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Dove la sorte ti ha voluto chiamare. Angelo Astolfoni detto Nino, artista e giornalista di Venezia, sottotenente esploratore nella Grande Guerra
Dove la sorte ti ha voluto chiamare. Angelo Astolfoni detto Nino, artista e giornalista di Venezia, sottotenente esploratore nella Grande Guerra
Dove la sorte ti ha voluto chiamare. Angelo Astolfoni detto Nino, artista e giornalista di Venezia, sottotenente esploratore nella Grande Guerra
E-book478 pagine7 ore

Dove la sorte ti ha voluto chiamare. Angelo Astolfoni detto Nino, artista e giornalista di Venezia, sottotenente esploratore nella Grande Guerra

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Un pacchetto di cartoline in franchigia scritte nel 1916 da un ufficiale di Venezia, Angelo Astolfoni detto Nino. Una serie di scoperte che hanno dato a quel ragazzo un volto e ne hanno svelato la vita, le passioni, il profilo morale, le vicende militari. E una ricerca durata diversi anni che ha portato l’autore a consultare documenti, fonti bibliografiche, e le testimonianze conservate negli archivi militari di Roma e Vienna. Questo e molto altro è alla base della stesura di un romanzo che, prendendo a pretesto la vita di Nino, getta uno sguardo sugli ideali e sulle aspirazioni della generazione che si è mossa nel contesto ricco di fermenti culturali della Venezia di inizio ‘900, ma che è stata travolta dalla prima delle tragedie che hanno caratterizzato il “secolo breve”. Un racconto che, senza alcuna concessione alla retorica, rappresenta un tributo alla memoria della nostra Storia.
 
LinguaItaliano
Data di uscita21 lug 2020
ISBN9788832281507
Dove la sorte ti ha voluto chiamare. Angelo Astolfoni detto Nino, artista e giornalista di Venezia, sottotenente esploratore nella Grande Guerra

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    Anteprima del libro

    Dove la sorte ti ha voluto chiamare. Angelo Astolfoni detto Nino, artista e giornalista di Venezia, sottotenente esploratore nella Grande Guerra - Paolo Seno

    edizioni

    Copyright

    © Copyright Argot edizioni

    © Copyright Andrea Giannasi editore

    Lucca, luglio 2020

    1° edizione

    Tutti i diritti sono riservati. Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633).

    ISBN 9788832281507

    I lettori che desiderano informazioni possono visitare il sito internet: www.tralerighelibri.com

    INTRODUZIONE

    Fin da piccolo ho provato interesse per la storia della Grande Guerra. Una passione che è cresciuta con gli anni e che mi ha spinto alla continua ricerca di testimonianze e documenti inerenti questa materia.

    Nel novembre 1997 mi sono recato in un negozio di numismatica di Mestre, la città in cui vivo. Il titolare, quando gli ho comunicato quale fosse l’oggetto delle mie ricerche, mi ha proposto un pacchetto di quindici cartoline in franchigia, quelle utilizzate dai soldati mobilitati per comunicare con i propri cari.

    A parte una cartolina scritta da un soldato di nome Antonio D’Incao, tutte le altre erano firmate Nino oppure Ofi. Visto che la calligrafia era la stessa, ho pensato che si trattasse di soprannomi riferiti alla stessa persona. E infatti, sulle righe riservate al mittente, tutte riportavano gli stessi dati: Angelo Astolfoni, sottotenente della decima compagnia del terzo battaglione del 228° reggimento di fanteria.

    Erano state scritte nel periodo che va dal 3 al 24 giugno 1916 ed erano indirizzate alcune alla madre, Ernesta Astolfoni, altre alla sorella Adriana (talvolta denominata anche Ina), residenti al civico 4811 della parrocchia dei Santi Apostoli di Cannaregio, uno dei più estesi e popolati sestieri di Venezia.

    Quelle cartoline, almeno in apparenza, non rappresentavano una testimonianza molto significativa: l’ufficiale che le aveva scritte era un perfetto sconosciuto, e il loro contenuto non sembrava offrire alcun dato relativo ad avvenimenti interessanti o inediti.

    Eppure... Forse perché erano state indirizzate a Venezia, la mia città natale, forse perché ero stato colpito dallo stile con cui Nino si esprimeva, fatto sta che le ho acquistate e portate a casa.

    Di tanto in tanto tornavo a leggerle, chiedendomi in quali vicende fosse stato coinvolto Nino e se fosse tornato vivo dalla guerra. Finché un giorno ho deciso di recarmi alla biblioteca del Museo della Battaglia di Vittorio Veneto per consultare i volumi che raccolgono i riassunti storici delle brigate italiane che hanno combattuto nel corso della prima guerra mondiale.

    Ho scoperto così che la brigata cui apparteneva Nino – la Rovigo, costituita nel maggio del 1916 e di cui faceva parte il 228° reggimento con il 227° – è stata impiegata per la prima volta in trincea il 24 giugno 1916 sull’Altopiano dei Sette Comuni, proprio il giorno in cui erano state scritte le ultime due cartoline.

    Ma soprattutto, scorrendo l’elenco degli ufficiali del 228° reggimento caduti, sono venuto a conoscenza del fatto che Nino è morto pochi giorni dopo, il 29 giugno, nel 16° ospedaletto da campo.

    Inutile descrivere l’amarezza con cui ho accolto questa notizia. Ma almeno avevo sciolto ogni dubbio: Nino non era sopravvissuto a quell’enorme tragedia che è stata la Grande Guerra.

    Nel frattempo ero entrato in possesso del suo certificato di nascita, e ho così potuto stabilire che quando è morto aveva compiuto da un paio di mesi 25 anni.

    Nel periodo natalizio successivo al ritrovamento delle cartoline mi trovavo ad Asiago per trascorrere alcuni giorni di vacanza. Come sempre, quando mi trovo sull’Altopiano, ho approfittato per visitare il Sacrario del Leiten. È qui che ho fatto la seconda, importante scoperta: ho percorso i corridoi dell’ossario nello stesso modo descritto in una delle prime pagine del romanzo, finché mi sono bloccato proprio di fronte alla lastra che riporta inciso il nome di Angelo Astolfoni.

    Trovarmi di fronte al loculo che accoglie i resti dell’autore delle cartoline ha rappresentato un momento di straordinaria intensità, anche perché ho subito notato che oltre al grado, cognome e nome, era specificato che a Nino è stata assegnata la medaglia di bronzo al valor militare.

    Si trattava di un’informazione molto importante, che ho immediatamente collegato al fatto che in una cartolina Nino si è qualificato come tenente esploratore.

    Dai testi che ho consultato sono venuto a conoscenza di come gli esploratori siano considerati i precursori degli arditi. Al loro comando venivano assegnati quegli ufficiali che, oltre ad aver evidenziato particolari doti fisiche e capacità tecniche, avevano dimostrato di possedere la necessaria risolutezza e forza morale per affrontare missioni che spesso costituivano una condanna a morte.

    Degli esploratori e del loro difficile compito ha parlato anche Emilio Lussu nel suo Un anno sull’Altipiano, un libro imperdibile per chi vuole farsi un’idea sulla Grande Guerra senza incorrere nelle storture e nelle ipocrisie dettate dalla retorica. Non è un caso se Mario Rigoni Stern, nell’introduzione che ha scritto per l’edizione del 2006 dell’opera, si è espresso in questi termini: «Tra i libri sulla Prima Guerra Mondiale Un anno sull’Altipiano di Emilio Lussu è, per me, il più bello».

    Il brano fa da contorno a uno degli episodi più significativi del libro, quello in cui Lussu descrive l’assurdo potere decisionale concesso agli ufficiali in merito alla possibilità di poter fucilare i propri subalterni senza un processo:

    – Alt! Zaini a terra!

    – Chi ha gridato? – domandò il generale, cupo.

    Era un soldato di collegamento della 7a compagnia, del 2° battaglione, il quale, arrivato al bivio di due sentieri, avvertiva che i reparti che seguivano dovevano fermarsi. Gli esploratori richiedevano del tempo per riconoscere le direzioni dei sentieri e comunicare quale dei due fosse quello da seguire. Uno di loro era stato ucciso in quel momento ed era necessario che gli altri non si avventurassero senza che il terreno fosse stato riconosciuto.¹

    L’onorificenza al valore dimostra che Nino, nei pochi giorni in cui è stato coinvolto nei combattimenti, ha espresso una determinazione e un coraggio fuori dal comune.

    A quel punto è scattata una molla: dovevo assolutamente andare a fondo della vicenda, delineando il più possibile la figura di questo soldato che il destino mi aveva fatto incontrare.

    I dati più accessibili erano quelli relativi al coinvolgimento di Nino nel conflitto. Mi sono quindi recato a Roma presso l’Ufficio Storico dell’Esercito, dove ho potuto consultare i diari della brigata Rovigo stilati giorno per giorno, oltre alla corposa documentazione allegata (ordini, dispacci, relazioni, schizzi).

    Sono così stato in grado di tracciare nel dettaglio il contesto in cui si è svolta l’esperienza del Nino soldato, compresi i drammatici eventi che hanno causato la sua morte.

    Ho voluto poi approfondire l’evento storico che ha portato alla costituzione della brigata Rovigo e al suo impiego sull’Altopiano dei Sette Comuni, la cosiddetta Strafexpedition. E dopo aver scoperto quale reparto dell’esercito austro-ungarico fosse schierato contro la brigata Rovigo a fine giugno sull’Altopiano, mi sono recato al Kriegsarchiv di Vienna per acquisire le informazioni necessarie a completare il quadro degli avvenimenti che sono costati la vita a Nino adottando anche il punto di vista degli avversari.

    Avevo quindi chiaro il versante inerente la guerra. Ma il Nino borghese?

    Grazie ad alcuni colpi di fortuna sono riuscito a scoprire alcuni dettagli della sua vita privata. Ma erano tutte notizie occasionali, del tutto frammentarie. E poi avevo un sogno: avrei mai dato un volto al ragazzo che il destino mi aveva fatto incontrare in maniera così casuale?

    La svolta è avvenuta nel febbraio 2004, quando ho richiesto all’anagrafe di Venezia un certificato di famiglia intestato alla sorella di Nino. Non mi aspettavo alcuna novità rispetto a quanto avevo già scoperto, ma qualcosa mi diceva che dovevo tentare. Ho così scoperto che Adriana si è sposata e ha avuto una figlia, la quale le ha dato un nipote, Jacopo Madaro Moro, nato come me negli anni ‘50.

    Ho svolto una ricerca su Internet e l’unico risultato compatibile con il nome del pronipote di Nino rimandava a una persona residente a Boston. La fortuna ha voluto che questi, esercitando un’attività professionale, avesse una casella di posta elettronica di libero accesso.

    Gli ho scritto un sabato mattina, raccontando la storia delle cartoline e riferendo a grandi linee i risultati della mia ricerca. Non era per niente scontato che avrei ricevuto risposta: erano passati tanti anni dall’epoca degli avvenimenti, forse il ricordo di quel lontano parente era svanito. E avevo anche messo in conto di poter suscitare addirittura una reazione negativa da parte del mio interlocutore: «Ma cosa vuole questo estraneo che si permette di entrare nella mia vita privata...»

    In realtà la sera stessa di quella giornata indimenticabile ho ricevuto la risposta dagli Stati Uniti, e in allegato c’era la foto di Nino!

    Jacopo si è dimostrato subito entusiasta della mia ricerca. «Ofi» mi ha scritto «è una figura il cui ricordo è rimasto vivo in famiglia», sottolineando che mentre mi scriveva osservava l’orologio appartenuto a quel lontano prozio e che lui conservava come una reliquia.

    È così iniziato uno scambio di e-mail in cui io comunicavo le mie scoperte, mentre Jacopo mi illuminava sugli aspetti personali di Nino.

    Ma non basta.

    Jacopo, veneziano doc, ha mantenuto casa nella città natale dove torna almeno una volta all’anno. Nell’estate del 2004 mi ha quindi invitato ad andare a trovarlo a Venezia, accogliendomi come un vecchio amico. Mi ha fatto vedere dove conservava le testimonianze relative a Nino e mi ha dato le chiavi di casa, dicendomi che dopo la sua partenza per gli Stati Uniti sarei potuto tornare quando volevo per consultare con calma tutti quei documenti.

    Dopo molti incontri di persona e frequenti scambi telefonici ed epistolari, tra me e Jacopo si è instaurato un rapporto molto più che amichevole, direi fraterno. Nel frattempo io continuavo a frequentare la sua casa a Venezia, riuscendo così a conoscere Nino sotto molteplici aspetti.

    Dopo l’incontro con Jacopo le mie ricerche sono proseguite su altri versanti che mi hanno consentito di mettere in luce nuovi aspetti della vicenda di Nino. Tra l’altro, molte delle testimonianze nelle quali mi imbattevo avevano risvolti affascinanti, dimostrando per esempio quale straordinario momento attraversasse la vita culturale della Venezia di inizio ‘900.

    Alla fine è stato proprio Jacopo che, considerato il materiale che avevo raccolto attraverso la mia ricerca e quello trovato a casa sua, mi ha spinto a scrivere del suo prozio.

    Ho accettato, e le pagine che seguono sono il frutto di questo impegno.

    Dal momento che Nino non ha lasciato alcun diario, ho scelto di raccontare la sua storia utilizzando la formula del romanzo storico. Ho adottato questa soluzione ben sapendo a quali rischi andavo incontro, primo fra tutti quello di interpretare gli avvenimenti. Credo in realtà di essere riuscito ad attenermi strettamente ai fatti emersi dai tantissimi documenti consultati. Mi sono solo concesso qualche presa di posizione personale, facilmente identificabile perché espressa tramite i commenti della voce narrante.

    Il contesto che ho creato affinché il racconto della vita di Nino avesse modo di svilupparsi è frutto di fantasia, ma tutti gli attori coinvolti in questa storia sono persone realmente vissute. Così come, a parte alcuni episodi funzionali allo sviluppo del romanzo, sono veri tutti gli avvenimenti narrati.

    A distanza di tanti anni dal ritrovamento delle sue cartoline, Nino è diventato una persona di famiglia. Non ho mai subìto il fascino dei fenomeni soprannaturali ma – lo confesso – in questo caso ho il sospetto che sia stato lui a cercarmi.

    Troppe le coincidenze, troppe quelle che ho frettolosamente definito sorprese o colpi di fortuna. Un esempio fra tutti: un giorno camminavo in una via di Mestre quando mi sono avvicinato alla vetrina del negozio di un corniciaio. In un angolo, defilati, ho notato alcuni disegni. Lo stile e i soggetti erano gli stessi dei bozzetti realizzati da Nino e conservati a casa di Jacopo. E infatti, osservandoli con più attenzione, erano firmati Ofi.

    Inutile dire che quei disegni, scovati in maniera così fortuita, oggi fanno bella mostra di sé su una parete di casa mia, assieme a un paio di dipinti che ritraggono Nino e che mi sono stati regalati da Jacopo. Quando sono entrato in possesso delle cartoline non avrei mai potuto immaginare che un giorno avrei potuto fissare, seppure in un quadro, lo sguardo del loro autore.

    Spesso mi sono chiesto: cosa ci facevano le cartoline e i disegni di Nino a Mestre? Non sono mai riuscito a darmi una risposta. L’unica cosa di cui sono sicuro è che quelle testimonianze si sono trasformate per me nella possibilità – anche attraverso queste pagine – di contribuire a mantenere vivo il suo ricordo.

    Considero questo mio lavoro come una sorta di risarcimento nei confronti di quel giovane che, se non avesse sacrificato la propria vita in guerra, grazie alle doti non comuni avrebbe sicuramente potuto aspirare a un ruolo di primo piano in campo artistico e professionale.

    Mestre, gennaio 2020

    Paolo Seno

    Dedica

    Dedicato ad Adriana Cesca de Mordax,

    che ora starà sorridendo insieme a Nino e Ina.

    PREFAZIONE

    Paolo Seno e io condividiamo storie di casa ormai antiche, che andrebbero scambiate sottovoce per non dar fastidio a Maman Utilia, cui devo l'amore per il francese e spero poco altro. Entrambi le abbiamo sentite assieme e in momenti diversi dai nostri veci, con in testa Adriana cui è dedicato questo lavoro.

    Paolo ha saputo amalgamare il lessico familiare e i fermenti pre e postbellici di tre generazioni, ricreando una realtà sociale e culturale sull'orlo dell'abisso. L'uso sapiente del materiale orale e documentario gli ha permesso di trasformare in narrativa storica il gesto quotidiano e di evitare la monotonia espressiva tipica della diaristica, producendo uno spaccato verticale dell'esperienza veneziana e nazionale di quegli anni.

    Nel richiamare al presente la realtà del secolo scorso, Paolo ha adottato un approccio tattile, da immersione nel tempo breve. La ricostruzione degli eventi è punteggiata da piccoli gesti affettuosi, da amicizie e sodalizi politico-estetici, dal debito che Paolo e io dobbiamo ai tre Angeli, bisnonno, prozio e padre, legati tra loro dal ricordo e dall'assenza dell'amato Ofi.

    Se non fosse stato per lui, bisnonna Ernesta non sarebbe morta di crepacuore; nonna Ina avrebbe sposato l'ungherese di cui era innamorata invece del buon avvocato Moro; Luciana sua figlia non sarebbe esistita; e io e i Seno saremmo stati privati del presente che ci accomuna.

    Quanto al libro, mi auguro che il lettore si lasci trascinare dal ricordo di fango e mollettoni, di sigari toscani e arti decorative, restituendo al concetto di patria il significato di comunanza di intenti e di speranze che meglio lo esprime, al di là delle medaglie luccicanti e dei fronzoli bombastici di regime.

    Boston, gennaio 2020

    Jacopo Madaro Moro

    C’era la luna piena che ogni tanto usciva dalle nubi, in quel momento era chiaro e si vedeva bene. Erano pallidi, silenziosi, camminando non facevano rumore ma si sentivano i loro sospiri. La lunga fila veniva dalle montagne a sud, attraversava la conca tra le colline e quindi risaliva per la Val di Nos verso le montagne più alte.

    Altre file, spezzettate, la raggiungevano scendendo come rivoli dai monti. Non si vedeva da dove partissero, né dove arrivassero. Era rimasto lì impietrito fino all’alba e quando ritornò la luce del sole, dopo che la luna era tramontata, tutto si dissolse.

    – Sono le anime dei soldati morti, – disse un vecchio manovale che in guerra era stato nei conducenti.

    – Ma erano Italiani o Austriaci? – chiese un altro.

    – Non ricordo, – rispose Nando. – Forse erano insieme.

    – Per me, – disse uno, – avevi bevuto un bicchiere di troppo con il Vu. Chissà cosa ti avrà raccontato.

    – Non avevo bevuto. Un mezzo litro in due è niente.

    – Qui lavoriamo a costruire il monumento per le ossa dei soldati ma le loro anime vagano per queste montagne, – disse il primo che era intervenuto.

    Mario Rigoni Stern

    Le stagioni di Giacomo, Ed. Einaudi, Torino, 1995.

    CAPITOLO 1. ASIAGO, 1939

    Egregio Signor D’Incao, Vi aspetto Sabato 24 Giugno a mezzogiorno presso il nuovo Monumento Ossario di Asiago.

    Pur non conoscendoci, non ho dubbi che ci troveremo facilmente.

    Confido nel fatto che non vorrete mancare a questo appuntamento.

    Distinti saluti.

    Avvocato Vittorio Moro.

    Venezia, 1 Maggio 1939.

    Lo confesso: più che la reticenza mi ha colpito il tono perentorio della missiva, e un certo disagio ha immediatamente preso il sopravvento sulla diffidenza. In effetti, non ho mai sentito nominare Moro e il fatto che si sia presentato in veste di avvocato mi ha procurato non poca apprensione. Quello che conosco bene, però, è l’Altopiano. Me lo porto dentro da ventitré anni, anche se ho fatto di tutto per rimuovere certi ricordi.

    Incredibile, poi, la coincidenza della data: il 24 giugno per me è un anniversario carico di significati. Nel 1916 ero inquadrato nel 228° reggimento della brigata Rovigo. Quel giorno cadeva proprio di sabato e per la prima volta mi ero trovato di fronte agli austriaci nelle trincee del Bosco dei Laghetti, sul bordo settentrionale della piana di Marcesina. In guerra ne ho viste tante, ma le scariche di fucileria rivolte contro di noi in quell’occasione – furiose, senza una pausa fino all’alba del giorno successivo – mi rimbombano ancora oggi nelle orecchie, e certe notti mi fanno svegliare di soprassalto.

    Oggi, mentre percorro gli ultimi metri del viale che risale il colle del Leiten, nel punto in cui i gradini prendono il posto del selciato e il monumento si fa incombente, mi assale una tempesta di emozioni. Su tutte prevale una sorta di febbrile eccitazione: so di non essere stato convocato a un appuntamento qualsiasi e che con i prossimi passi varcherò la soglia di una sorta di macchina del tempo.

    La tentazione di fare retromarcia è forte: quali ricordi sarà in grado di evocare questo luogo? Ma è questione di un attimo, faccio un respiro profondo e procedo.

    L’ingresso dell’Ossario è sovrastato da un’enorme scultura raffigurante la testa di un soldato, la cui espressione solenne e marziale mi strappa un sorriso amaro. Sono certo che chi ha concepito quest’opera non ha fatto la guerra, e se l’ha fatta ha dimenticato le nostre facce imbrattate di fango, stravolte dalla paura e dall’orrore, violentate dalle ferite. Oppure, con ogni probabilità, ha perseguito un disegno perverso: stravolgere la realtà, trasformando la sofferenza e il cordoglio che ci portiamo addosso in qualcosa di epico e glorioso.

    Mi decido a entrare, e il brusco passaggio dalla luce del sole alla penombra mi costringe a fermarmi qualche istante per abituare gli occhi. A una trentina di metri davanti a me scorgo un altare. Si trova al centro di una sala da cui si diramano a raggiera parecchi corridoi disadorni sui quali si affacciano, tutte uguali, piccole lastre di marmo con incisi il grado e il nome di migliaia di soldati.

    Resto di sasso.

    Mi era di una certa consolazione sapere che i commilitoni morti riposavano sotto il cielo, in luoghi finalmente immersi nella pace dove la Natura sembrava tenerli in grembo come fa una mamma. Si trovavano all’ombra di croci di legno o cippi di pietra sui quali, oltre al nome, talvolta venivano riportate frasi che ne ricordavano le gesta e gli ideali. Tombe dove spesso trovava posto un fiore.

    L’atmosfera che respiro qui dentro, invece, mi opprime. Questa uniformità mi confonde.

    Ma è questione di pochi secondi: istintivamente mi metto a camminare, come fossi già stato qui decine di volte, mi dirigo a sinistra, cammino veloce fino a quando sono obbligato a svoltare a destra, percorro alcuni metri e, mosso da un riflesso condizionato, alzo lo sguardo:

    SOTTOTENENTE

    ASTOLFONI ANGELO

    MED. DI BRONZO AL V.M.

    Nino, il mio tenente!

    Non faccio in tempo a riprendermi dalla sorpresa che una voce alle spalle mi fa trasalire: «Cosa dite di come hanno sistemato il nostro Nino?»

    Mi volto di scatto e mi trovo di fronte a un uomo con qualche anno più di me, alto e signorile, l’espressione profonda resa severa dai baffi ben curati. «Avvocato Moro?» balbetto mentre mi porge la mano.

    Il tono della sua voce è cortese ma allo stesso tempo fermo. «Sapevo che sareste venuto. Mi perdoni se sono stato esageratamente stringato, ma non volevo rovinarvi la sorpresa. Ero certo che data e luogo dell’appuntamento sarebbero stati sufficienti a farvi accettare.»

    Avrei mille domande da fare, ma l’avvocato Moro mi incalza e, allargando teatralmente le braccia come immagino faccia quando esercita la sua professione nell’aula di un tribunale, si volta a guardare le lapidi che ci circondano: «E allora, Signor D’Incao, che effetto fa trovarvi qui?»

    Porca miseria! Guarda dov’è finito Nino. Devo fare un grosso sforzo per non abbandonarmi alle sensazioni e ai ricordi che questa situazione è in grado di evocare, e di fronte a Moro riesco a mantenere un certo controllo: «Avevo sentito parlare una decina di anni fa del progetto di costruire qui ad Asiago un’opera che esaltasse l’eroismo dei combattenti; si citavano la tradizione e la potenza di Roma, si celebrava l’orgoglio fascista. Con queste premesse a me, che fra queste montagne ho vissuto per la prima volta le tragedie e le desolazioni della guerra, l’Ossario era diventato antipatico già prima che venisse costruito.

    Figuriamoci poi quando, un paio di anni fa, ho letto che si stavano smantellando i vari cimiteri militari disseminati sull’Altopiano. Dicevano che esumavano i resti dei soldati e che, sotto la sorveglianza di un cappellano militare, le ossa venivano deposte in una cassetta dove erano riportati il nome, il grado ed eventuali decorazioni. Poveri ragazzi, dopo tanti anni non trovavano ancora pace. E adesso sono di nuovo allineati come fossero in una piazza d’armi.»

    Moro mi ha ascoltato con attenzione. Poi torna a guardare la lapide di Nino, a rimarcare in silenzio il senso della sua domanda. Volgo anch’io lo sguardo verso l’alto e finalmente riesco a parlargli senza imbarazzo: «Cosa volete che vi dica, avvocato. L’unico motivo per cui ritengo che Nino debba stare qui è che si trova in compagnia di migliaia di soldati morti come lui per compiere un dovere. Per il resto non lo vedo proprio in questo posto. Mi immagino le risate che si sarebbe fatto un artista come lui, nel vedere le tremende figure di vittorie alate che adornano il monumento ostentando fiaccole e fasci littori.»

    L’avvocato Moro tira un sospiro di sollievo: «Non sono un esperto d’arte, ma sottoscrivo quanto avete detto. Venite, usciamo, il freddo di questo posto mi sta immiserendo.»

    Uscendo noto sulla porta una donna vestita di scuro che ci osserva. La fisso per un momento un po’ turbato: mi sembra abbia un viso familiare. Poi mi metto quasi a rincorrere Moro che sta già percorrendo la scalinata che scende dall’Ossario.

    Alla luce del sole riesco a inquadrarlo meglio: sulla cinquantina, il fisico asciutto, il portamento fiero. Il suo abito elegante contrasta con l’abbigliamento dei paesani e dei pochi villeggianti che incrociamo scendendo verso il centro di Asiago. Cammina concentrato su se stesso, e si accende un sigaro.

    Mi mette un po’ in soggezione, ma le cose da chiarire sono tante e, pur con un certo imbarazzo, tento un approccio: «Avete fatto anche voi la guerra?»

    «Sì, ero tenente. Comandavo una sezione di mitragliatrici Fiat.»

    «Di che classe siete?»

    Mi risponde sovrappensiero: «Del ’91.»

    Mi scappa una battuta: «Come il fucile con cui abbiamo combattuto.»

    La replica è secca, accompagnata da uno sguardo che mi fulmina: «Come Nino!»

    L’avvocato ci ha messo meno di un secondo a togliermi d’impaccio e a riportare il discorso su quanto mi preme.

    Nino… Poche persone hanno preso posto nel mio cuore. Il mio tenente è una di queste. Alto, slanciato, lo sguardo sincero che ti penetrava, il sorriso buono e simpatico, la parlata sciolta che suscitava un’irresistibile simpatia quando si esprimeva in dialetto veneziano. Colto e sensibile, quasi ispirato, mai presuntuoso. E leale, nei confronti dei superiori come dei subalterni.

    Colgo al volo l’imbeccata e gli chiedo: «Ma voi come avete conosciuto Nino? Non eravate con noi della brigata Rovigo nel ’16. Siete stato un suo commilitone prima, a Parma oppure alla Caserma Fantuzzi di Belluno?»

    La domanda personale mette l’avvocato sulla difensiva. Si vede che non è abituato a concedere molta confidenza: «Conoscevo Nino molto prima che scoppiasse la guerra.»

    Escluso che abbia condiviso con Nino la passione per l’arte, tento allora la carta della professione, ricordando che il mio tenente prima della chiamata alle armi lavorava come giornalista in uno dei quotidiani della sua città: «Eravate colleghi alla Gazzetta di Venezia

    «No. Oltre che da una grande amicizia eravamo legati da certi ideali.»

    Pronuncia quest’ultima frase con il tono di chi non ammette che si indaghi sull’argomento. E come dargli torto? Parlare adesso di princìpi che non siano quelli imposti dal regime può costare caro. Tutto sommato Moro mi conosce solo da pochi minuti. Comprendo la sua ritrosia.

    So che Nino, dal punto di vista politico, era controcorrente, dato che si professava repubblicano. Citava spesso con orgoglio ed entusiasmo il Risorgimento, in particolare la stagione libertaria dei moti del 1848, quando la sua Venezia si era sollevata contro la dominazione austriaca dando vita a una repubblica che ebbe, come sottolineava, una vita tormentata e troppo breve.

    Nino inoltre aveva coltivato certe passioni fin dalla culla. Ne sono certo perché succedeva che, nei rari momenti di riposo, mi raccontasse di lui e della sua famiglia, quasi non fossi semplicemente il suo attendente ma un caro amico.

    La mamma era triestina, quindi cittadina austriaca, ma era cresciuta in un ambiente di convinti patrioti italiani.

    Ecco un argomento che non dovrebbe risultare compromettente. Azzardo: «Facevate parte di qualche movimento irredentista?»

    La risposta è stentata. Ma questa volta non per reticenza. Adesso Moro sembra quasi turbato: «Nino mi manca. Ma almeno si è risparmiato questa desolazione. Certo, irredentisti… e molto altro. Erano anni pieni di fermento. La società civile, in tutte le sue manifestazioni, dalla politica all’arte, era in trasformazione. E noi eravamo giovani, ci sentivamo padroni del futuro. Un futuro che vedeva la nostra patria forte e rispettata, fondata su valori di giustizia e uguaglianza.»

    Moro volge lo sguardo lontano, e dando l’impressione di reprimere un moto di rabbia, sussurra: «Lasciamo perdere!»

    Insisto: «Eppure Nino non era un fanatico: per quanto ne so non è stato fra quelli che sono corsi ad arruolarsi volontari, esaltati dal mito della guerra di redenzione.»

    L’avvocato si trova di certo più a suo agio nel parlare di Nino che di sé, e mi ribatte senza esitare: «Certi ideali Nino li aveva scritti nel sangue. Negli anni precedenti la guerra non perdeva occasione di stigmatizzare la nostra alleanza con l’Austria e la Germania, ed era convinto che Trieste, che visitava spesso per andare a trovare i parenti materni, sarebbe dovuta essere italiana. Ma qui si rivela il suo vero carattere: mai, prima del conflitto, l’ho sentito pronunciare una parola di odio, un’espressione di animosità nei confronti di chicchessia.»

    Mi torna alla mente l’equilibrio e la forza d’animo di Nino: «So a cosa vi riferite, avvocato. Al fronte ho visto gente che in un attimo, di fronte alle atrocità, ha perduto la propria innocenza, ha smarrito valori e riferimenti. Per quel poco che ho potuto conoscerlo, Nino è stato sempre coerente con se stesso. Con una dote esemplare: in ogni frangente ha saputo trovare il modo di trasmettere a chi gli stava vicino fiducia e sicurezza. E non mi riferisco soltanto ai suoi soldati, ma anche alla mamma e alla sorella, alle quali, appena possibile, scriveva parole di incoraggiamento.

    A proposito, avete mantenuto i contatti con la famiglia Astolfoni, sapete come stanno le signore?»

    Moro aspira una lunga boccata dal sigaro, mentre la severità del suo sguardo si scioglie: «Ernesta, la mamma di Nino, è morta nel ’25. Sua sorella Adriana è diventata mia moglie. Ci siamo sposati nel 1922 e abbiamo una figlia di quindici anni, Luciana.»

    Non posso nascondere la sorpresa causata da questa affermazione. Nino infatti mi aveva confidato che Ina – così era solito chiamare la sorella – era fidanzata con un ungherese, un certo Gustel. Una tenera, romantica storia d’amore che continuava nonostante lo scoppio della guerra, con i due innamorati che, pur appartenendo a nazioni nemiche, riuscivano a mantenere intensi rapporti epistolari attraverso la Svizzera. Talvolta queste lettere contenevano cenni degni di un’antica epoca cavalleresca, come quando Gustel, riferendosi a Nino, ha scritto di essere fiero che fosse diventato un bravo ufficiale.

    Cos’era dunque successo? Anche l’ungherese era morto in guerra?

    Moro ignora volutamente il mio stupore, ma non lascia cadere il discorso: «Grazie all’amicizia che mi legava a Nino, prima della guerra frequentavo abbastanza assiduamente casa Astolfoni. I rapporti con Adriana e la madre erano affettuosi ma ancora molto formali. Dopo la mobilitazione i contatti sono diventati più sporadici, ma non mancavo di scrivergli. Quando poi mi capitava di tornare a Venezia in licenza, andavo volentieri a fargli visita, sempre accolto con grande affetto. Sicuramente anche voi avete sperimentato il calore che manifestavano nei confronti di chiunque fosse legato a Nino.»

    Annuisco ripensando a tutte le volte che il mio tenente, dopo aver letto una lettera da casa, mi riportava i saluti da parte delle due donne.

    «Dopo la morte di Nino le vicende belliche non mi hanno consentito di essere vicino alle due donne come avrei voluto. Ma con la fine della guerra ho cominciato a frequentare Adriana sempre più spesso. All’inizio volevo prendere il posto del fratello scomparso, per offrirle quel supporto che le consentisse di affrontare la vita con fiducia. A dire il vero questo mio scrupolo era infondato: Adriana era già abbastanza forte per poter camminare con le proprie gambe. Quello che in realtà appariva evidente era la carenza di affetti che la affliggeva. Il padre morto quando era ancora una bambina, il fratello strappatole dalla guerra: Adriana era una donna sola.

    Il tempo ha fatto sì che quel vuoto fosse riempito dalla mia figura, e che l’affetto che ci legava si trasformasse in qualcosa di più profondo.»

    Moro si concede una pausa. Avverto che siamo arrivati al punto cruciale del nostro incontro. Un uomo come lui, schivo e severo al limite della ruvidezza, che per età, ceto sociale e cultura mi è superiore, mi sta svelando alcuni aspetti della sua sfera privata. Il suo disagio è palpabile, ma deve avere un motivo davvero valido per costringersi a tanto: «Posso farvi una confidenza personale?» Faccio un timido cenno di assenso con la testa.

    «In verità il mio rapporto con Adriana, a distanza di tanti anni, non esula dalla figura di Nino. Mia moglie continua a nutrire per lui una sorta di venerazione. Non passa giorno che l’anima santa – come lei chiama il fratello – non venga ricordata. I muri della nostra casa sono tappezzati di suoi dipinti e disegni. E non vi dico quante volte i miei gusti e il mio modo di fare sono messi a confronto con i suoi.»

    Dal tono non traspare alcun risentimento, ciononostante gli chiedo: «Vi pesa questa situazione?» Moro mi risponde senza incertezze: «Stiamo parlando del mio migliore amico. No, non mi pesa per niente. Certo, sarebbe assurdo se vi dicessi che la mia vita non è stata condizionata dalla sua figura. Ma se avrete la voglia e la forza d’animo di andare fino in fondo a questa storia, vi accorgerete che le vicende di Nino hanno cambiato la vita di tutti quelli che gli sono stati vicino.»

    Siamo finalmente al dunque. «Andare a fondo di cosa?» gli chiedo risoluto, dissimulando un po’ di agitazione.

    L’avvocato si ferma e mi guarda dritto negli occhi. «È Adriana l’artefice di questo incontro. È lei che ha caparbiamente voluto ritrovarvi, è lei che ha avuto l’idea di farvi venire fin quassù.»

    Non capisco. Guardo l’Ossario, poi i monti che a nord circondano Asiago. La giornata è limpida e il sole rende il paesaggio nitido e luminoso: vedo il profilo dello Zebio, con a destra la fenditura di Val di Nos che porta al Colombara, il monte dove Nino è stato colpito. Oltre, parallela a Val di Nos, c’è la Valle di Campomulo, dove si trovava l’ospedaletto da campo nel quale è morto.

    Torno a fissare Moro. Il suo sigaro si è spento. Lo riaccende un po’ nervosamente: «C’è un vuoto che Adriana vorrebbe colmare. Le ultime cartoline che Nino ha spedito a casa portano la data del 24 giugno. Di quanto è accaduto in seguito non si sa nulla, se non che è morto il 29. Cinque giorni, probabilmente i più tragici, di buio assoluto.

    Voi siete l’unico testimone che può far luce sugli avvenimenti che hanno preceduto la fine di Nino. Per Adriana siete una persona molto preziosa, e vorrebbe intraprendere con voi un viaggio nel passato. Ha preteso che questo percorso partisse proprio dalla fine, confidando nel fatto che la visione del monumento in cui adesso è rinchiuso Nino vi desse la forza per liberarne almeno la memoria.»

    Moro conclude riacquistando improvvisamente la sua aria severa: «Pensateci bene, Antonio. Questa opportunità, tra le altre cose, consentirebbe di porre rimedio a una vostra mancanza.» Moro ha indossato nuovamente la veste di avvocato, e ha parlato con tono accusatorio. Le sue parole mi hanno scosso come uno schiaffo.

    È come se una lama stracciasse il velo di oblio che ha coperto questi lunghi anni sorprendendomi indifeso, in balia di una strana sensazione di vergogna. Capisco a cosa si riferisce.

    Con Nino ho condiviso il battesimo del fuoco, sotto la sua guida ho lasciato il riparo della trincea per andare incontro all’ignoto. Ed ero al suo fianco quando siamo andati a sbattere contro quella fortezza di rocce – il Colombara – dalla quale è partito il colpo che lo ha atterrato. Io poi l’ho accompagnato all’ospedaletto da campo dove l’ho assistito fino all’ultimo respiro.

    Toccava a me comunicare la notizia alla madre e alla sorella, raccontare com’erano andate le cose, offrire una parola di conforto. Lo dovevo al mio tenente, prima che a loro. In realtà io stesso sono stato sopraffatto dal dolore e ho scaricato su altri questa responsabilità.

    Il senso di colpa che ho provato è stato in breve offuscato da quanto mi è toccato affrontare in seguito, nel corso della guerra. Poi, quando tutto è finito, certi pensieri li ho scaricati in un angolo nascosto, come quando ci si toglie dalle spalle uno zaino pesante e lo si butta a terra maledicendolo.

    Ma ecco che un avvocato veneziano si prende la briga di tirarlo fuori, quello zaino. E me lo vuole caricare nuovamente sul groppone, senza pensare che non ho più vent’anni, che quel peso potrebbe risultare insopportabile.

    Sono confuso, l’ultima frase di Moro mi ha lasciato senza parole.

    Nel frattempo abbiamo raggiunto la stazione di Asiago. Il trenino a cremagliera che mi riporterà in pianura è in attesa sul binario.

    Come spesso succede in montagna una nuvola ha improvvisamente coperto il sole. Con un gesto automatico mi alzo il bavero della giacca, ma non sono sicuro che i brividi che sento siano causati dal freddo.

    Mentre sto pensando a come congedarmi da Moro eludendo la sua richiesta, all’improvviso si affaccia nitido il ricordo di Nino che, prima di partire per l’ultima missione, ci passa in rassegna con lo sguardo.

    Tutto lasciava presagire che quel giorno ci avrebbe riservato qualcosa di terribile. Pendevamo dalle sue labbra, aspettando che pronunciasse la frase con cui era solito spronarci a seguirlo, e che per noi era diventata una sorta di formula scaramantica: "Plotone esploratori. Avanti, marsch!".

    Di solito scandiva queste parole con determinazione e un pizzico di allegra spavalderia. E noi lo avremmo seguito ovunque.

    Ma in quell’occasione lessi nei suoi occhi un’ombra di malinconia quando ci disse semplicemente Andiamo.

    Cerco lo sguardo di Moro e annuendo gli rivolgo un sorriso impacciato, che in realtà nasconde una smorfia di emozione.

    «Dite a vostra moglie che ci vediamo a Venezia.»

    CAPITOLO 2. VENEZIA, 1941

    Il treno che imbocca il lungo ponte che unisce la terraferma a Venezia si lascia alle spalle un tramonto spento dalle prime nebbie autunnali. Della città si intuisce appena il profilo. Ma a metà ponte, quando il treno rallenta in prossimità di uno slargo che accoglie un piccolo monumento con due cannoni ottocenteschi, improvvisamente la foschia scompare e le luci di Venezia creano, riflettendosi nell’acqua scura, un effetto magico.

    Sono trascorsi oltre due anni dall’incontro con l’avvocato Moro. Due lunghi anni in cui la situazione è precipitata. Siamo di nuovo in guerra, e questa volta non abbiamo neanche il pretesto di città italiane da liberare. Adesso stiamo soffrendo lutti e desolazioni per aver invaso l’Albania, la Grecia, la Jugoslavia, mentre nell’Africa settentrionale gli inglesi, lentamente ma inesorabilmente, stanno facendo sgretolare il nostro improbabile impero coloniale. Per non parlare del fatto che nel luglio scorso sono partiti dall’Italia i primi contingenti di truppe destinati alla campagna di Russia.

    E così sono tornato anch’io a indossare un’uniforme. Considerata l’età non

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