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L ombra degli Havilland
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E-book378 pagine5 ore

L ombra degli Havilland

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Info su questo ebook

Reduce da una condanna per guida in stato d'ebbrezza che potrebbe costarle l'affidamento del figlio Ollie, Helen sta attraversando un momento difficile, e l'amicizia di Ava e Swift Havilland sembra l'unica ancora di salvezza. In breve tempo quella coppia di ricchi filantropi diventa il centro della sua vita: li aiuta con l'associazione non profit che hanno fondato, partecipa alla brillante vita sociale che conducono, condivide con loro pasti e confidenze. Abbagliata dal fascino dei nuovi amici, che le fanno balenare davanti agli occhi la possibilità di sfruttare la loro influenza per vincere la battaglia legale per l'affidamento, inizia persino a sognare un futuro in cui lei e Ollie saranno di nuovo insieme. E quando incontra Elliot, un simpatico commercialista di cui potrebbe innamorarsi e che però loro disapprovano, non esita a mettere in discussione se stessa e la propria capacità di giudizio. Ma nel momento in cui Ollie diventa il testimone scomodo di un incidente che coinvolge Swift, quella facciata scintillante inizia a sgretolarsi.
LinguaItaliano
Data di uscita4 gen 2018
ISBN9788858976623
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    Anteprima del libro

    L ombra degli Havilland - Joyce Maynard

    romanzo.

    1

    Novembre era agli sgoccioli e pioveva senza sosta da una settimana. Mio figlio e io avevamo lasciato il nostro vecchio appartamento prima che cominciasse la scuola, ma non mi ero ancora decisa a portare via le ultime cose dal magazzino che avevo affittato. Quando mancavano due giorni alla fine del mese, rinunciai ad aspettare il bel tempo. C’erano cose peggiori di qualche scatolone bagnato. E io lo sapevo bene.

    Il fatto che avessimo finalmente abbandonato quella città era una buona notizia. Avevo da poco estinto il mio debito con l’avvocato che mi aveva rappresentata nel processo per la custodia, più di dieci anni prima. Adesso Oliver e io vivevamo in un appartamento più grande e più vicino al mio nuovo posto di lavoro a Oakland – una casa in cui mio figlio aveva finalmente un po’ di spazio per sé, e dove c’era anche un piccolo studio per me. Dopo un lungo periodo avverso, il futuro sembrava promettente.

    Essendo a corto di soldi, come sempre, e dato che Ollie avrebbe trascorso il fine settimana con il padre, mi ero decisa a fare un’ultima capatina da Goodwill con un mucchio di cose che non ci servivano più. Era praticamente tutto zuppo, me compresa. Mi ero fermata a un incrocio in attesa del mio turno. In quel momento avrei solo voluto uscire dalla città, con la consapevolezza che non vi avrei più fatto ritorno.

    Erano trascorsi quasi dieci anni dall’ultima volta in cui avevo posato lo sguardo su Ava Havilland. Poi, quel giorno, la vidi.

    C’è un fenomeno che mi è capitato di osservare in passato: di fronte a un paesaggio gremito di informazioni visive apparentemente prive di significato, il tuo sguardo sarà attratto da una piccola cosa insolita in mezzo a migliaia di altre. Questa cosa ti attira, e di colpo i tuoi occhi, dopo avere osservato tutto il resto per poi passare oltre, si concentrano su quell’unica cosa che non ha senso, o preannuncia un pericolo, o semplicemente ti ricorda un luogo e un tempo diversi. E non riesci più a distogliere lo sguardo.

    È una cosa che non ti aspetti, quel frammento di paesaggio che stona con il resto. Per un altro paio d’occhi potrebbe non significare niente.

    Ricordo un giorno in cui avevo portato Ollie a una partita di baseball, uno dei miei incessanti tentativi di costruire momenti felici e normali con mio figlio entro i confini innaturali delle nostre sporadiche visite di sei ore. Al centro delle gradinate, in una sezione totalmente diversa del campo – in mezzo a migliaia di altri tifosi – avevo intravisto un uomo conosciuto alle riunioni degli Alcolisti Anonimi del martedì sera, con una birra in mano, e a giudicare dalla sua risata non doveva essere la prima. Mi aveva pervaso un senso di tristezza – di terrore, per la verità – perché appena una settimana prima avevamo festeggiato i suoi tre anni di sobrietà. E se lui poteva ricascarci in quel modo, che dire di me?

    Quella volta avevo distolto lo sguardo. Mi ero girata verso Ollie facendo un commento sul lanciatore, la tipica osservazione che una persona più esperta di baseball avrebbe potuto rivolgere al figlio in un momento del genere, un momento in cui una madre voleva condividere l’esperienza di una partita di baseball con suo figlio dimenticando tutto il resto. Una madre del genere non avrebbe mai costretto il figlio a vederla mentre nasconde bottiglie di vino sotto le confezioni dei cereali in fondo al bidone della raccolta differenziata, o mentre viene caricata sul sedile posteriore di un’auto della polizia in manette. Una madre del genere avrebbe visto il figlio tutte le sere, non solo due sabati al mese per sei ore. Per anni avrei voluto solamente essere una madre del genere.

    Questo succedeva molto tempo prima. Non avevo ancora conosciuto gli Havilland. Non avevo conosciuto Elliot, che, dopo avermi incontrata, avrebbe dato qualsiasi cosa pur di portare mio figlio e me a una partita di baseball ed entrare a far parte della nostra piccola famiglia sgangherata. Un sacco di cose non erano ancora successe, all’epoca.

    Ed eccomi al volante della mia vecchia Honda Civic, ferma a quell’incrocio in una zona triste di San Mateo dove gli aerei, decollando o preparandosi all’atterraggio, erano così bassi che a volte davano l’impressione di sfiorare il tetto della macchina.

    Un’auto nera affiancò la mia; non un’auto della polizia, però sembrava un veicolo ufficiale di qualche tipo, non una limousine. Non fu l’uomo seduto davanti ad attirare la mia attenzione. Fu la passeggera sul sedile posteriore. Guardava dal finestrino, attraverso la pioggia, e per un momento i suoi occhi incrociarono i miei.

    Nei pochi secondi prima che l’auto nera attraversasse l’incrocio la riconobbi, e per gli strani meccanismi della mente – quando l’istinto non si è ancora messo al passo con l’esperienza – il mio primo impulso fu di gridare come se avessi visto un’amica perduta da tempo. Per un secondo, questa enorme ondata di pura e semplice felicità cominciò a travolgermi. Era Ava.

    Poi ricordai. Ava non era più mia amica. Dopo tutto quel tempo, mi dava ancora una strana sensazione vederla senza chiamarla per nome. Senza nemmeno alzare la mano per salutarla.

    Lasciai perdere. Misi su un’aria inespressiva. Ammesso che mi avesse riconosciuta – e credevo di sì, a giudicare da quello che vidi nei suoi occhi, nei pochi secondi in cui scrutarono dal finestrino – sembrava riluttante quanto me ad ammettere ciò che entrambe sapevamo.

    Era cambiata molto dall’ultima volta. Non era solo invecchiata – doveva avere sessantadue anni, se i miei calcoli erano esatti, e mancava poco al suo compleanno. Era sempre stata snella, ma il viso incorniciato dal finestrino sembrava scheletrico, nient’altro che pelle tesa sulle ossa. Avrebbe potuto benissimo essere una persona morta ma non ancora seppellita. Oppure un fantasma, e per me era diventata proprio questo, sotto molti aspetti.

    Ai vecchi tempi, quando parlavamo tutti i giorni – più di una volta al giorno, di solito – Ava aveva sempre un milione di cose da raccontarmi, anche se uno degli aspetti che apprezzavo di lei era la sua disponibilità ad ascoltare quello che io avevo da dire. Prestava moltissima attenzione.

    Era sempre impegnata in qualche progetto, ed era sempre qualcosa di eccitante. Non avevo mai conosciuto nessuno che avesse un’aria così decisa e risoluta. Quando entrava in una stanza avevi la certezza che stesse per succedere qualcosa. Qualcosa di straordinario.

    La donna che intravidi quel giorno, sul sedile posteriore dell’auto nera dall’aria ufficiale, somigliava più a una persona a cui non sarebbe mai più capitato niente di buono, una persona per cui la vita era finita. Solo, il suo corpo non aveva ancora elaborato la notizia.

    I capelli sembravano ingrigiti, anche se erano quasi completamente nascosti da uno strano berretto rosso che la Ava che conoscevo non avrebbe mai indossato. Era il genere di cappello che si potrebbe trovare a una fiera dell’artigianato per anziani, fatto da qualche vecchia signora in filato di poliestere perché è più economico della lana. «Poliestere» mi aveva detto Ava una volta. «Non si capisce già dal nome che è robaccia?»

    Ma era pur sempre Ava. Nessuno al mondo le somigliava. La Ava che vidi quel giorno in macchina, però, non era al volante di una Mercedes Sprinter argentata. Questa Ava non governava più la grande casa in Folger Lane, con la piscina dal fondo nero e quel roseto esotico affidato alle cure di un giardiniere. Non c’era più una cameriera del Guatemala che ritirava i suoi indumenti in lavanderia e si assicurava che venissero ordinati alla perfezione, per colore, nel suo vasto armadio, con tutte le sue belle scarpe nelle scatole originali, e i foulard, e i gioielli che Swift aveva scelto per lei stesi su vassoi di velluto. La donna sul sedile posteriore dell’auto nera non aveva più scialli e calzini di cachemire da regalare a chi aveva la fortuna di essere considerato suo amico, né sformati di carne per i senzatetto reduci del Vietnam, e neppure ossa per i cani randagi. Impossibile immaginare Ava senza i suoi cani, e invece eccola lì.

    Ed era ancora più incredibile vedere Ava senza Swift.

    C’era stato un tempo in cui non trascorreva giorno senza che sentissi la sua voce. Quasi tutto ciò che facevo era ispirato direttamente dalle cose che mi diceva, e non serviva nemmeno che me le dicesse perché sapevo sempre quello che stava pensando, e qualunque cosa fosse la pensavo anch’io. Poi c’era stato un periodo lungo e buio in cui mi aveva tagliato fuori dal suo mondo, e la dura realtà di quel tradimento era diventata – seconda solo alla perdita della custodia di mio figlio – il fattore determinante della mia vita. Insieme ad Ava avevo perso anche il ricordo della persona che avrei potuto essere senza di lei. Malgrado la forza che riusciva a generare la sua presenza, la sua assenza era ancora più potente.

    Per questo, quando la intravidi attraverso il finestrino di quell’auto ferma, mi meravigliai che fosse passata qualche settimana dall’ultima volta in cui avevo pensato a lei. Ora che lo stavo facendo, riaffiorò in me un triste e angoscioso senso di perdita. Non che volessi tornare al periodo trascorso nella casa in Folger Lane. Adesso avrei solo voluto non avervi mai messo piede.

    2

    La casa. Comincerò da qui. Ora vive qualcun altro nella casa degli Havilland; hanno rimosso la rampa d’accesso per i disabili e le camelie di Ava e realizzato un parcheggio aggiuntivo, che attualmente è occupato da un SUV ibrido argentato da cui, di recente, ho visto scendere due bambini biondi con una donna che sembrava una tata. E il dolore che avverto nelle rare occasioni in cui passo di fronte alla casa è inseparabile da un’altra sensazione, quella che provavo ogni volta che infilavo il vialetto: la sensazione di essere finalmente approdata in un luogo in cui mi sentivo a casa. Riuscivo di nuovo a respirare, e a quel punto l’aria era intrisa della fragranza dei gelsomini.

    Io non vivevo in quella casa. Il mio cuore sì. Ironico che io dica questo dopo tutto ciò che è successo, ma a casa degli Havilland mi sentivo al sicuro. Fa senz’altro parte della mia storia, e il fatto che nei trentotto anni precedenti alla mia prima visita in Folger Lane non avessi quasi mai provato una sensazione simile è il motivo per cui attribuivo a quel luogo una tale importanza.

    Quando in quella casa abitavano Ava e Swift, i primi a scendere dalla Mercedes non appena lei parcheggiava erano sempre i cani, tre cani di razza imprecisata salvati dalla soppressione. «Li abbiamo salvati» faceva notare a chiunque non lo sapesse già. Il veicolo era stato appositamente equipaggiato con un sollevatore elettrico che accompagnava fino a terra la sua sedia a rotelle all’avanguardia. Il più delle volte, al mio arrivo, Ava mi veniva incontro sulla sua sedia, spalancando il braccio libero – quello che non stava manovrando la sedia – per accogliermi.

    «Ti ho preso questi fantastici scaldamuscoli» diceva. In alternativa poteva essere una tazza, un meraviglioso diario rilegato in pelle, del miele prodotto da api che frequentavano solo campi di lavanda. Aveva sempre qualche regalino per me: un maglione scelto da lei, di un colore che non indossavo mai e che all’improvviso si rivelava perfetto per la mia carnagione; un libro che credeva mi sarebbe piaciuto, oppure un vaso con un mazzo di piselli odorosi. Non mi ero neanche accorta che la suola delle mie scarpe era consumata, ma Ava sì, e conoscendo il mio numero e la mia marca preferita – o una migliore, più probabilmente – me ne comprava un paio nuovo. Chi si sognerebbe di comprare un paio di scarpe a un’amica? Insieme a un paio di calzini a righe abbinati. Sapeva che li avrei adorati, e aveva ragione.

    A quel punto Sammy e Lillian – i due meticci più piccoli – mi stavano leccando le caviglie, e Rocco – il cane problematico che si teneva sempre in disparte, tranne quando decideva di morderti – correva in tondo come faceva ogni volta che era eccitato, cioè sempre, scodinzolando come un forsennato. E non appena aveva una mano libera, Ava prendeva la mia e insieme ci precipitavamo in casa mentre lei strillava a Swift: «Guarda chi ti ho portato» anche se lui, naturalmente, lo sapeva.

    Ava mi dava sempre da mangiare quando andavo in Folger Lane, e divoravo qualsiasi cosa mi offrisse. A un certo punto, nel corso degli anni, senza accorgermene avevo perso il piacere di mangiare. Avevo perso il piacere di vivere, o quasi. Gli Havilland me lo avevano restituito. Me ne rendevo conto ogni volta che mi incamminavo lungo il liscio sentiero di ardesia fino alla loro porta aperta, dov’ero travolta da un’ondata di ottimi profumi. La minestra sul fornello. Il pollo arrosto in forno. Una ciotola di gardenie galleggianti in ogni stanza. E il fumo del sigaro cubano di Swift che filtrava all’esterno.

    Poi una risata. Lo scroscio della risata sonora e cordiale di Swift, come un macaco nella giungla che sta annunciando la sua disponibilità ad accoppiarsi. «Tirando a indovinare, direi che è Helen» gridava.

    Mi bastava che un uomo come Swift pronunciasse il mio nome per sentirmi importante. Forse per la prima volta nella mia vita.

    3

    Swift non andava più in ufficio. Aveva smesso da anni. Prima gestiva una serie di startup nella Silicon Valley – la più recente consentiva ai viaggiatori d’affari di fascia alta di effettuare prenotazioni dell’ultimo minuto al ristorante, e aveva fatto talmente tanti soldi che si era ritirato. Quando li avevo conosciuti, lui e Ava stavano mettendo in piedi un’organizzazione no profit chiamata BARK, che si sarebbe occupata di trovare una casa ai cani abbandonati e di sovvenzionare i servizi di castrazione e sterilizzazione. Swift gestiva ogni cosa dal gazebo della loro piscina, e da lì supervisionava anche i loro investimenti. Passava molto tempo al telefono, parlando con i potenziali donatori della BARK da una scrivania rialzata, con quel suo vocione. Non appena la moglie rientrava, però, Swift smetteva di fare qualsiasi cosa e correva in casa per metterle le mani dappertutto.

    «Ti spiego perché Swift si rapporta così bene con gli animali» mi disse Ava una volta. «Perché è un animale anche lui. Quell’uomo vive per il sesso. È semplicissimo. Non riesce a togliermi le mani di dosso.» Lo disse in tono divertito, più che seccato. Era un tono che adottava spesso parlando di Swift, come se il marito fosse una pulce che le si era posata addosso ma che lei non aveva avuto problemi a scacciare. Nonostante questo, non ho mai dubitato che lo adorasse.

    In effetti, sebbene la moglie restasse al centro del suo universo, Swift aveva parecchie altre ossessioni: la sua motocicletta Vincent Black Lightning del 1949 – acquistata, dopo una lunga ricerca, perché adorava la canzone di Richard Thompson e doveva possederne una anche lui –, la scuola per i bambini di strada che patrocinava in Nicaragua, le sue lezioni private di Qi Gong, il corso di scherma, lo studio della medicina cinese e delle percussioni africane e il corteo apparentemente interminabile di giovani praticanti di Reiki, medici energetici e istruttori di yoga che si presentavano a casa in ogni momento del giorno per le sue sedute individuali. Tra i due poteva sembrare Ava quella più bisognosa di fisioterapia, eppure quando si presentava qualcuno alla porta – in genere una donna, probabilmente bellissima, con un materassino o un lettino per i massaggi e qualche strano attrezzo difficile da identificare – il più delle volte era lì per lavorare con Swift.

    La casa in Folger Lane era il fulcro di tutto. Swift e Ava avevano una seconda casa sulle sponde del lago Tahoe, che visitavano di tanto in tanto, ma a parte questo e gli occasionali viaggi di Swift per promuovere la loro fondazione, non si spostavano mai. Non sopportavano di stare lontani, diceva Swift. Lontani dai cani, precisava Ava.

    C’era un figlio molto amato – di lui, non di lei – ma Cooper era partito per la East Coast per studiare economia, e di solito quando tornava a casa stava con la madre. Tuttavia, chiunque visitasse la casa in Folger Lane poteva rendersi conto che quell’uomo adorava il figlio osservando la distesa di fotografie che tappezzava le pareti della biblioteca di Swift – fotografie di Cooper mentre faceva eliski insieme ai compagni di confraternita nella Columbia Britannica, o mentre cavalcava su una spiaggia delle Hawaii con la fidanzata Virginia, o mentre sollevava un enorme boccale di birra insieme al padre durante una partita dei San Francisco 49ers.

    I figli di Ava erano i cani, era lei stessa a dirlo. Un tempo pensavo che fosse proprio il fatto di non avere figli a motivare la sua straordinaria generosità verso le persone e gli animali che amava. I cani occupavano il primo posto tra i suoi affetti, era sottinteso, ma aveva l’eccezionale capacità di individuare anche le persone da salvare.

    Non soltanto io, che ero riuscita a instaurare un rapporto speciale con lei, ma anche gli sconosciuti. Magari ero fuori a pranzo con Ava in qualche ristorantino – offerto da lei, naturalmente – poi d’un tratto vedeva un uomo nel parcheggio che rovistava nella spazzatura e un minuto dopo andava a parlare con la cameriera, allungandole una banconota da venti dollari e chiedendole di portare a quell’uomo un hamburger, patatine fritte e una Root Beer Float. Se vedeva un senzatetto a bordo strada con un cane, Ava accostava sempre per dargli una manciata di bocconcini biologici che teneva in un grosso secchio sul retro del furgone.

    Aveva stretto amicizia con un uomo di nome Bud, che lavorava da un fioraio dove ci fermavamo a comprare rose e gardenie – in quantità industriale – perché le piaceva tenerle in un grande vaso accanto al letto. Non vedemmo Bud per un po’, e quando Ava scoprì che gli avevano diagnosticato il cancro andò in ospedale il pomeriggio stesso con libri, fiori e un iPod su cui aveva caricato la colonna sonora di Bulli e pupe e Oklahoma!, perché sapeva quanto Bud apprezzasse i musical.

    E non fece visita a Bud solo quella volta. Era una che andava fino in fondo. Dicevo sempre che era l’amica più fedele che avrei mai potuto trovare. Se Ava faceva di qualcuno la sua missione, era per la vita.

    «Non ti libererai mai di me» mi disse una volta. Come se potessi volerlo.

    4

    Conobbi gli Havilland nel periodo del Ringraziamento in una galleria di San Francisco, a una mostra di dipinti realizzati da adulti affetti da turbe emotive. Lavoravo come addetta al catering per arrotondare lo stipendio. Avevo compiuto trentotto anni due mesi prima, ero divorziata da cinque anni, e se quel giorno qualcuno mi avesse chiesto di individuare una cosa buona della mia vita avrei faticato a rispondere.

    La mostra alla galleria era un evento isolato, una raccolta fondi per un’organizzazione a sostegno delle malattie mentali. I presenti, per la maggior parte, erano gli artisti affetti da turbe emotive e i loro parenti, che sembravano a loro volta un po’ disturbati. C’era un uomo con una tuta arancione che non alzava mai gli occhi dal pavimento, e una donna molto bassa con le treccine e un sacco di forcine di plastica infilate nella frangetta, che parlava a ruota libera da sola e a tratti fischiettava. Era naturale che Ava e Swift spiccassero in quel gruppo, anche se avrebbero spiccato comunque.

    All’epoca non conoscevo i loro nomi, ma la mia amica Alice, che si occupava del bar, sì. Notai prima Swift, non certo perché fosse di una bellezza convenzionale, neanche lontanamente. In realtà qualcuno avrebbe potuto descriverlo come un uomo particolarmente sgraziato, ma c’era un che di affascinante in questa sua mancanza di grazia. Qualcosa di primitivo e selvaggio. Era sodo e muscoloso, e aveva una massa ribelle e disordinata di capelli castani. Aveva la carnagione scura e mani grandi, indossava un paio di blue jeans – di ottima fattura, non Gap o Levi’s – e teneva la mano dietro il collo di Ava in un gesto che non avrebbe potuto essere più intimo nemmeno se le avesse palpato il seno.

    Si era sporto verso Ava per bisbigliarle qualcosa all’orecchio. Si era dovuto chinare, dato che lei era seduta, ma prima di parlare aveva affondato il viso tra i suoi capelli ed era rimasto così per un momento, come per inspirare il suo profumo. Di certo un uomo come lui non mi avrebbe mai notato né degnato di attenzione, nemmeno se fosse stato lì da solo. Poi scoppiò a ridere, una risata sonora, quasi da iena. Risuonò da un capo all’altro della stanza.

    Sulle prime non notai la sedia a rotelle; pensai che Ava fosse semplicemente seduta, ma quando la folla si schiuse vidi le sue gambe, immobili sotto i pantaloni di seta argentata, e le pantofole raffinate che non toccavano mai il pavimento. Non la si sarebbe definita bella nell’accezione comune del termine, ma aveva uno di quei volti che si fanno notare: occhi grandi, bocca grande, e quando parlava muoveva le braccia come una ballerina, braccia lunghe e snelle, con tutti i muscoli ben definiti. Alle dita di entrambe le mani portava enormi anelli d’argento, e uno spesso bracciale, sempre d’argento, le avvolgeva il polso come una manetta. Capii che, se avesse potuto alzarsi in piedi, sarebbe stata molto alta, probabilmente più alta del marito, ma anche da seduta trasmetteva l’immagine di una donna potente. La sua sedia somigliava a un trono.

    Nonostante fossi occupata con i vassoi dei canapè, mi concessi di pensare per un istante a come sarebbe stato osservare quella folla da una posizione così bassa – il suo viso arrivava pressappoco al petto di molte delle persone intorno a lei. Se questo la turbava, non lo dava a vedere. Sedeva drittissima sulla sedia a rotelle, con un portamento regale.

    Immaginai che avesse all’incirca cinquant’anni. Il marito – pur essendo in gran forma, con la pelle elastica e una folta chioma – sembrava più vicino ai sessanta, una stima che si sarebbe rivelata esatta. Ricordo di avere pensato: Vorrei somigliare a quella donna quando sarò più vecchia, pur sapendo che non sarebbe stato così.

    Come primo lavoro, in quel periodo, facevo ritratti fotografici, un modo fantasioso per descrivere le ore trascorse dietro un obiettivo – in scuole, centri commerciali, location di eventi – cercando di strappare un sorriso a imprenditori dall’aria annoiata e a ragazzini riluttanti. Le giornate lavorative erano lunghe, la paga misera. Ecco spiegati i miei occasionali servizi di catering. A ogni modo, sapevo valutare con molta accuratezza i volti, ed ero consapevole delle mie fattezze. Occhi piccoli. Un naso né largo né sottile, ma poco definito. Il mio corpo era sempre stato del peso giusto, ma niente di eccezionale. Quanto al resto – mani, piedi, capelli – devo ammettere che non c’è una sola cosa degna di nota nel mio aspetto, e forse è per questo che spesso la gente si dimentica di avermi già incontrato. Dunque fu ancora più sorprendente che Ava avesse scelto me, tra tutte le persone con cui avrebbe potuto parlare, quella sera alla galleria.

    Stavo facendo il giro con un vassoio di involtini primavera e spiedini di pollo alla tailandese quando Ava alzò gli occhi dalla tela che stava esaminando.

    «Se dovessi comprare una di queste opere d’arte, sapendo che ti toccherebbe guardarla sul muro di casa tua per il resto della vita, quale sceglieresti?»

    Rimasi immobile con il vassoio in mano mentre un uomo dal volto inespressivo (probabilmente autistico) agguantava il suo quarto o quinto spiedino, intingendolo nella salsa di arachidi, dando un grosso morso sudicio e immergendolo di nuovo. Qualcuno sarebbe rimasto sconcertato, ma Ava non si scompose. Intinse il suo involtino primavera nella ciotola e lo divorò in un boccone.

    «È una scelta difficile» risposi, osservando la galleria. C’era un ritratto di Lee Harvey Oswald realizzato su una tavola di legno, con una lunga serie di parole scritte alla base che avevano senso più o meno quanto un incrocio tra una lista della spesa e un libro di chimica del college. C’era la scultura di un maiale rivestita con uno smalto rosa sgargiante, con cinque o sei maialini di ceramica dello stesso rosa sgargiante disposti lì intorno come se stessero poppando. C’era una serie di autoritratti di una donna grande e grossa con i capelli di un arancione vivace e gli occhiali – un’opera grossolana, ma talmente efficace nell’evocare il soggetto che avevo riconosciuto l’artista nell’istante in cui era entrata nella stanza. La mia opera preferita però, dissi ad Ava, era il dipinto di un ragazzo che trainava un carretto su cui era caricato un altro ragazzo che tirava un carretto simile ma più piccolo, con sopra un cane.

    «Hai buon occhio» mi disse. «È quello che sto per comprare.»

    Abbassai lo sguardo, troppo imbarazzata per incrociare il suo, ma l’avevo osservata abbastanza per notare il suo aspetto straordinario: il collo da cigno, la pelle liscia e bronzea. In quel momento mi sentii come una bambina lodata dall’insegnante. Una di quelle bambine abituate a non ricevere molte lodi.

    «Io sono di parte, ovviamente» aggiunse. «Adoro i cani.» Tese la mano. «Ava» disse, guardandomi dritto negli occhi come solo poche persone fanno.

    Le dissi come mi chiamavo e aggiunsi, cosa che ormai non rivelavo quasi più a nessuno, che ero una fotografa. O lo ero stata. Specializzata in ritratti. Spiegai che quello che mi piaceva davvero era raccontare storie attraverso le mie fotografie. Amavo raccontare storie, punto e basta.

    «Da giovane credevo che sarei diventata una specie di Imogen Cunningham» dissi. «Ma sono più portata per questo.» Feci una risata mesta, inclinando la testa verso il vassoio di canapè ormai vuoto.

    «Non devi esternare tutta questa energia negativa» disse Ava. Lo disse in tono benevolo. Ma deciso. «Non hai idea di cosa potresti fare da qui a un anno. Di come potrebbero cambiare le cose.»

    Sapevo benissimo come potevano cambiare le cose. Non in meglio, nel mio caso. C’era stato un periodo in cui vivevo con un uomo che credevo di amare, che pensavo ricambiasse il mio amore, e con un bambino di quattro anni che aveva assoluto bisogno della mia presenza ogni giorno, ogni ora, tanto che una volta aveva cercato di farmi promettere che non sarei mai morta. «Prima passerà un sacco di tempo» avevo risposto. «E quando succederà, nella tua vita ci sarà una persona davvero formidabile che ti amerà tanto quanto me, e qualche figlio, magari. E un cane.» Era l’unica cosa che nostro figlio aveva sempre desiderato e Dwight non gli aveva mai concesso.

    Dwight si infuriava quando Ollie si presentava in camera nostra per infilarsi nel lettone con noi, mentre a me non dava alcun fastidio. Adesso dormivo da sola e sognavo l’alito caldo di mio figlio sul collo, la sua manina umida aggrappata a me, e suo

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