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Mi fido di te
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E-book378 pagine5 ore

Mi fido di te

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Info su questo ebook

Harper Reid non ha soldi e nessun posto dove andare, ma non può passare un altro giorno sotto lo stesso tetto del suo violento fidanzato. Nel disperato tentativo di ricominciare da capo, accetta un caso speciale tramite l’agenzia di assistenza che lo ha assunto. Il cliente ha licenziato tutti gli assistenti prima di lui, ma il lavoro comprende l’alloggio, quindi Harper deve trovare un modo per far funzionare le cose finché non si sarà rimesso in sesto.
L’eccentrico e ambizioso Riley Davenport ha perso la vista, fatto che ha spezzato le ali dell’uomo pieno di vita che era un tempo. Imparare a navigare nell’oscurità è già abbastanza difficile senza essere trattato come un vegetale dalla sua ragazza, dai suoi genitori e dai suoi amici. L’ultima cosa di cui ha bisogno è l’ennesimo badante invadente che gli sta con il fiato sul collo, eliminando anche le sue ultime libertà. Ma Harper Reid è diverso… molto diverso.
Nervoso, silenzioso, riservato. È come se Harper nascondesse dei segreti e fosse lui quello a cui bisogna insegnare di nuovo a vivere. E perché profuma di biscotti? Gli uomini non dovrebbero avere un buon profumo.
LinguaItaliano
Data di uscita20 mar 2024
ISBN9791220707312
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    Anteprima del libro

    Mi fido di te - Dianna Roman

    1

    RILEY

    La macchia bionda si sposta nel mio campo visivo, diffondendo un alone grigio-argento circondato da frammenti di bianco provenienti dalle lampadine. È davanti a quello specchio da trenta minuti. Non ho mai prestato attenzione a quanto tempo impiegasse a prepararsi finché non ho avuto nulla che mi distraesse durante l’attesa. Questo è tutto ciò che mi sembra di fare in questi giorni: aspettare come un bagaglio a mano, in piedi accanto a un viaggiatore impegnato.

    Non so perché sono qui, a fissare questo abisso oscuro che potrei letteralmente vedere guardando qualsiasi altra cosa nell’appartamento. Forse perché sembra uno di quei documentari scientifici difficili da capire. Perché, altrimenti? Voglio dire, che senso ha guardare, se non riesci a vedere il risultato finale? E per chi diavolo si sta preparando, dato che di sicuro, quel qualcuno, non sono io?

    Il suono udibile delle sue labbra che schioccano precede il rumore di altri tocchi di bellezza sul mio lavandino. Probabilmente è un bene che non riesca a vedere di quanta parte del mio bagno si è impossessata. Faccio sempre cadere le cose sul pavimento ogni volta che mi lavo le mani o cerco di trovare il mio rasoio. A proposito, giura di non averlo usato sulle gambe e che i graffi che sento sul viso devono essere dovuti alla mia incapacità di radermi nel modo giusto ora che sono cieco. Non ci credo neanche morto.

    «Ho quasi finito, tesoro,» ripete. «Poi ci occuperemo di te.»

    Rispondo con un grugnito dalla porta, come un bravo bagaglio. Sono in grado di prepararmi bene, ma ho imparato a evitare questo argomento. Dicono che perdere la vista non acuisca gli altri sensi. Chiunque ci creda non ha sentito i sospiri di Valerie quando commetto l’atroce crimine di frugare io stesso alla ricerca di qualcosa nel mio comò. Non posso più lavorare. Che cazzo c’è di così sbagliato nei pantaloni della tuta e nelle magliette quando non hai altro da fare se non stare in giro per casa tutto il giorno?

    Quando tre mesi fa Val ha detto che sarebbe venuta a trovarmi per aiutarmi, il me idiota ha pensato che fosse per il fine settimana. Il mio amico Rob ha detto che, dato che all’epoca mi frequentavo con lei da otto mesi, quello avrebbe dovuto essere un segnale d’allarme: un codice per trasferirsi qui. Gli devo ancora venti dollari, ma col cazzo che glieli darò. Voglio dire, come diavolo l’ha capito? Lo conosco da dieci anni e non ha avuto una ragazza che sia durata più di una settimana.

    Penso di essere qui sperando di riguadagnare ancora i miei venti dollari. Questo e, se verrò gratificato con un prezioso momento di vista, vorrei sapere a cosa è servito farmi stare mezz’ora appoggiato allo stipite della porta.

    Ho visto Val ieri. È stato solo per circa un minuto quando mi sono svegliato la mattina. Non succedeva da due settimane. Il dottore ha detto che non si aspetta che duri, ma lei è speranzosa.

    Credo ci sia una regola universale non scritta secondo cui dovresti amare le persone che sperano in te, ma non si tratta proprio di questo. No? Spera solo che io smetta di essere una responsabilità. Spera che io sia il ragazzo che può dirle che è bellissima, l’uomo che può portarla in giro per il centro in sella alla sua moto invece di quello a cui deve allacciare la cintura di sicurezza sul sedile del passeggero della sua Prius.

    Odio quella dannata Prius, e se mai trovassi quel profumatore per ambienti alla vaniglia che ci ha infilato, giuro che lo butterò fuori dal finestrino in autostrada. L’unico profumo di vaniglia accettabile proviene dai biscotti. È risaputo.

    Non gliel’ho detto, questa volta. Non del profumatore, parlo del vederla sbavare sul mio cuscino, con la maschera viola storta sugli occhi, chiara come il giorno nella luce del mattino per sessanta secondi. Dovrei essere felice. Giusto? Ho avuto la possibilità di rivedere il viso della mia ragazza. Non è colpa sua, ma non c’era niente: nessun sentimento caldo e confuso oltre alla breve gioia di guardare una persona, qualsiasi persona.

    Sta facendo del suo meglio. A Val non è mai mancato niente nella vita. Non credo abbia avuto neanche un animale domestico di cui prendersi cura mentre cresceva. Racconto a me stesso che è questo il problema, che sta compensando in modo eccessivo. Mi ripeto ciò che dicono i medici: questo sarà un grande compromesso. L’irrequietezza che sento non può essere tutta colpa sua. So che è un colpo del cazzo a cui devo abituarmi, ma voglio dire, avrei dovuto volerla guardare. Giusto?

    Sessanta secondi, più o meno, e in tutta onestà non mi importava che quella sdraiata davanti a me fosse la donna che dice di amarmi. Sarei stato felice anche di fissare un senzatetto. Ancora più felice, forse. Sarebbe stato qualcosa di nuovo. Non c’è più nulla di nuovo quando diventi cieco.

    Volete sapere un segreto? Ho trascorso solo la metà di quei sessanta secondi su Val. Mi sono alzato dal letto e ho aperto il mio album fotografico sul comò, esaminando tutte le foto possibili prima che la vista fosse nuovamente sostituita dalla luce sfocata che le persone vedono nelle visioni dell’aldilà. E poi ho pianto.

    Ho pianto perché avevo già guardato quelle foto di me e Brent da bambini, di mamma e papà che ridevano a Natale. Questi ricordi sono qualcosa che potrei desiderare di rivedere quando avrò ottant’anni. Ho sprecato i miei sessanta secondi.

    Avrei dovuto cercare sul mio telefono il Taj Mahal o qualche artista famoso di cui non ho mai ammirato il lavoro. Avrei dovuto controllare se nei messaggi ci fossero foto dei figli di mio fratello Brent, ma è una stronzata. Nessuno mi manda più foto. Perché cazzo dovrebbero farlo?

    Devo stilare una lista, nel caso mi arrivino altri sessanta secondi, altri dieci. Qualcosa. Ho visto film in cui chiedono ai condannati a morte quale ultimo pasto desiderino. Cosa sceglieresti di osservare, sapendo che potrebbe essere l’ultima cosa che vedrai? Come fai a sapere cos’è quell’immagine quando non l’hai mai vista prima?

    «Okay.» Val sospira, sistema le sue cose e, dal rumore, sembra chiudere qualcosa. «Occupiamoci dei tuoi vestiti.»

    «Puoi prendermi una delle mie magliette nere con lo scollo a V da abbinare alla giacca di pelle?»

    «Riley, no! È un pranzo, non un concerto rock, e devi cambiarti i jeans,» sbuffa, passandomi accanto.

    Colpisco qualcosa con un piede appena oltre la porta della camera da letto, fuori dal bagno principale. L’oggetto cede, piegandosi come se fosse di plastica. Il mio alluce si incastra in un’apertura circolare, portandomi a trascinarlo con me mentre inciampo. Sento un tonfo quando qualcosa colpisce il pavimento.

    «Che cazzo?» mormoro, chinandomi per capire cosa ho rovesciato.

    La mia mano incontra la morbidezza del tessuto e la consistenza dura e gommosa di un cesto per i vestiti. Quando diavolo l’ha messo qui? Val lascia le sue cose ovunque, mai nello stesso punto. Ho un attico al dodicesimo piano con una lavanderia, e lei ha cumuli di vestiti in ogni stanza, come un serpente che cambia pelle dove si ferma.

    «Oh, lasciala lì. La sistemerò più tardi,» mi dice da qualche parte vicino all’armadio. Sento lo scorrere delle grucce sull’asta, un suono che mi fa accapponare la pelle al pensiero di essere la sua bambola Ken a grandezza naturale.

    «Non indosserò pantaloni eleganti per il pranzo a casa di un amico. Andiamo da Marco e Jill, non in un ristorante a cinque stelle,» le faccio notare, rimettendole i vestiti nel cestino.

    «Non ho mai parlato di pantaloni eleganti, ma puoi almeno indossare quelli di Calvin Klein

    «Cosa c’è che non va nei jeans che indosso?»

    «Quelli sono troppo chiari. I Calvin sono più nitidi, blu scuro. Sembrano più belli.»

    «Non mi cambierò i jeans. Questi vanno bene. Prendimi solo una maglietta e possiamo andare. Sto morendo di fame.»

    Quel sospiro. Eccoci.

    «Riley, è aprile. È primavera. È la festa di inaugurazione della casa. Se non indossi pantaloni color cachi o eleganti, dovresti almeno optare per qualcosa di firmato. Non ti ucciderà fare un piccolo sforzo.»

    «Sono jeans! I blue jeans sono blue jeans. Non credo che a un ragazzo che si schiacciava le lattine di birra sulla fronte importerà un cazzo del tipo di jeans che indosso a casa sua per pranzo.»

    C’è un silenzio stagnante prima che lei mormori: «Non lo fa più.»

    Odio il fatto di essere diventato una fonte di imbarazzo su cui non ho alcun controllo. La sua critica è come quella rivolta a un bambino della scuola materna che non è in grado di scrivere. E una parte di me lo capisce, è sempre la storia dei compromessi.

    Non riesco a vedere i miei vestiti. Posso sentirne la consistenza. Alcuni giorni riesco a distinguere se sono scuri o chiari. So che, se si trovano nel mio cassetto o nell’armadio, sono puliti. Prima che la mia vista andasse a rotoli, però, il mio guardaroba non era complesso: jeans, magliette stampate per eventi casual e maglie con scollo a V più eleganti, henley e maglioni per le serate fuori. Ho i pantaloni color cachi, le camicie eleganti e persino una mezza dozzina di abiti per le feste che organizziamo al lavoro. Tutto ciò che possiedo è blu, grigio o nero. Quindi, qualunque cosa prendo, le probabilità che non si abbinino tra loro sono scarse. Il mio guardaroba è sostanzialmente a prova di imbarazzo, secondo me. Perché pare sempre una prova da superare?

    Sento che Val mi fissa. Cosa darei per sapere se ha il broncio o se è disgustata. È così ingiusto. Non posso mascherare le emozioni, ma gli altri per me sono schermati. È qualcosa che mi lascia sempre esposto, spaventato di esprimere troppo.

    «Sto solo cercando di aiutarti, tesoro,» dice alla fine. «Non voglio che la gente parli di te.»

    Digrigno i denti. Ci risiamo. Carità che non ho chiesto e di cui non ho bisogno, ma che non posso nemmeno discutere, perché quante persone in una nuova relazione resterebbero insieme a qualcuno con il mio stesso tipo di problema? Perché ha dovuto dirmi che i miei calzini non erano appaiati quando siamo usciti la settimana scorsa? Non lo avrei mai saputo. Non mi sarebbe neanche importato. Perché mi interessa adesso?

    Incrociando le braccia, ammetto: «Lo so. Che ne dici se indosso il blazer nero con una delle mie magliette con lo scollo? Quella giacca grida moda.»

    Il rumore gutturale che sento provenire dalla sua gola mi dice che pensa che io sia sarcastico o che non mi sia mai guardato intorno quando potevo ancora vedere. «Sul serio? È come se non mi ascoltassi nemmeno.»

    «Che c’è? Indosso sempre una giacca quando andiamo in centro. Non ti sei mai lamentata prima.»

    «Era carina all’inizio, ma immaginavo non ti vestissi sempre come un musicista adolescente. Ecco,» spiega, spingendo qualcosa verso di me. «Tieni i jeans, ma almeno indossa una polo.»

    Prendendo la gruccia dalle sue mani faccio scorrere le dita sul tessuto, un orribile misto poliestere che sicuramente mi farà sudare la schiena nel giro di cinque minuti. «Una polo? Dove diavolo l’hai trovata? Non ne possiedo nemmeno una, tranne quelle che ricevo dalle convention e dai regali di Natale, ma sono abbastanza sicuro di averle buttate via tutte. Non indosso polo dal mio tirocinio.»

    «È quella che ti ho regalato per Natale.»

    Cazzo. Sì. Ricordo. Aveva detto che è di colore salmone. Era orribile e meritava di essere sepolta in fondo al mio armadio, anche se avevo ringraziato Val come un bravo fidanzato.

    «Oh, sì. Me n’ero dimenticato. Uhm, non ne hai presa anche una nera?»

    «Cos’è questa tua fissa per il nero?» brontola. «È come se fossi un becchino. Quale parte della primavera dice morte?»

    Dio mio. Viviamo a Chicago. C’è così tanto vento che non sembra mai primavera. Inoltre, il mio stomaco si sta letteralmente auto mangiando a causa di tutto il cibo per uccelli con cui mi ha nutrito a forza, e vuole discutere sulle scelte dei vestiti stagionali? Sul serio, non mangio una pizza da tipo due settimane, e so per certo che ha mentito quando ha detto che avevamo finito i cracker Better Cheddars. Il suo disgusto nei confronti del formaggio è innaturale. Avrebbe dovuto rivelare questa informazione al primo appuntamento.

    «Val, non voglio trascorrere tutto il giorno come a una sfilata di moda. Sto morendo di fame. Indosserò una maledetta polo, così non ti metterò in imbarazzo, ma dammi quella nera e poi andiamo. È una cosa ridicola. Sono nostri amici. Se ci giudicheranno per quello che indossiamo, allora avremo bisogno di trovarne di nuovi.»

    Sospirando, mi toglie la maglietta dalle mani. Sento il rumore delle grucce che vengono fatte scivolare con rabbia sull’asta dell’armadio.

    «Non capisco quale sia il problema. Non puoi vedere ciò che indossi. Perché ti agiti?»

    I compromessi prevedono che ti abitui a essere trattato come un bambino? Significano rinunciare al tuo libero arbitrio e consegnare le palle a una donna di cui non ricordi nemmeno cosa ti aveva attratto all’inizio?

    Sento il sangue ruggirmi nelle vene. Non voglio esplodere, perché non sarei più solo un uomo cieco, sarei un uomo cieco e arrabbiato che non riesce ad abbinare i propri maledetti calzini o a trovare i propri snack.

    «Non ho mai indossato il rosa in vita mia, e non lo farò adesso. Saprò di indossare dei vestiti rosa. Posso immaginarmeli nella testa, quindi è come se potessi vederli.»

    Se Val emetterà il suo finto singhiozzo, non ci andrò. Resterò volentieri qui e parlerò con la mia app Rita per contattare la pizzeria più fornita dei dintorni. E sapete cosa? Sarò felice. Non riesco a ricordare l’ultima volta in cui sono stato felice, davvero felice. Prima lo ero sempre.

    Il suono di un sospiro irritato mi fa contrarre i muscoli, ma lei mi anticipa: «D’accordo. Ecco. Quella nera.»

    Una gruccia mi colpisce lo sterno e la afferro prima che cada a terra. Ancora poliestere. Evviva.

    Ora come ora non me ne frega neanche più niente. Almeno ho recuperato un briciolo della mia dignità. A una persona dovrebbe essere permesso indossare quello che diavolo gli pare. Onestamente non mi interessa come sono vestito, ma non è questo il punto. Val mi dice cosa mangiare. Mi scompiglia sempre i capelli. I miei capelli sono autosufficienti. Li pettino e si sistemano come vogliono. Sono sempre stati così, un cespuglio color sabbia che posso spostarmi dagli occhi con le dita. Lei non mi lascia fare niente e mi parla come se fossi un idiota. So che essere ciechi non dovrebbe essere divertente, ma qualcosa mi dice che non dovrebbe nemmeno essere così faticoso. Dovrei avere la possibilità di esprimere alcune opinioni, ad esempio il colore della maglietta che desidero indossare. Non riesco a vedere, ma non sono cerebralmente morto.

    Dopo venti minuti in auto annegati nel profumo di vaniglia, Val bussa alla porta del nuovo appartamento di Jill e Marco. Veniamo accolti dalla voce allegra di Jill mentre ci fa entrare.

    Una gomitata mi colpisce nelle costole, seguita dal sussurro aspro di Val: «Togliti gli occhiali, Riley.»

    Lei e i miei occhiali da sole. Dio non voglia che io dia l’impressione di non poter vedere. Ma chi se ne frega degli improvvisi cambiamenti di luce che mi causano ancora il mal di testa, giusto? Obbedisco in modo da non dover indovinare quali sguardi comprensivi riceverà dagli ospiti della casa se ribatto, infilo l’asta degli occhiali sullo scollo della mia stupida polo elastica.

    «Ehi, Riley! Come va?» domanda Jill tre decibel più forte del necessario, perché sapete, a quanto pare, quando perdi la vista perdi anche l’udito.

    «Bene! Tu come stai?» urlo di rimando.

    A giudicare dal silenzio che segue, se loro gridano va bene, ma io non posso farlo, e presumo che più tardi mi beccherò un discorsetto da parte di Val. Jill si offre di prendere i nostri cappotti ed esita quando ci chiede di mostrarci la loro nuova casa. Non ho alcun desiderio di essere preso per un braccio o di avere una mano che mi spintona tra le scapole come fa Val, né di sbattere contro qualcosa e rompere uno dei nuovi soprammobili di Jill e Marco.

    «Il cibo ha un buon profumo,» replico, dando una stretta affettuosa alla spalla di Val. «Perché non dai un’occhiata in giro, mentre io prendo un boccone? So che muori dalla voglia di vedere questo posto.»

    «Oh, certo!» Jill è entusiasta, probabilmente sollevata dal fatto che l’abbia salvata dal dover cercare di capire come mostrare la casa a un cieco. «Abbiamo imbandito un tavolo da buffet proprio alla tua destra, nel soggiorno. Serviti pure, Riley.»

    «Grande!» Do a Val un bacio sulla guancia. Adora le manifestazioni pubbliche e le cazzate da innamorati, ma finisco quasi per toccarle il naso con le labbra quando gira la testa all’ultimo secondo.

    «Arrivo tra un minuto, Jill. Lascia che aiuti Riley a prendere un piatto e a sistemarsi, poi ti accompagnerò nel tour.»

    Val chiude saldamente una mano attorno al mio bicipite. Con l’altra mi preme sulla schiena, spingendomi verso l’ignoto. È come essere spostato in una casa infestata, senza sapere cosa salterà fuori nell’oscurità. Gliel’ho ripetuto innumerevoli volte, è più facile quando lei va per prima e fa strada, ma dice di sentirsi come un cane che mi sta guidando. Odia il bastone che mi ha dato il dottore perché, secondo lei, colpisco troppe cose ed è molto rumoroso, ma pensavo che fosse quello il suo scopo. Ogni volta che mi cammina a fianco, le sbatto contro. Non è colpa mia se dondola i fianchi e si sistema i capelli ogni trenta secondi.

    «Bene. C’è una poltrona pochi passi davanti a te, se vuoi sederti. Ti preparo un piatto,» dice, in mezzo al rumore metallico della ceramica presumibilmente estratta da una pila di stoviglie.

    «Cosa c’è da mangiare?»

    «Tramezzini e stuzzichini. Cosa vuoi bere?»

    «Che tipo di stuzzichini? Qualcosa di buono?»

    Sento odore di fritto. Per favore, spero davvero che sia qualcosa di fritto.

    «Non essere scortese, Riley,» sibila. «Sono sicura che è tutto delizioso, e cos’erano quelle urla? Stai cercando di mettermi in imbarazzo?»

    La ignoro e mi avvicino al tavolo. Se non posso andare in giro e socializzare, mi godrò il cibo, cazzo. Mi schiaffeggia la mano proprio mentre le mie dita incontrano quella che sembra una pasta frolla fritta.

    «Fermo! Farai un pasticcio. Ho detto che ti avrei preso un piatto. Puoi andare a sederti?»

    «Quelli sono bignè di granchio? Prendimene alcuni. Okay?»

    «Ti ricoprirai di briciole nel modo in cui mangi.»

    «Cosa vuol dire il modo in cui mangio? Come una persona affamata che non ha ancora pranzato?»

    «No. Ti ficchi tutto in bocca come un maiale, e ora che non vedi è anche peggio, perché non sai quando hai le briciole addosso.»

    «Mi pulirò il petto,» rispondo, afferrando di nuovo il bignè.

    Una mano mi stringe il polso. «Riley, non farlo! Lascia che te lo prenda io.»

    «Li ho appena toccati. Sono in grado di prendere da solo il cibo. Va bene? Vai a fare ciò che vuoi.»

    «Ci sono le pinze, okay? Non vogliono che le persone tocchino il cibo degli altri. Non fare una scenata. Te ne prendo uno.»

    Afferro due antipasti croccanti e giro la mano verso destra, nel sentire il piatto nella sua stretta li lascio cadere sulla superficie. «Ecco fatto. Ho toccato solo i due che voglio. Ho le mani pulite. Smettila di dare di matto.»

    «Dio mio. Oggi proprio non ce la faccio. Sei impossibile di proposito.»

    Infilo una mano sotto il piatto e con l’altra ne afferro il bordo. «Non sono impossibile. Sono autosufficiente. Vai a parlare con Jill.»

    «Riley, non farlo,» mormora, trattenendo il pianto.

    Ora ho una missione. Non le permetterò di portarmi via questo piatto. Staccandomi dalla sua presa, muovo un passo e allungo il braccio verso la prossima macchia nuvolosa al centro della mia visione. Abbassando la mano come uno di quegli artigli in un gioco arcade, faccio per raccogliere qualunque cosa sia. Con il palmo incontro qualcosa di appiccicoso e freddo, e Val emette un forte sussulto.

    Scommetterei sull’insalata di maccheroni. Morbida, con forse alcuni pezzetti di peperoni tritati.

    Cazzo. Mi piacciono i maccheroni.

    Come se volessi creare una pallina di gelato, stringo le dita, tolgo una manciata di pasta appiccicosa e la metto sul piatto. Portandomi il pollice alla bocca, succhio via la salsa, poi mi metto a pulire le altre dita mentre dico a Val: «Visto? Sto bene. Ma potresti prendermi una birra, tesoro?»

    «Ehi! Ehi!» Dalla mia destra sento arrivare un saluto divertito. «Puoi avere la mia. L’ho appena presa. Vado a recuperarne un’altra,» dice il mio amico Rob.

    Grazie a Dio. Qualcuno sano di mente con cui parlare.

    «Rob,» saluta Val. «Non sapevo saresti venuto.»

    «Ehm, sì. In fin dei conti anch’io lavoro con Marco, quindi…»

    «Mmm,» grugnisce lei. «Beh, tienilo d’occhio, e non fate danni.»

    Aspetto che il rumore dei suoi tacchi si allontani, poi mi giro e sposto la punta della scarpa nella direzione in cui ha detto esserci una sedia. Quando la trovo, sospiro, lasciandomi cadere sulla morbida imbottitura con il piatto.

    Deve esserci un tavolino alla mia destra perché sento il suono di una bottiglia di birra colpire il legno mentre Rob mi dà una pacca sulla spalla. «Torno subito, amico.»

    Ho finito di ripulirmi le dita quando ritorna e si lascia cadere su una sedia alla mia destra, riempiendo le lacune spaziali di ciò che mi circonda. Un tovagliolo mi sfiora la mano, quindi lo prendo.

    «Grazie, amico,» gli dico. «Se n’è andata?»

    «Sì. È sul balcone con Jill.»

    «Grazie a Dio.»

    «Va così male?» chiede.

    «Diciamo solo che forse dovrò tenermi i venti dollari che ti devo e usarli per la mia cauzione. È sempre stata così cattiva?»

    «Ah, no comment.» Ridacchia, ma non posso condividere il suo divertimento.

    Val non ha mai nascosto l’antipatia che prova nei confronti di Rob. Ma a chi non piace Rob? È il ragazzo più felice che abbia mai incontrato e innocuo come un cucciolo. Certo, non è la lampadina più luminosa della scatola, ma è sempre il primo a farsi avanti in caso di bisogno.

    Percepisco un rumore di carta spiegazzata. Lo sento mentre posa qualcosa sul tavolino accanto a me. «Sono felice che anche tu sia qui. Ho portato il tuo regalo di compleanno, in caso ti fossi presentato.»

    Sorridendo, prendo quello che è chiaramente un pacchetto grossolano, avvolto a casaccio. «Amico, il mio compleanno non sarà prima di mercoledì della prossima settimana. Non vieni alla festa?»

    «Darai una festa?»

    Le mie dita si fermano mentre sto strappando la carta. È da tre settimane che Val parla di organizzarmi una festa di compleanno. Ha anche inviato inviti cartacei come se avessi dodici anni anziché trentadue.

    «Val non ti ha mandato un invito?»

    «Ehm, no, non ho ricevuto niente. Forse si è perso nella posta. A volte il postino lascia le mie cose al 4D invece che al 4B.»

    Buon vecchio Rob. Così buono da essere ingenuo. Credo di sapere dove sia finito l’invito del mio migliore amico: nel bidone della spazzatura del mio appartamento, sempre che fosse stato scritto.

    «Sì, beh, ehm… alle sei. Non fare tardi o mangerò tutto il cibo.»

    «Non preoccuparti. Ci sarò.»

    Apro il pacco e sorrido nel sentire che si tratta di una maglietta. È il nostro classico scambio di regali. Rob riesce sempre a trovare le magliette più belle. Cerco di superarlo, ma sono abbastanza sicuro che sia il vincitore di questa sciocca tradizione che portiamo avanti dai tempi del college.

    Allargandola sulle ginocchia, faccio scorrere le dita sul disegno, individuando quello che sembra il simbolo di un pipistrello al centro. «Che cosa c’è scritto?»

    «È nero e c’è il simbolo di un pipistrello. C’è scritto: Cieco come una talpa, poi c’è una virgola, e poi ma almeno ho una maglietta di Batman

    Scoppio a ridere, tenendola sollevata davanti a me anche se non riesco a vederla. «Cieco come una talpa, ma almeno ho una maglietta di Batman,» ripeto. «Oddio. La adoro! Val la odierà,» aggiungo sottovoce.

    «Oh, merda. Scusa. Non ci ho nemmeno pensato.»

    «Nah. Non preoccuparti. Non l’hai comprata per lei,» scherzo.

    «Già,» ammette, ma poi aggiunge: «Mi odia.»

    «No. Odia solo la felicità.»

    Sto iniziando a pensare che sia vero nonostante stessi solo cercando di strappare una risata a Rob e tranquillizzarlo. Val odia il nostro amore per i supereroi e il modo in cui organizzavamo serate di videogiochi e ci divertivamo con i nuovi progetti di app a cui stavamo collaborando al lavoro. Sono un nerd con il corpo di un atleta. A quanto pare, ha sottovalutato la parte nerd quando mi ha incontrato la prima volta.

    «Beh, sono felice che ti piaccia,» dice Rob, facendo tintinnare la birra contro la mia, ancora sul tavolo.

    La afferro e ricambio il gesto. «Mi piace eccome. Grazie, amico.»

    Mi appoggio allo schienale e prendo un sorso di cui ho disperatamente bisogno, poi sospiro. Rob inizia a raccontarmi dell’ultima partita dei Bears. Ha un modo di descrivere le giocate che apprezzo, a differenza di alcuni dei nostri amici che mi dicono solo qual è stato il punteggio o se hanno giocato bene o male. Immagino le scene nella mente, ma vengo distratto dal distinto sussurro di Val, mentre parla con Jill.

    «Come procede?» chiede Jill.

    «È difficile. Davvero difficile. Ho provato di tutto, ma è così depresso per la sua situazione e… voglio dire, sono una persona positiva, ma questo ti logora. Capisci?» risponde Val, facendomi rivoltare lo stomaco.

    Depresso? Non sono mai stato depresso un solo giorno in vita mia. Triste, a volte, come quando mio nonno è morto due anni fa. Infastidito, certo. Tutti i giorni. Perché cazzo dice alla gente che sono depresso? Non c’è niente di sbagliato nell’essere depressi. Succede alle persone, ma non è il mio caso in questo momento.

    «Beh, dicono che l’intimità stimola il buon umore,» suggerisce Jill in tono scherzoso.

    «Può darsi,» replica Val. «Ma questo è tutto un altro problema.»

    Fingo di ridere all’entusiasta resoconto della partita di Rob, il viso rivolto verso di lui mentre avvicino la birra alle labbra. Val non lo farà. Non parlerà di me come se non

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