gli oggetti del dolore espiato, per lo più personale, quelli che potrebbero riguardare san Gennaro rientrerebbero nell’eccezionalità del comportamento degli uomini di mare che, sopravvissuti a un naufragio, sono gli unici a non ringraziare singolarmente per lo scampato pericolo, ma in qualità di equipaggio. Abitualmente, pur esprimendo la ri-soluzione del male, ciò che è raffigurato dagli oggetti votivi è il momento della sofferenza trascorsa, e sui loro cartigli è facile trovare le richieste di sospensione della crudele legge naturale in favore di un’intermediazione sovrumana e metastorica. L’ex voto, in definitiva, è la certificazione concreta dell’esito positivo di un contratto extraumano stipulato tra il devoto e un santo e, per quanto riguarda san Gennaro, non c’è dubbio che il patrono abbia sottoscritto un’alleanza con la città, un patto mobile, unico e rinnovabile. E che lo abbia controfirmato con il proprio sangue: ogni volta che si scioglie, si ribadisce l’alleanza, come un ciclo stagionale che torna indietro, e pur sempre procede innanzi.

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    1 Pietro Jacopo de Jennaro, Le sei etate de la vita humana, canto III, XV secolo.

    2 Azevedo, Al milagro de la sangre, XV secolo.

    3 Vol. IV, tav. 38.

    4 Father Prout, The bottle of saint Januarius, 1837.

    5 S. Freud, Psicopatologia della vita quotidiana, 1901.

    6 F. Tönnies, Comunità e società, 1877.

    7 A. Dumas, Il corricolo, 1843.

    2

    COME LUI, NON C’È NESSUNO:

    LE MILLE E UNA NOTA DI GENNARO

    Atti, passioni e vox populi

    L’ immensa bibliografia che è dedicata al patrono di Napoli è letteralmente un fiume in piena di parole, di questioni, di dispute, di racconti epici, di clamorosi fake , di documenti veri manipolati, di passioni inesistenti passate per autentiche e di, perfino, racconti così falsi e ingigantiti da costringere la Chiesa a inserirne uno famoso, benché a favore del santo, nell’ Index librorum prohibitorum . Tracciare la cronologia del magmatico flusso di opere scritte su san Gennaro sarebbe, oltre che inutile e didascalico, pressoché impossibile, per cui proveremo a raccontare direttamente l’ossatura più antica della sua apologia, che è da considerare come una madre da cui sono stati partoriti tanti figli i quali, pur entrando pienamente nell’alveo della letteratura ecclesiastica, a volte hanno subìto l’onta della censura. D’altro canto, questo genere di poemi eroici doveva essere plasmato con dettagli suggestivi e strabilianti per trasformarsi in cultura popolare, di cui la vox populi è stato il motore diffusivo più prezioso; per questo, non soltanto è stato consentito inventare e fantasticare, ma architettare a tavolino nuove fantasmagoriche avventure è risultato addirittura funzionale e indispensabile alla propagazione leggendaria dei racconti portentosi. I miracoli e la santità hanno prestato il fianco all’incrementarsi delle agiografie, termine usato per identificare una congerie di documentazioni, di epigrafi, di materiale illustrativo e monumentale, di reperti stipati e venerati a testimonianza (supposta) di una vita beata, il tutto finalizzato a innalzare e a tramandare la memoria di un personaggio, e a cementare i presupposti stessi della Chiesa. Spesso si tratta di mera materia letteraria, cioè di testi narrativi apologetici romanzati (per esempio, gli Acta e le Passiones , le sillogi dei miracoli e delle vite) scritti per dilatare e diffondere gli avvenimenti idealizzati della vita di un uomo o di una donna con fama di beatitudine. Questo genere di elaborati è fiorito sin dagli albori del cristianesimo, tanto da far osservare a sant’Agostino: «Così i miracoli degli dèi sono stati sconfitti dai miracoli dei martiri» ¹.

    Per quanto riguarda san Gennaro, l’incredibile quantità e diversità della prole di narrazioni su di lui ha partorito un caos sulfureo così grande che agli occhi del popolo è difficile vagliare la pura invenzione e distinguerla da quella che, per lo meno, vanta una pur vaga connotazione storica. Insomma, esiste una storia vera di san Gennaro? Nessuno potrebbe mai confermarlo se non mentendo spudoratamente. Con un setaccio si può solamente tentare di separare la pula dal grano, ma che poi si tratti di autentico grano sarebbe comunque tutto da discutere. Perciò, quando si parla delle fonti su san Gennaro, non si può prescindere dalla fede.

    Alla radice di tutte le Passiones ci sono gli Atti Bolognesi, è da questa sorta di caput anguli, o pietra angolare, che la sterminata oleografia di Gennaro prese corpo e sangue. Quella che proponiamo a seguire è una versione autentica (BUB, Ms. 1473, c. 223-225), tradotta direttamente da quella in latino cui attinse, primo fra tutti, il presbitero Alessio Simmaco Mazzocchi nel Settecento. Le parti tra parentesi, quadre e tonde, e in corsivo, sono le interpolazioni immesse dallo stesso Mazzocchi che cercò di colmare le molteplici lacune del testo con alcune aggiunte che non pochi hanno definito arbitrarie e discutibili («Il dotto uomo metteva nel testo quel che non v’è, e che non abbiamo alcun diritto di mettervi» ²). Soltanto sottraendo le interpretazioni soggettive si potrà cercare di dare un senso compiuto a questo fondamento dell’epica gennariana. Tutte le edizioni pubblicate fino a oggi sono traduzioni libere e spesso addomesticate, anche per farle assomigliare alle altre passioni conosciute e ricondurle tutte a un’unica matrice. Gli Atti sembrano la fusione incompleta di due passioni distinte e separate poi cucite insieme alla buona ³, una dedicata al diacono di Miseno, Sosio (o Sossio), mancante della parte finale, l’altra a Gennaro vescovo di Benevento, priva dell’inizio. La critica (rara e talvolta feroce, ma pur sempre per ovvi motivi delimitata dai rigidi confini chiesastici) osservò che, al principio, a tenere scena è Sosio il quale, senza motivo apparente, dal momento in cui lascia il campo a Gennaro, diventa una figura secondaria.

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    La prima pagina originale degli Acta Bononiensia, i documenti ora sono conservati alla Biblioteca universitaria bolognese, BUB, Ms. 1473 c. 223-c225.

    1. Ai tempi dell’imperatore Diocleziano, sotto il quinto consolato di Cesare Costantino e il quinto di Cesare Massimiano, avvenne la persecuzione dei cristiani. A quell’epoca, nella chiesa della città di Miseno, viveva un diacono di nome Sosio, aveva all’incirca trent’anni, era in stato di estasi ispirata dalla grazia di Dio e un uomo misurato. Secondo quanto riferito da un certo vescovo [Teodosio, nome inserito dal Mazzocchi: nel manoscritto originale non è mai citato, n.d.a.] il venerabile Sosio era così prudente e timoroso dei pagani da avergli confidato di preferire di mostrarsi raramente nei luoghi pubblici.

    Sosio ebbe occasione di conoscere i beatissimi [in questa parte manca completamente il testo che fu aggiunto da Mazzocchi: «Gennaro, vescovo di Benevento, e il suo diacono Festo e il suo lettore Desiderio i quali si recavano all’assemblea dei fedeli della città, in cui il vescovo (presente nell’originale) Sosio con diversi altri cittadini si facevano visita a vicenda di nascosto», n.d.a.]. Il sermone e il racconto della legge divina servivano, ovviamente, all’edificazione degli uomini che sembrava credessero in Cristo. E poiché in quegli stessi luoghi si trova (Cuma), a causa della grande chiaroveggente il cui antro è segnalato ancora ai giorni nostri, era frequente la presenza di nobili pagani; per questa ragione, quegli uomini santi, come abbiamo già detto, si mostravano raramente in pubblico [nella versione originale di quest’ultimo periodo manca il riferimento a Cuma – è scritto cum ipsis –, e alcune parole non si riescono a decodificare correttamente, n.d.a.].

    2. Ebbene, giacché il beato Gennaro si trovava nella città di Miseno, accadde che, mentre il beato diacono Sosio leggeva nella propria chiesa il santo Vangelo di Dio, improvvisamente dal suo capo si sprigionò una fiamma che nessun altro scorse tranne il beato vescovo Gennaro il quale, da questo segno, trasse il presagio che Sosio era destinato al martirio; e allora, pieno di gioia, lo baciò sulla testa rendendo grazie a Dio: quel capo avrebbe sofferto per Gesù Cristo.

    3. Tutto accadde dopo pochi giorni, dal momento in cui la loro fama fu rivelata a Draconzio, giudice della Campania. Udito ciò, in ottemperanza al precetto imperiale, il giudice Draconzio ordinò di svolgere alcune indagini e di portarli al suo cospetto. Allora, gli uomini incaricati rintracciarono il beato diacono Sosio e lo condussero dal giudice. Draconzio ordinò che fosse preso e portato nel carcere fino al suo interrogatorio. Così, il beato Sosio (fu) rinchiuso e custodito in prigione sotto la stretta sorveglianza dai soldati. Quando il beato Gennaro venne a sapere che il beato diacono Sosio era stato arrestato, accompagnato dal suo diacono Festo e dal suo lettore Desiderio, subito si affrettò alla prigione per portargli conforto. Entrato nel luogo in cui tenevano (Sosio) in catene, egli esclamò: «Per quale ragione avete imprigionato quest’uomo di Dio?».

    All’istante i carcerieri avvertirono il giudice: «Quegli uomini su cui la vostra grazia ci aveva ordinato di indagare, chiedono perché li abbiamo presi in custodia. Appena giunti al carcere, hanno detto: Per quale ragione avete imprigionato quest’uomo di Dio?».

    Appena il giudice udì queste parole, ordinò che (essi) fossero arrestati e condotti da lui: furono trovati, e senza indugio scortati dal giudice. Una volta presentati in tribunale a Draconzio, il giudice interrogò il beato vescovo Gennaro rivolgendosi a lui con queste parole: «Uomo, a quale religione appartieni?».

    San Gennaro rispose: «Sono cristiano e vescovo».

    Il giudice gli domandò: «Di quale città?».

    San Gennaro replicò: «Della chiesa di Benevento».

    Il giudice: «E quelli chi sono?».

    San Gennaro ribatté: «Uno è il mio diacono, e l’altro il lettore».

    Il magistrato continuò: «Si dichiarano cristiani anche loro?».

    «Certamente», rispose Gennaro. «E confido nel mio signore Gesù Cristo che, se dovessi interrogarli, non negheranno di essere cristiani».

    Interrogati dal giudice, questi risposero: «Siamo cristiani e pronti a morire per amore di Dio».

    Allora, pieno di rabbia, il giudice ammonì il beato vescovo Gennaro: «Andate e presentate le offerte votive agli dèi come vuole il decreto dell’imperatore, e potrete ritirarvi incolumi».

    San Gennaro rispose: «Ogni giorno offriamo un sacrificio di lode al nostro signore onnipotente Gesù Cristo, non ai vostri falsi dèi!».

    Udito ciò, il giudice ordinò che fossero rinchiusi nel carcere e che preparassero l’arena per il giorno dopo: sarebbero stati consegnati agli orsi insieme a san Sosio.

    4. Come aveva decretato l’ordine del giudice, il giorno seguente fu preparata l’arena nella città di Puteoli, e i santi furono portati all’anfiteatro. Perché lo spettacolo avesse inizio si doveva attendere l’arrivo del giudice. Siccome egli arrivò in ritardo all’arena poiché era stato trattenuto da un processo d’interesse pubblico, il gladiatore raggiunse il giudice, e disse: «Ormai è troppo tardi, signore, non potresti soltanto dargli ascolto?».

    Allora, il giudice Draconzio ordinò ai santi che fossero portati via dall’anfiteatro e condotti da lui in tribunale, dove dettò la sentenza: «Decretiamo che a Gennaro vescovo, Sosio, al diacono Festo e al lettore Desiderio, che si sono dichiarati cristiani e hanno disprezzato le nostre leggi, sia tagliata la testa».

    5. Mentre i condannati erano condotti tutti insieme al martirio, lungo la strada, tra la folla c’era un tale proconsole [la parola pconsulus, in originale, diventò Proculus per Mazzocchi, n.d.a.], diacono della chiesa di Puteoli, e con lui altri due laici, Eutiche e Acuzio. I tre domandarono: «Quali colpe hanno commesso questi uomini per essere condannati a morte?».

    Le loro parole furono riferite immediatamente al giudice il quale, appena apprese ciò che avevano detto, ordinò di arrestarli all’istante e di decapitarli tutti, insieme ai santi.

    6. Essi furono portati al martirio come gli altri; (lungo la strada) nella speranza di trarre favore dai santi, un vecchio bisognoso si pose dinanzi al beato Gennaro, si prostrò ai suoi piedi e gli domandò se fosse degno di prendere qualcosa delle sue vesti. In verità il beato Gennaro rispose a quel vecchio: «Dopo che il mio corpo sarà morto, sappi che ti darò personalmente il fazzoletto con cui mi sarò bendato gli occhi».

    7. Anche la madre di san Gennaro, che era stata lasciata nella città di Benevento, tre giorni prima aveva visto in sogno che il vescovo Gennaro volava nell’aria verso il cielo. Quando si svegliò dal sonno e chiese il significato di quella visione, le fu prontamente rivelato che il figlio vescovo Gennaro era costretto in catene per amore di Dio; alla notizia, terrorizzata, inginocchiandosi in preghiera, si affidò allo Spirito Santo.

    8. Nel frattempo, giunti nel luogo in cui dovevano essere decollati, la Solfatara, san Gennaro si genuflesse in preghiera: «Signore Dio Onnipotente, affido la mia anima nelle tue mani».

    Alzandosi, prese il proprio fazzoletto, si bendò gli occhi e, prostrandosi sulle ginocchia, portò la mano alla nuca e chiese al boia di colpire. Il carnefice, però, colpendo con grande forza, recise insieme alla testa anche un dito della mano del santo martire Gennaro. Tutti i santi furono decapitati allo stesso modo e sopportarono l’eterno martirio. Poi, dopo la sua decollazione, san Gennaro si palesò a quel vecchio al quale, come gli aveva promesso, diede il fazzoletto [la stola, o l’orarium, l’insegna liturgica comune a diaconi, sacerdoti e vescovi, n.d.a.] con cui si era bendato gli occhi, e disse: «Ecco ciò che ti dovevo dare; prendilo, così come ti promisi».

    L’anziano, ricevuta la stola, se la nascose in petto con grande onore. Il boia e tutti gli altri che erano in servizio, però, vedendo il vecchio, lo sbeffeggiarono dicendogli: «Hai preso ciò che ti aveva promesso colui che abbiamo decapitato?».

    Il povero vecchio rispose: «Certamente».

    E mostrò loro il fazzoletto. Essi lo esaminarono e sbalordirono.

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    La decollazione alla Solfatara. Da Nicolò Carminio Falcone, L’intera istoria della famiglia, vita, miracoli, traslazioni e culto del Glorioso Martire S. Gennaro, 1713.

    9. I cristiani di diverse città vigilavano i corpi dei santi per poi trafugarli rapidamente appena calava l’oscurità, e trasportarli nelle proprie terre per dargli sepoltura. Con un profondo senso di angoscia, iniziarono a venerarli in segreto. Sopraggiunte le tenebre, quando tutti dormivano nel silenzio della notte, san Gennaro apparve a uno di quelli che si apprestavano a portare via le sue spoglie, e gli disse:

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