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Carabinieri tra Resistenza e Deportazioni 7 ottobre 1943 / 4 agosto 1944
Carabinieri tra Resistenza e Deportazioni 7 ottobre 1943 / 4 agosto 1944
Carabinieri tra Resistenza e Deportazioni 7 ottobre 1943 / 4 agosto 1944
E-book510 pagine6 ore

Carabinieri tra Resistenza e Deportazioni 7 ottobre 1943 / 4 agosto 1944

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Info su questo ebook

Nel periodo dell’occupazione nazista della città di Roma, che durò nove mesi dal settembre 1943 al 4 giugno 1944, due furono le deportazioni massicce di uomini: la prima di duemilacinquecento carabinieri avvenuta il 7 ottobre, la seconda di mille e ventitré cittadini romani di religione ebraica, avvenuta il 16 dello stesso
mese. È innegabile il collegamento tra le due deportazioni, documentato dai telex intercorsi tra il col. Herbert Kappler delle ss e i suoi superiori a Berlino Himmler e Kaltenbrünner. Ma a firmare l’ordine per i carabinieri fu un ministro della Repubblica
sociale italiana, il Maresciallo Rodolfo Graziani. A lungo questa deportazione è rimasta nell’oblio, un oblio sorprendente e ingiustificato, ma grazie alla ricerca storica e all’accesso a documenti non più secretati di archivi militari, italiani, tedeschi
e alleati, da qualche anno, anche questa data, oltre quella del rastrellamento degli ebrei, è entrata nella memoria della città e in quella della nazione. Oggi, a più di settant’anni dalla liberazione, una vicenda come quella dei carabinieri catturati a Roma e poi internati nei campi di concentramento nazisti può collocarsi, anch’essa a pieno titolo, come capitolo della storia della Resistenza italiana. Inoltre la parte più inedita della presente ricerca, che si segnala all’attenzione non solo dei lettori comuni, ma anche a quella dei lettori specialisti di storia contemporanea, riguarda
la ricostruzione, passo dopo passo, del rapporto persecutorio che l’arma dei CC. RR. subì da parte della RSI sia sul territorio nazionale – culminata in una successiva e definitiva deportazione nell’agosto 1944 –, sia nei lager nazisti, dove i carabinieri entrarono a far parte della massa degli IMI.

L'autrice, che collabora da anni con il Museo storico della liberazione di Roma e con l’associazione nazionale ex internati, ha potuto esplorare in presa diretta materiale in gran parte inedito, di straordinario interesse storico e umano, ricavandone informazioni preziose alle ragioni del NO a Hitler e Mussolini. Ne è scaturito un libro corale, una tessera di storia dal basso, nella quale protagonisti sono i militari anonimi, i senza nome, che nel caos dell’8 settembre, senza punti di riferimento, senza ordini dall’alto, contro l’arroganza della forza, scelsero individualmente dignità e coscienza.


In copertina: (USCC) in uno dei tanti campi di concentramento tedeschi, fra militari di varie nazionalità, la figura di un maresciallo dei carabinieri.
LinguaItaliano
Data di uscita27 set 2021
ISBN9788838251412
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    Carabinieri tra Resistenza e Deportazioni 7 ottobre 1943 / 4 agosto 1944 - ANNA MARIA CASAVOLA

    Anna Maria Casavola

    Carabinieri tra resistenza e deportazioni. 7 ottobre 1943 / 4 agosto 1944

    Copyright © 2021 by Edizioni Studium - Roma

    ISSN della collana Cultura 2612-2774

    ISBN 978-88-3825-141-2

    www.edizionistudium.it

    ISBN: 9788838251412

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    https://writeapp.io

    Indice dei contenuti

    ABBREVIAZIONI E SIGLE

    RINGRAZIAMENTI

    PREFAZIONE

    PRESENTAZIONE ALLA NUOVA EDIZIONE

    LA PRIMA RESISTENZA A ROMA

    ​1. La spallata al fascismo

    2. Bombardare Roma

    3. 8 settembre 1943: la svolta

    4. La prima Resistenza a Roma

    5. Il Fronte militare clandestino della Resistenza

    6. Montezemolo e gli altri

    7. La deportazione rimossa dei carabinieri romani

    8. Perché deportare i carabinieri?

    9. La successiva deportazione degli ebrei il 16 ottobre 1943

    10. La resurrezione dello Stato fascista

    11. L’antefatto della persecuzione dei carabinieri

    12. I difficili compiti dei carabinieri nella Città Aperta

    13. Il fenomeno massiccio della diserzione e la motivazione del provvedimento Graziani

    IL DISARMO E LA DEPORTAZIONE DEI CARABINIERI NEI DOCUMENTI E NELLE TESTIMONIANZE

    1. Come si svolse effettivamente la cattura

    2. Il lungo viaggio in vagoni piombati verso la Germania e la Polonia

    3. Testimonianze su gli altri viaggi e destinazioni dei carabinieri romani

    4. Feroce razzismo verso gli italiani

    5. Sulle tracce dei reduci: le carte parlano

    UNA RESISTENZA SENZ’ARMI

    1. Il sistema concentrazionario

    2. La scelta di resistere Dura prigioniero

    3. Le ragioni del no

    4. Il valore del giuramento per sentirsi liberi

    5. Il problema della civilizzazione

    6. Un percorso di maturazione, ma la patria nei campi non è morta

    7. Le radio clandestine, una sfida ad alto rischio

    LAGER E DOPO LAGER

    1. Per non morire di Lager: dai diari e dalle memorie

    2. Il tempo nel Lager, le occupazioni abituali e alcune giornate particolari: la liberazione di Roma, lo sbarco in Normandia

    3. L’arrivo dei liberatori tra esultanza e delusione

    4. Si ritorna finalmente, ma il paese non comprende gli IMI

    5. E quanti non sono tornati?

    L’ARMA DEI CARABINIERI E LA REPUBBLICA DI MUSSOLINI

    1. L’ora della verità per gli italiani

    2. Carabinieri nella bufera

    3. I due fronti degli italiani e la bandiera del patriottismo

    4. Rapporto tra Resistenza e stragi

    5. Il Fronte Militare clandestino dei carabinieri a Roma dopo il 7 ottobre 1943

    6. Dalle Fosse Ardeatine alla liberazione di Roma

    7. Perché a Roma non ci fu un’insurrezione

    8. La fine di Via Tasso

    9. Nella Repubblica Sociale Italiana la GNR al posto dell’Arma

    10. I carabinieri rimasti, perseguitati e deportati: 4 agosto 1944

    11. La Resistenza e i carabinieri

    12. Passato e presente

    POSTFAZIONE

    DOCUMENTI

    INDICE DEI NOMI

    ANNA MARIA CASAVOLA

    CARABINIERI TRA RESISTENZA

    E DEPORTAZIONI

    7 ottobre 1943 / 4 agosto 1944

    Prefazione di Antonio Parisella

    Postfazione di Giancarlo Barbonetti

    Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium Cultura ed Universale sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.

    È più difficile onorare la memoria dei senza nome

    che non quella di chi è conosciuto.

    Alla memoria dei senza nome è consacrata la costruzione storica.

    W. Benjamin

    Alla memoria di mio padre, Giuseppe Casavola,

    maresciallo maggiore dei CC

    ABBREVIAZIONI E SIGLE

    ACS Archivio Centrale dello Stato

    ANEI Associazione nazionale ex internati nei Lager

    nazisti*

    ARMIR Armata italiana in Russia

    Arbeitskommando distaccamento di lavoro

    ASMAE Ministero affari esteri Repubblica Sociale Italiana 1943-45

    ASMSCC Archivio Storico del Museo Storico dell’Arma

    dei Carabinieri*

    ASUSSME Archivio Storico dell’Ufficio Storico dello Stato

    Maggiore dell’Esercito

    BA – MA Bundesarchiv – Militärarchiv di Friburgo

    CAR Città aperta di Roma

    CRI Croce Rossa Italiana

    CICR Comitato Internazionale della Croce Rossa

    FF.AA. Forze Armate

    FMCR Fronte militare clandestino della Resistenza

    Gab gabinetto

    g. Geheim segreto

    Gestapo Geheim Staats Polizei, polizia segreta della

    Germania nazista

    I.M.I. Internati militari italiani

    GNR Guardia Nazionale Repubblicana

    Kriegsgefangener prigioniero di guerra

    KZ Konzentrationslager

    MSCC Museo Storico dei Carabinieri

    MSL Museo storico della Liberazione

    NSDAP Partito nazionalsocialista tedesco

    Oflag campo di prigionia per ufficiali

    OKW Oberkommando Wehrmacht

    Ovra Polizia segreta fascista (opera volontaria di repressione dell’antifascismo)

    RSHA Ufficio centrale per la sicurezza del Reich

    RSI Repubblica Sociale Italiana

    PAI Polizia dell’Africa italiana

    PS Pubblica Sicurezza

    SA Sturmabteilung, squadre d’assalto del NSDAP

    SAI Servizio assistenza internati organizzato dalla RSI

    SD Sicherheitsdientsder SS (servizio di sicurezza SS)

    Sipo Polizia di sicurezza (tedesca)

    SME Stato Maggiore Esercito

    SIM Servizio Informazioni Militari

    SS Schutzstaffel, polizia politica di protezione del NSDAP

    Stalag campo di prigionia per militari di truppa

    Stammlager campo di prigionia per sottufficiali e truppa

    USCC Ufficio Storico dell’Arma dei Carabinieri

    Vernichtungslager campi di sterminio

    RINGRAZIAMENTI

    Rinnovo i ringraziamenti, già espressi nella precedente edizione al col. Giancarlo Barbonetti, all’epoca capo dell’Ufficio Storico dell’Arma dei CC, che con la sua eccezionale disponibilità mi rese possibile la ricerca. Qui voglio invece ringraziare in special modo il presidente del Museo Storico della Liberazione di Roma, il prof. Antonio Parisella che il mio libro ha sempre valorizzato, fatto conoscere all’interno e all’esterno, promuovendone la lettura anche nelle scuole. Bisogna sapere che intorno al Museo è sorta negli anni una piccola comunità di volontari, quasi tutti ex insegnanti, uniti dallo stesso scopo e da uno spirito di reciproca amicizia. Da tutti ho ricevuto suggerimenti, spunti, sollecitazioni fino alla profssa. Virginia Tommasoni, che, spontaneamente, mi ha offerto il suo prezioso aiuto per l’indispensabile revisione del testo. Ma due persone, scomparse di recente, tengo in particolare a ricordare, la prof.ssa Gemma Luzzi e il dott. Giuseppe Mogavero, entrambi profondi conoscitori e appassionati custodi della memoria del Museo. A loro in particolare è dedicata questa seconda edizione. Da Gemma si può dire io abbia imparato l’abc della ricerca, il rigore dei dati, la sobrietà del racconto storico, di Giuseppe ho ammirato la sua competenza mai esibita, e il suo fare e parlare pacato. Mi ha aiutato, sempre con discrezione e senza quasi mia esplicita richiesta, a trovare libri rari che mi sarebbero stati utili e testimonianze importanti. Un lavoro storico è sempre più di ogni altro il risultato di letture e ancora di più di incontri che lasciano il segno. Io ho avuto la fortuna di incontrare sulla mia strada, personalmente, il prof. Vittorio Emanuele Giuntella e il dott. Gehrard Schreiber, e sui loro libri ho costruito la mia formazione. Chi leggerà le mie pagine non tarderà a riconoscere lo storico ex internato V. E. Giuntella come il mio Virgilio. Quanto allo storico tedesco egli ha avuto all’istante la mia ammirazione da quando, in un convegno alla Treccani per il giorno della Memoria nel 2002, ebbe a dire di aver provato una tristezza infinita e vergogna, studiando negli archivi militari, le condizioni terribili cui furono sottoposti i prigionieri italiani, ridotti a forza lavoro per il Reich , cioè a schiavi, e sottolineò anche come l’attuale Germania, in base a pretestuose argomentazioni, li avesse privati dell’indennizzo riconosciuto invece ai lavori coatti di altre nazionalità. Da quell’occasione romana nacque tra noi una bella amicizia epistolare, continuata fino alla sua scomparsa nel 2017. Ho sempre apprezzato che un tedesco avesse fatto dell’internamento dei militari italiani, per anni, l’oggetto quasi esclusivo delle sue monumentali ricerche, manifestando, anche nel sottotitolo della sua opera, il suo rapporto di empatia Traditi, disprezzati, dimenticati. Molte delle testimonianze di cui è intessuto il libro appartengono a persone direttamente conosciute, che ho avuto la fortuna, l’onore e l’emozione di conoscere nelle associazioni storiche, nelle quali per anni ho svolto la mia attività e, quindi, accanto al Museo di Via Tasso, è doveroso ricordare l’ANEI, altro luogo che ha contribuito in modo determinante alla mia formazione.

    PREFAZIONE

    Sono molteplici le ragioni per le quali questa appassionata ed accurata ricerca di Anna Maria Casavola si segnala all’attenzione non solo dei lettori comuni ma anche a quella dei lettori specialisti di storia contemporanea. Ma per comprenderla, occorre riferirsi all’evoluzione degli studi sulla Resistenza italiana all’occupazione nazista ed alla RSI, tra i quali questo si inserisce a pieno titolo. Oggi, a sessanta e più anni dalla Liberazione, una vicenda come quella dei carabinieri catturati a Roma e poi internati nei campi di concentramento nazisti può collocarsi, anch’essa a pieno titolo, come capitolo della storia della Resistenza italiana. Ma in passato non era stato sempre così: a lungo e per ragioni tutte spiegabili e spiegate dalla storiografia, l’interesse dei memorialisti, degli studiosi, dei cultori delle ricerche – soprattutto locali – di storia della Resistenza era incentrato in prevalenza sul soggetto principale, cioè il partigiano combattente, accomunato, da un lato, ai dirigenti politici antifascisti e, dall’altro, a quelle figure (come le staffette, i tipografi, le famiglie dei contadini e dei montanari, i parroci ed i medici di paese ecc.) che delle formazioni partigiane costituivano la parte maggiormente contigua alla società civile.

    Era piuttosto nell’ordine delle cose – si tratta di una constatazione delle dinamiche, delle culture politiche ed istituzionali e non di un giudizio di valore su intenzioni e comportamenti – che, una volta affermatasi la Repubblica e la classe politica dei partiti antifascisti alla sua guida, la rappresentazione della sua origine resistenziale ne uscisse condizionata. È tipica infatti di tutti i processi di legittimazione delle istituzioni una rappresentazione del passato funzionale agli assetti del potere statale. I re di Francia – come ci ha insegnato Marc Bloch – accreditarono di sé perfino la leggenda che assegnava loro poteri taumaturgici di guaritori dalla scrofolosi! Così, particolarmente dagli anni ’60 del ventesimo secolo, dopo la frattura della guerra fredda e la sconfitta nel luglio ’60 del tentativo di reinserire i neofascisti nelle maggioranze politiche, si affermò quello che poi fu definito antifascismo costituzionale e paradigma antifascista, basato sui partiti detti dell’arco costituzionale che avevano nel CLN la loro matrice. Questo portava, di fatto, a calare un velo di silenzio sia sulle esperienze dei movimenti politici esterni al CLN (anarchici, cattolici comunisti, Bandiera Rossa, cristiano-sociali, socialisti dissidenti, repubblicani ecc.) sia sui militari e sulle forme di lotta non armata.

    Nei riguardi dei militari, particolarmente di quelli della Resistenza a Roma, pesava l’accusa di attendismo, formulata nel corso delle vicende. Con essa si indicava l’atteggiamento ispirato all’attesa per intervenire, per controllare l’ordine pubblico e i centri del potere, all’imminenza della liberazione ad opera degli Alleati. Fra il mondo resistenziale ed i Carabinieri, poi, si era aperta una sorta di frattura, durata almeno un quindicennio a seguito della carica di Porta S. Paolo del luglio 1960 contro il corteo antifascista e, soprattutto, a seguito delle vicende del luglio 1964. L’Arma aveva reagito da subito, già dall’autunno 1960, con l’inaugurazione del monumento a Salvo D’Acquisto e con una serie di accreditamenti mediatici che avevano fatto del giovane vice-brigadiere quasi il simbolo di una fedeltà patriottica al popolo del paese occupato, segno di un legame che storicamente si era più volte rinnovato. Il legame si era poi rinsaldato soprattutto a partire dal trentennale della Liberazione e negli anni successivi, in una nuova unità politico-istituzionale, popolare nazionale, negli anni più intensi della lotta allo stragismo, al terrorismo e alla criminalità mafiosa, che di nuovi morti fecero nuovi simboli. E dall’interno dell’Arma era venuto un volume, I Carabinieri nella Resistenza e nella guerra di Liberazione, edito dall’Ente editoriale per l’Arma dei Carabinieri nel 1978, opera dell’ufficiale che aveva raggiunto il grado più alto, il generale di Corpo d’Armata Arnaldo Ferrara, che presentava l’apporto dei Carabinieri alla lotta di Liberazione nella sua coralità, in una presenza diffusa in tutti gli scenari dove gli italiani, armati e non, avevano combattuto e resistito al nazifascismo.

    Ma bisognava attendere il decennio tra il cinquantenario ed il sessantesimo perché si determinasse un mutamento culturale più profondo. Infatti la crisi del sistema politico, consolidatosi negli anni ’60 e basato sul cosiddetto arco costituzionale dei partiti antifascisti, proiezione nella vita repubblicana del CLN, apriva la strada alla contestazione revisionistica della Resistenza, cui si attribuiva la responsabilità di una debole coscienza nazionale attaccata dal separatismo leghista.

    La Resistenza vi appariva – ed uso volutamente una forzatura – come uno scontro sanguinario fra due minoranze violente in lotta per il potere, nella totale passività ed abulia del popolo italiano, ed i partiti antifascisti come congreghe di politicanti assetati di potere, in attesa di spartirsi le spoglie di uno Stato dissoltosi l’8 settembre con la dissoluzione delle forze armate.

    Per contro, con pazienza e al di fuori degli strepiti mediatici, abilmente ricercati con operazioni pubblicitarie ed editoriali orientate al massimo effetto, passo dopo passo, la ricerca e la raccolta di testimonianze hanno contribuito a ristabilire un quadro articolato e plurale ed a collocare al suo interno soggetti che erano rimasti (o erano stati lasciati) in ombra. A ciò ha contribuito la vera e propria scoperta del cinquantenario, rappresentata dalla lotta non armata, prima guardata con diffidenza, se non respinta anche solo come ipotesi, oggi diventata capitolo imprescindibile delle ricostruzioni delle vicende sia nazionali sia europee. Tra i soggetti che hanno conosciuto una ricollocazione adeguata sugli scenari della vicenda resistenziale 1943-1945, accanto alle donne (soprattutto contadine) e al clero, vi sono senza dubbio i militari.

    Mai nessuno aveva appannato con critiche e riserve, il valore e l’eroismo di prove generose di fedeltà patriottica al proprio paese e al proprio popolo, come quelle di Cefalonia, della difesa di Roma e di tante altre località, dei tanti episodi – da Salvo D’Acquisto ai carabinieri di Fiesole –, in cui la responsabilità individuale si espresse ai livelli più alti. Tuttavia in molti permanevano riserve e pregiudizi nei confronti di coloro che, soprattutto appartenenti a forze di polizia, particolarmente in una prima fase dell’occupazione nazista, erano riusciti a non macchiarsi di responsabilità per fatti gravi e ad esercitare nell’ombra un rischioso ruolo di protezione ed informazione. Di esso si erano giovati per salvarsi militari sbandati, ex prigionieri alleati, ebrei, cospiratori politici, organizzatori di formazioni partigiane, renitenti ai bandi per l’arruolamento o per il lavoro coatto. Ancora più grave era stata la vera e propria rimozione che era stata operata – per mancanza assoluta di conoscenza di documenti e testimonianze che intorno all’ANEI erano stati raccolti, prodotti e diffusi – nei riguardi degli ex militari internati in campi di concentramento per non aver accettato di inquadrarsi nell’organizzazione neofascista della RSI e di collaborazione con i nazisti. Sono stato personalmente testimone del giudizio di un antifascista di lunga data già incarcerato e confinato e poi partigiano, che li considerava poco meno che collaborazionisti.

    Nel mutamento di contesto e di sensibilità cui abbiamo accennato, la vicenda dei carabinieri di Roma si colloca con una sua particolarità che ci illumina su aspetti non secondari. In primo luogo, la vicenda successiva dei carabinieri deportati diventava parte della più generale vicenda degli internati militari italiani ed il loro NO al collaborazionismo con i nazisti e con la RSI, diventava parte del più generale rifiuto dei militari italiani. Ma, nel caso dei carabinieri, vi era una differenza rispetto all’insieme dei militari internati. Si era in presenza di appartenenti ad un’Arma scelta, dei quali – ad eccezione degli allievi – un migliaio potevano essere stati anche impiegati nella repressione del dissenso politico e nel controllo politico della popolazione.

    Questo fatto, in relazione alla pervasività del fascismo nei diversi settori della società, cioè all’effettiva costruzione dello Stato totalitario, apre più di un interrogativo sulla penetrazione ideologico-politica del regime nei corpi dello Stato e sulla natura e sui limiti di quell’effetto di barriera che avrebbe costituito la nota e diffusa permanente fedeltà alla Corona.

    Quando in archivio uno studioso apre un fascicolo personale del casellario politico o una busta di relazioni sull’ordine pubblico e sullo spirito pubblico, alla base delle informazioni contenute in rapporti di questori e di prefetti, trova sempre segnalazioni e relazioni di stazioni, tenenze o compagnie di carabinieri. Allo stesso modo, erano sempre i carabinieri a raccogliere le informazioni e a trasmetterle alle autorità militari e governative per quanto riguardava le operazioni relative a leva ed arruolamento militare. Ciò significa che alla base dei comportamenti e degli orientamenti presenti tra gli effettivi di ogni grado al momento dell’occupazione nazista non era presente soltanto un rispetto formalistico del dovere e della fedeltà istituzionale, vi agiva anche una più complessa ed articolata aderenza ai sentimenti della popolazione nei riguardi della guerra e del fascismo che – in virtù della capillarità della loro organizzazione territoriale – meglio di altri i carabinieri erano in grado di conoscere ed interpretare.

    In secondo luogo, dopo circa un mese dall’inizio dell’occupazione e pochi giorni dopo la formazione della RSI, a Roma e dintorni erano solo duemila o duemilacinquecento i carabinieri in servizio, mentre almeno il doppio (e qualcuno dice più del triplo) erano già passati alla macchia, e questo sta ad indicare che la maggior parte di essi si erano sottratti anche a quella forma di collaborazione istituzionale prevista per i corpi di polizia dalle norme internazionali per la tutela della pubblica sicurezza. Essi erano stati inquadrati nelle forze di polizia della Città Aperta, pronti da quella posizione a sabotare, finché era stato possibile, quei provvedimenti che più pesantemente avrebbero potuto colpire i cittadini.

    In terzo luogo, mentre i duemila, duemilacinquecento venivano internati nei Lager tedeschi, anche i carabinieri alla macchia partecipavano con una loro formazione all’attività del FMCR e come tali – dai semplici militi ai sottufficiali, agli ufficiali ed allo stesso comandante gen. Filippo Caruso – ebbero i loro arrestati, i loro torturati, i loro fucilati e i loro deportati (ora politici e non più internati militari). E far parte del FMCR significò una cosa ben precisa, della quale non sempre vi è percezione adeguata: il FMCR non era una qualsiasi formazione partigiana, ma – sia pure con gerarchie e catene di comando inconsuete e sovvertite in relazione alla situazione eccezionale – una forma di sopravvivenza in clandestinità di un nucleo qualificato dell’esercito regio, regolato da ordini e disposizioni riconducibili ai comandi militari, al governo e, in ultima istanza, al re. Pertanto ne va tenuto conto nella valutazione di comportamenti, iniziative ed azioni, particolarmente della (scarsa e occasionale se non inesistente) collaborazione con formazioni partigiane facenti capo a partiti del CLN o fuori di esso.

    Questi aspetti richiamano ancora una volta l’attenzione sulla realtà, poco indagata, ed oggi difficilmente ricostruibile nei suoi particolari e nella sue dinamiche, della cosiddetta prima Resistenza. Infatti, il richiamo dell’insurrezione vittoriosa e della Liberazione ha fortemente influenzato gli studi e le ricerche sul momento culminante dei venti mesi dell’occupazione nazista dell’Italia. Ed anche il consolidamento delle forze resistenziali oltre la Linea Gotica tra il 1944 ed il 1945 ha portato talora ad identificare quella fase dell’esperienza resistenziale con la Resistenza tout court. Invece, nella più attenta considerazione della Resistenza come fase della storia nazionale, appare da non trascurarsi lo studio di tutti gli eventi, i luoghi, i comportamenti ed i soggetti che si sono presentati sulla scena fin dagli inizi dell’occupazione nazista.

    Così, in relazione alla realtà romana (Roma comunque era una cassa di risonanza per ogni evento), la deportazione dei carabinieri e quella, di poco successiva, degli ebrei rastrellati al Ghetto, evidenziano quanto fosse debole l’opposizione all’occupazione. E quanto a renderla ancora più debole concorresse la frattura tra CLN e militari, che era la conseguenza diretta e drammatica del comportamento tenuto dal re e dal governo in occasione dell’8 settembre.

    Molti grandi storici, da Benedetto Croce a Marc Bloch, da Henri-Irenée Marrou a Vittorio E. Giuntella, da Federico Chabod a Guido Quazza, da Leo Valiani a Pietro Scoppola hanno individuato il valore etico della storia nella sua stessa funzione di conoscenza, senza pregiudizi, della verità del passato che ci è trasmesso dai documenti. Non una pura e semplice trascrizione dei dati da essa emergenti, ma un rapporto con il nostro passato che ci suggerisce di porre ad essi quelle domande che derivano dall’inquietudine dei nostri tempi. È per questo che tra il ricercatore e i documenti si stabilisce un rapporto di simpatia, di corrispondenza che, senza forzare l’interpretazione, accanto alle verità che la storia continua ad offrirci, permette di far emergere anche valori etico-civili.

    Non è questo l’obiettivo della ricerca storica, ma il suo naturale corollario per chi ad essi non sia indifferente.

    Se leggiamo con cura le pagine di questo libro, abbiamo la possibilità di verificare come – con discrezione, senza strillare, senza funambolismi letterari, allenata alla comunicazione da una vita dedicata all’insegnamento, inteso come una responsabilità sociale e civile verso le nuove generazioni – Anna Maria Casavola abbia realizzato appieno tale prospettiva, metodologica ed etico-civile ad un tempo.

    Museo storico della Liberazione, Roma, agosto 2008.

    Antonio Parisella

    PRESENTAZIONE ALLA NUOVA EDIZIONE

    Ho deciso di aggiornare il mio libro del 2008, 7 ottobre 1943. La deportazione dei carabinieri romani nei Lager nazisti , per diversi motivi: sia per integrarlo con ulteriori dati sull’argomento, nel frattempo emersi, sia per inserire quell’evento in un orizzonte più ampio, quello della Resistenza, prima a Roma e poi in Italia, alla quale anche i militari italiani, prigionieri in mano ai tedeschi, parteciparono. Collaborando con il Museo storico della liberazione in Via Tasso a Roma da quasi vent’anni, nel servizio educativo, ho potuto sperimentare che, a livello degli studenti e, talora, anche degli stessi insegnanti, questo capitolo di storia è assai poco conosciuto oppure l’informazione è approssimativa, superficiale e anche gli anziani, che vengono in visita, spesso ne hanno una visione distorta, non obiettiva, ancora viziata dalle vecchie impostazioni ideologiche. Quando citiamo la nostra Costituzione e diciamo che è nata dalla Resistenza, che cosa evoca questa parola negli italiani di oggi? Il fatto che non solo in Italia, ma anche nel resto del mondo, ci siano revival di fascismo e nazismo con uso di simboli o scritte inneggianti a quel periodo storico e che talora queste manifestazioni degenerino anche in episodi di autentica violenza, è un segno dei tempi da non sottovalutare.

    Per occuparci in particolare del nostro Paese, io penso che le conseguenze gravissime della sciagurata guerra fascista, a fianco della Germania nazista, negli anni 40-43, davvero siano state poco metabolizzate dagli italiani di oggi, se tante volte si sentono rimpiangere dall’uomo della strada i tempi in cui i treni arrivavano in orario e c’era in Italia un uomo solo al comando. Dobbiamo dire che, salvo le leggi razziali, attribuite tra l’altro alla responsabilità di Hitler, non si è mai sentito veramente deprecare la guerra rovinosa, di aggressione ad altri popoli, nella quale Mussolini precipitò il nostro Paese. Si tratta di amnesia, di voluta rimozione, di scarsa o nessuna conoscenza? Anche i libri di testo adottati nelle scuole, i manuali di storia, per decenni nel secolo scorso, hanno omesso l’informazione sugli argomenti più scabrosi, favorendo una revisione indulgente del fascismo, che in certi ambienti dura tuttora. Diciamo subito che alla Resistenza ha nuociuto sia la retorica celebrativa dei primi tempi – l’accaparramento quasi monopolistico da parte della sinistra – sia la campagna denigratoria degli avversari nostalgici con i tentativi di minimizzare, nascondere la tragica realtà del totalitarismo nazifascista. Per esempio, per 60 anni sono stati nascosti i crimini della guerra fascista in Etiopia, l’uso dei gas tossici nei bombardamenti contro le popolazioni civili, gas come l’iprite messi al bando da convenzioni internazionali sottoscritte dalla stessa Italia nel 1928. Al giorno d’oggi pochi ancora sanno del massacro di Addis Abeba e di quello dei monaci del convento di Debré Libanos, ordinato dal maresciallo Graziani nel 1937, come rappresaglia ad un attentato, una vera mattanza nella quale le vittime etiopi furono circa 19 mila. Né si è raccontato della politica di feroce snazionalizzazione e di bonifica etnica fatta dal governo fascista sulle popolazioni di lingua non italiana dell’Istria e della Dalmazia o della nostra occupazione militare in Slovenia con deportazioni in massa nel famigerato campo di concentramento dell’isola di Rab, dove la mortalità era addirittura superiore a quella di Auschwitz. Come si è sorvolato sui crimini fascisti si è sorvolato o si sono poco sottolineate le pesanti condizioni di pace cui fu costretta l’Italia, considerata, ancora alla fine della guerra, nazione nemica, nonostante la Resistenza e l’apporto della cobelligeranza. Certo, la svalutazione della Resistenza italiana comincia da lontano: in ambiente internazionale si profilò già durante i lavori della Conferenza di pace di Parigi e colse di sorpresa i nostri delegati, primo fra tutti Alcide De Gasperi, che si videro trattati come i rappresentanti di un paese nemico, non di un’Italia che, a prezzo di tante sofferenze, innumerevoli vittime e macerie, si era liberata dalla dittatura fascista. De Gasperi si era fatto accompagnare per il suo intervento dal suo omonimo Alcide, padre dei sette fratelli Cervi: Agostino, Aldo, Antenore, Ettore, Fernando, Gelindo e Ovidio tutti uccisi per una rappresaglia dai fascisti [1] e da Emma Dell’Ariccia, rappresentante dei partigiani della pace e madre dei cinque fratelli Perugia, di cui tre, Giovanni, Mario e Settimio, morti ad Auschwitz e solo due, Angelo e Lello, ritornati. Doveva essere una specie di biglietto di visita del prezzo pagato dall’Italia sotto il tallone tedesco, ma il trattamento fu quello di una nazione sconfitta. L’Unione sovietica, l’Inghilterra e la Francia agirono esclusivamente in funzione dei loro interessi di potenza e di sicurezza, quanto agli Stati Uniti, pur costituendo il maggior punto di riferimento dell’Italia nella trattativa, la loro preoccupazione fu piuttosto quella di arrivare ad un accordo che intervenire sui contenuti di questo.

    La testimonianza di Giuseppe Brusasca, esponente della Democrazia cristiana ex presidente del CNL Alta Italia e componente della delegazione italiana, ci fornisce particolari inediti su quello storico evento: «Il 10 agosto 1946 all’ora fissata la delegazione italiana si presentò alla Conferenza. Venimmo ricevuti dal Capo del Cerimoniale del Senato francese che ci condusse in un locale di attesa dove rimanemmo fino a quando venne aperta la seduta. Nella mia esperienza di avvocato ebbi l’impressione del trattamento fatto agli imputati tenuti in camera di sicurezza fino all’ingresso in aula dei giudici, De Gasperi era tesissimo e si appartava nei vani delle finestre. Chiamati finalmente in aula, venimmo accompagnati ai seggi che ci erano stati riservati: cinque per parte al centro dell’ultima fila in alto. Il nostro ingresso fece scattare innumerevoli macchine fotografiche e cinematografiche, mentre noi eravamo scrutati con la morbosa curiosità riservata agli imputati dei grande processi. Con un secco colpo di lunga bacchetta, George Bidault che presiedeva l’assemblea, dichiarò aperta la seduta [...] chiamato alla tribuna, pallidissimo, con il tormento della tremenda responsabilità che gravava su di lui, De Gasperi iniziò con voce accorata il suo discorso che resterà sempre fra le più elevate difese degli interessi di tutti i popoli» [2] .

    Da italiano e da rappresentante di un paese che si era liberato dal fascismo, egli rivendicò il valore della guerra di Liberazione e della cobelligeranza, che pure era stato riconosciuto all’Italia nel comunicato di Potsdam del 2 agosto 1945, nel quale si diceva chiaramente che l’Italia era stata la prima delle potenze dell’Asse a rompere con la Germania , ma che era sparito nel preambolo del trattato e nei 78 articoli del trattato stesso, cancellando il ruolo di riscatto avuto dal popolo italiano. Purtroppo anche la promessa di entrare subito a far parte dell’organismo dell’Onu, che sembrava compensazione alla belligeranza non fu mantenuta, l’Italia vi entrerà solo nel 1955 alla pari con altri Stati e De Gasperi, che morì nel 1954, attese invano. Mi sembra importante ricordare in quell’occasione le sue parole ferme, vibranti di giusta indignazione: «Prendo la parola in questo consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra cortesia, è contro di me: è soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa ritenere un imputato, l’essere arrivato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione [...]».

    «Ora non v’ha dubbio che il rovesciamento del regime fascista non fu possibile che in seguito agli avvenimenti militari, ma il rivolgimento non sarebbe stato così profondo, se non fosse stato preceduto dalla lunga cospirazione dei patrioti che in Patria e fuori agirono a prezzo di immensi sacrifici, senza l’intervento degli scioperi politici nelle industrie del nord, senza l’abile azione clandestina degli uomini dell’opposizione parlamentare antifascista (ed è qui presente uno dei suoi più fattivi rappresentanti) che spinsero al colpo di stato. [...] Che cosa è avvenuto perché nel preambolo del trattato si faccia ora sparire dalla scena storica il popolo italiano che fu protagonista? Forse che un governo designato liberamente dal popolo, attraverso l’Assemblea Costituente della Repubblica, merita meno considerazione sul terreno democratico?

    La stessa domanda può venir fatta circa la formulazione così stentata ed agra della cobelligeranza: delle Forze armate italiane hanno preso parte attiva alla guerra contro la Germania.

    Delle Forze? Ma si tratta di tutta la marina da guerra, di centinaia di migliaia di militari per i servizi di retrovia, del Corpo Italiano di Liberazione, trasformatosi poi nelle divisioni combattenti e last but not least dei partigiani, autori soprattutto dell’insurrezione del nord. [...]

    Le perdite nella resistenza contro i tedeschi, prima e dopo la dichiarazione di guerra, furono di oltre 100 mila uomini tra morti e dispersi, senza contare i militari e civili vittime dei nazisti nei campi di concentramento ed i 50 mila patrioti caduti nella lotta partigiana».

    Ho voluto rievocare qualche passo dell’appassionato discorso di De Gasperi perché, parlando di Resistenza, mi è sembrata la narrazione più corretta, più sobria, più aderente alla verità delle cose, più aliena da retorica e mitizzazioni sempre di dubbio effetto, una narrazione che avrebbe dovuto stamparsi nella memoria degli italiani. È singolare però che la sottovalutazione degli Alleati sia diventata invece la sottovalutazione degli italiani, che amplificando molto il ruolo salvatore degli angloamericani hanno cominciato a vedere la guerra partigiana di liberazione non, orgogliosamente, come riscatto dalla complicità con la dittatura fascista, ma addirittura come causa prima delle stragi e delle rappresaglie dei tedeschi. Eppure il prezzo della guerra fascista e della pace senza condizioni fu durissimo da pagare, ma gli italiani di breve memoria l’hanno dimenticato. Questa in particolare comportò, nella parte orientale, la perdita di lembi non piccoli del territorio nazionale, conquistati con grande sacrificio di sangue nella prima guerra mondiale e il dramma della popolazione giuliana, istriana e dalmata, che si vide costretta a lasciare quei territori passati sotto la sovranità della Jugoslavia. Gli unici a pagare per le conseguenze della guerra fascista saranno loro. Di ciò in Italia si è avuta poca percezione se non fosse che da qualche anno è stato istituito con la Legge 30 marzo 2004 n. 92 il Giorno del Ricordo da celebrarsi il 10 febbraio per commemorare le vittime delle foibe del 1943-1945 e l’esodo, nel dopoguerra, di circa 350 mila italiani dall’Istria e dalla Dalmazia. Quindi non solo l’esodo ma anche le stragi di italiani precipitati nelle foibe carsiche, prima della fine della guerra e poi a guerra finita nel maggio 1945, sono state un altro gravissimo buco nero della nostra memoria nazionale. Forse il silenzio dei politici e dei media come pure la mancata epurazione dei vertici compromessi con il passato regime e la mancata punizione dei crimini commessi nella guerra fascista, in Africa, in Grecia, in Jugoslavia – non si volle una Norimberga italiana – fu consigliata dal timore che si rinfocolassero conflitti a destra e a sinistra e si ripetesse quella situazione di turbolenze che aveva caratterizzato il dopoguerra della prima guerra mondiale. Proprio il leader comunista Palmiro Togliatti, in qualità di ministro di Grazia e Giustizia, al fine di perseguire una politica di pacificazione, si fece sostenitore, subito dopo la fine della guerra, della concessione di un’amnistia per i reati commessi in quel periodo, considerati politici. E a proposito della questione giuliana, silenzio di Stato sulle foibe in cambio della non estradizione di militari italiani – generali – accusati di crimini di guerra compiuti durante l’occupazione fascista. Non dobbiamo poi dimenticare l’intreccio delle circostanze determinato dal clima di guerra fredda, che si instaurò subito tra i due blocchi Est e Ovest, a guerra finita, e che portò al ribaltamento delle alleanze, sicché la Repubblica federale tedesca, di cui si favorì il riarmo in funzione antisovietica, passò a pieno diritto nel fronte atlantico. Una conseguenza fu per l’Italia che, per mantenere con la nuova Germania rapporti di buon vicinato, si affossarono i processi per i crimini commessi durante l’occupazione. Ora la Storia – io penso – può essere maestra se la si legge nella sua interezza, nelle parti che ci piacciono e quelle che non ci piacciono, nelle luci e nelle ombre che non mancano mai, perché solo se conosciamo correttamente il passato, tutto il passato, possiamo dire chi siamo e di quale memoria vogliamo essere eredi. Da tutte queste operazioni politiche di rimozione, occultamento, conoscenza parziale dei fatti sono derivate, a mio avviso, la sotterranea rivalutazione del fascismo, considerato in fondo buonista, la svalutazione della Resistenza agli occhi degli stessi italiani, la difficile giustizia sui crimini di guerra, perpetrati dai tedeschi e dai loro complici repubblichini, fino ad arrivare negli anni 60 all’archiviazione di oltre seicento fascicoli nel famoso armadio della vergogna, scandalo sollevato sulle pagine dell’«Espresso» nel 1995 dal giornalista Franco Giustolisi. Fatte queste considerazioni preliminari e, secondo me, chiarificatrici, vengo a precisare che nel presente libro non c’è nulla che non sia documentato, è uno spaccato di storia dal basso intorno ad alcuni dei fatti successi in quella terribile stagione 1943-45, e ciò sulla base di memoriali e materiali di archivio – archivi di istituzioni, di associazioni o di

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