Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Rapito (eLit): eLit
Rapito (eLit): eLit
Rapito (eLit): eLit
E-book365 pagine5 ore

Rapito (eLit): eLit

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Kate Bickford non avrebbe mai pensato che un sereno pomeriggio di sole potesse trasformarsi nel peggiore degli incubi. Suo figlio Tommy è scomparso. Svanito nel nulla dopo una partita di baseball. Afferrato da una mano nemica e tenuto prigioniero chissà dove. Chissà perché. I soldi, certo. Ma c’è qualcosa di più dietro quelle regole che il rapitore chiama metodo. C’è una ragione più profonda, sicuramente più perversa, che lo spinge ad agire. E Kate teme che, se non la scoprirà in fretta, non vedrà più suo figlio vivo.
LinguaItaliano
Data di uscita29 dic 2017
ISBN9788858979600
Rapito (eLit): eLit
Autore

Chris Jordan

È lo pseudonimo di uno scrittore cresciuto sulla costa del New England, che scrive romanzi da quando ha sedici anni. Da uno dei suoi libri è stato tratto il film Basta guardare il cielo, con Sharon Stone. Harlequin Mondadori ha già pubblicato Rapito.

Autori correlati

Correlato a Rapito (eLit)

Ebook correlati

Thriller per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Rapito (eLit)

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Rapito (eLit) - Chris Jordan

    successivo.

    CAMPO VERDE

    1

    fairfax, connecticut

    In una perfetta giornata del mese di giugno, in un prato delizioso, la mia vita comincia ad andare in pezzi. Alle quattro e cinque del pomeriggio, per essere precisi.

    Alle quattro meno dieci sto ancora benissimo: guardo con interesse il bel ragazzetto con la mazza di alluminio che esce dal recinto del battitore e si sistema i guanti, proprio come fa A-Rod, il suo eroe della serie A. Mi chino in avanti sulla panca, ma resisto all'impulso di gridare un incoraggiamento. A mio figlio, alto e dinoccolato per i suoi undici anni, non importa che sua madre sia un'assistente del manager della Little League, e mi ha chiesto di non gridare dal bordo campo, come invece fanno tanti genitori. Genitori che sono orribilmente truzzi. Il termine è suo. Tomas Tommy Bickford. Il mio perfetto, prezioso, talentuoso rampollo. Il mio sorprendente, esasperante bambino. Sorprendente perché sembra cambiare di giorno in giorno, a volte da un minuto all'altro. Esasperante per la stessa ragione, perché non so mai se sarà il mio dolce bambino o se mi accoglierà con la freddezza del futuro adolescente. Tommy sa alternare le due identità nello spazio di un battito, e ogni volta per me è come un colpo allo stomaco.

    A undici anni è già un ragazzo. Non avrei mai immaginato che mio figlio potesse essere così. Che cosa mi aspettavo diventasse? Credevo che sarebbe rimasto il mio bambino per sempre? Attaccato ai lacci del mio grembiule? Perché io uso i grembiuli. Per la precisione, grembiuli su cui campeggia il logo della mia società di catering. Preparo anche dolci. Un migliaio o giù di lì al giorno, per i negozi di gastronomia e i ristoranti di lusso di questa lingua di terra nei boschi del Connecticut.

    Mi piace pensare a me stessa come a una versione più simpatica di Martha Stewart. Più simpatica e molto meno ricca. Ma nel mio piccolo me la cavo. La Katherine Bickford Catering accetta prenotazioni per duecento eventi l'anno. Noccioline, in confronto al volume d'affari delle grosse ditte di catering, ma sufficienti a tenere occupati i miei dodici collaboratori. Evento medio, ottantacinque commensali. Prezzo medio a commensale, sessantadue dollari. Fate il conto e scoprirete che corrisponde a più di un milione di dollari lordi. Un milione di bigliettoni! Ovviamente, il guadagno netto è di molto inferiore, ma va bene lo stesso. Ed è vero che ho avviato l'attività nella mia cucina. In compagnia di un impaurito bambino di quattro anni che mi aiutava setacciando la farina.

    Siamo arrivati talmente lontano negli ultimi sette anni che a volte mi manca il respiro. Soprattutto allorché riconosco con me stessa che quando ho cominciato ero perfino più spaventata di mio figlio. Spaventata all'idea di dover crescere un bambino da sola. Di non riuscire a superare il dolore per la perdita di Ted, l'amore della mia vita, il mio dolcissimo marito. E di svanire semplicemente nel buco nero della disperazione se avessi smesso di agire o di fare la mamma anche per un solo secondo.

    Perfino adesso, dopo sette anni, il pensare al suo nome uscita in me una fitta di Ted-malinconia. Come la nota bassa e dolente di un violoncello che suoni nella parte più segreta del mio essere. Ma paura e ansia sono scomparse. Col tempo il dolore è diventato rimpianto per tutte le cose che il povero Ted si è perso. Tommy sulla sua prima bicicletta... - Non toccarmi, mamma, ce la faccio da solo! - Tommy in prima, che insiste per non essere accompagnato fino in classe... quel giorno, il bambino più coraggioso del mondo.

    Un ragazzino sorprendente. Nel primo mese successivo alla morte di Ted, veniva nel nostro letto improvvisamente solitario e dormiva accanto a me in posizione fetale, allungando la mano nel sonno come se temesse che anch'io svanissi dalla sua vita. Poi un giorno, a colazione, annunciò pacatamente che era troppo grande per dormire nel letto della mamma. Provai due sentimenti contrastanti quella volta. Orgoglio per il fatto che a quattro anni avesse un senso così radicato dell'io. E rimpianto perché sembrava non avere di me il bisogno che io avevo di lui. Almeno quando dormiva.

    Quante ore ho passato nella camera di Tommy il primo anno dopo la morte di Ted, a guardarlo dormire? Più di quanto mi piaccia ammettere. E il solo guardarlo mi bastava. Come guardarlo adesso mi aiuta a ricordarmi chi sono. La mia prima e più importante identità. Madre di Tommy Bickford. Fiera di esserlo, anche se lui non vuole che gridi il suo nome dalla panchina.

    Al diavolo, che sopporti.

    «Coraggio, Tommy! Bel colpo!»

    Lui mi lancia un'occhiataccia. Ma è anche un sorriso, come se sapesse che la mamma proprio non può farne a meno.

    Il lanciatore, un ragazzino tarchiato che ha l'aria di assumere steroidi - non lo fa, ne sono certa, ma ha quel tipico aspetto nerboruto - sbircia alla ricerca del segnale, tira indietro il braccio e lancia la palla. Non velocissima - ottantacinque chilometri orari, o giù di lì sul radar di suo padre - ma dritta e mirata per il guanto del ricevitore.

    Tommy entra in buca con la mazza in posizione che oscilla appena, e bonk! Ha stabilito il contatto. La palla supera il guanto teso dell'interbase e rotola là dove l'esterno sinistro aspetta. Questi la perde, torna a recuperarla, effettua un lancio incerto verso il cutoff, che la lascia cadere ma riesce a tenerla vicina, molto bene. A questo punto Tommy sta scivolando in seconda base, una mossa superflua, ma ai ragazzi piace sporcarsi, e il punto della vittoria ha attraversato il piatto.

    Pandemonio. I nostri giocatori tirano in aria i guanti, lanciando grida di guerra e acclamazioni da cheer leader, e Fred Corso, il nostro manager dal collo taurino che è anche lo sceriffo della contea di Fairfax, solleva i pugni, quindi lascia la panchina di scorie di calcestruzzo.

    «Sì! Così. Bel colpo, Tomas!»

    Continuo a dimenticarlo. Ora Tommy vuole essere chiamato Tomas. Con ogni probabilità me lo ha ricordato un milione di volte nelle ultime due settimane, ma il buon vecchio Fred se ne è ricordato. Vagamente frustrata, e soffocando l'impulso di scendere in campo e abbracciare mio figlio, ricordo ai suoi eccitati compagni di squadra che è ora di mettersi in fila e stringere la mano degli avversari. Di congratularsi con la squadra avversaria, i Fairfax Red Sox, per una partita ben condotta.

    Stiamo cercando di instillare nei ragazzi i principi del gioco corretto e, se posso dirlo, stiamo facendo un ottimo lavoro. I perdenti hanno l'aria un po' desolata, scambiano il cinque senza troppo entusiasmo, ma tutti si comportano educatamente e fanno la loro parte.

    Catturo Tommy afferrandolo da dietro e gli tolgo il berretto. Do una scarruffata - il termine è suo - ai suoi capelli nerissimi e lo guardo sorridendo. «Ben fatto, Tommy! Hai proprio fatto centro!»

    «Grazie, mamma.» Ma si sta già ritraendo, timoroso di rovinare il suo momento di trionfo virile con un bacio. Poi si ferma, mi scivola accanto, improvvisamente serio. «Lo sai, mamma?»

    «Cosa?»

    «Credo di meritare una super coppa di gelato.»

    Pesco nella borsa il denaro necessario e lui corre verso il furgoncino, come sempre parcheggiato al limite del campo nei giorni di partita. A gestirlo sono Karen Gavner e suo marito Jake, che hanno a loro volta due gemelle in squadra. Non atlete particolarmente dotate, ma brave ragazzine. Bellezze bionde del Connecticut tutt'e due, destinate a una carriera di rubacuori. Ho visto come guardano Tommy. Ma se anche avesse già scoperto le ragazze, lui non me lo direbbe. E forse, ora che ci penso, non lo ha ancora fatto.

    «Ci vediamo alla macchina!» grido alla sua schiena.

    Lui risponde con un cenno della testa, poi scompare nella folla di genitori e giocatori che gli danno il cinque mentre passa.

    E quella è l'ultima volta che lo vedo.omanzo

    2

    nella mia poltrona

    L'odiato minivan. Il mio povero Caravan Dodge è di recente divenuto oggetto del disprezzo di Tommy. Non mi vergognavo a farmi vedere a bordo del Mini-Vee, come lo chiama lui? Cosa penserà di me il mondo, vedendomi alla guida di un'auto così totalmente noiosa? Per la precisione, la sua frase è orribilmente noiosa. Totalmente era il suo avverbio preferito l'anno scorso. Ora, invece, tutto è orribile. Proprio l'altro giorno ha enumerato tutte le ragioni per cui dovrei liberarmi dell'orribile Mini-Vee a favore di una fortissima Mini-Cee. Ovviamente abbocco. Salta fuori che Mini-Cee, nel linguaggio di Tommy, significa Mini Cooper.

    «Vuoi dire quella buffa automobilina?» gli ho chiesto. «Quella del circo da cui escono i pagliacci?»

    «È della BMW, mamma» mi ha informato. «E non è per niente buffa. Per noi andrebbe benissimo, credimi.»

    Per noi andrebbe benissimo. Da dove nasce l'idea di un'automobile come un accessorio alla moda? Naturalmente conosco la risposta. TV, Internet, riviste, il quartiere, più o meno in quest'ordine. Beemer e Audi e Mercury sono le macchine scelte nella nostra parte di mondo, ma so dell'esistenza della Mini Cooper ammirata da Tommy, perché ce ne sono due proprio in fondo alla strada, ben esposte nel viale d'accesso dei Parker-Foyle. Quella di lui e quella di lei, in colori coordinati.

    «Non se ne parla neanche» gli ho detto. «Toglietelo dalla testa. Io sono il tipo di ragazza da caravan.»

    Lui ha fatto roteare gli occhi al punto che ho pensato che gli sarebbero finiti sulla nuca. È un ricordo che mi fa ridere. Ehi, anch'io rammento come mi imbarazzava l'automobile che guidava mia madre. Il suo vecchio, goffo station wagon Ford Fairlane, che imbarazzo. E vergogna su di me per averla pensata in quel modo all'epoca.

    Così, me ne sto appoggiata al minivan in una perfetta serata estiva, aspettando mio figlio. Scandagliando con gli occhi il campo e il parcheggio. Senza vederlo.

    In attesa.

    Nei primi minuti non mi preoccupo più di tanto. Ci sarà la fila davanti al furgone degli snack. Amici con cui attaccare discorso. Altri cinque da dare, complimenti da ricevere. Ma a un certo punto la ressa si dirada fino a permettermi di vedere il furgoncino, e Jake Gavner sta chiudendo lo sportello, senza dubbio non ha più nulla da vendere... e il mio radar materno setaccia uno schermo vuoto. Sembra che non riesca a individuare Tommy. È tornato alla scuola per andare in bagno? Improbabile. Il tragitto fino a casa non dura più di dieci minuti, e si dà il caso che io sappia che Tommy preferisce, quando possibile, usare il suo bagno.

    Cerco di non mostrarmi troppo preoccupata mentre mi dirigo verso il furgoncino e busso alla porta sul retro.

    «Sì?» Dall'interno.

    «Jake! Sono Kate Bickford.»

    La porta si apre ed ecco Jake, che mi lancia un sorriso interrogativo. Un bell'uomo, con lievi tracce di rosacea sulle guance e una pancetta che non si preoccupa di nascondere. Fantastico con i ragazzi... chissà come, ricorda tutti i loro nomi, e a quale famiglia appartengono.

    «Ehi, Kate! Gli hot-dog sono finiti.»

    «Scusa?»

    «Gli hot-dog. Siamo a secco. Nessuna incursione nei bassifondi per te, oggi.»

    Ammicca. Non riesco a capire perché diavolo Jake Gavner debba ammiccare guardandomi, poi però ci arrivo. La conversazione sugli hot-dog. Un paio di settimane prima, morta di fame, ne avevo ordinato uno con una porzione doppia di crauti. Mentre mangiavo, avevamo parlato di cibo, scherzando sul fatto che se uno dei miei clienti mi avesse sorpreso a divorare un hot-dog, li avrei probabilmente persi tutti. O questo, o avrebbero imparato ad aspettarsi salsicciotti in lattina ai banchetti di gala. Non era stata esattamente una conversazione scintillante, ma per qualche motivo Jake ne era rimasto colpito.

    «No, no, sto bene» gli dico. «Per caso non hai notato da che parte è andato Tommy?»

    «Tommy? No. Lo hai perso?» Si guarda intorno, occhieggiando il campo deserto, il parcheggio quasi vuoto.

    «È venuto qui a prendere un gelato» gli dico. «Cioccolato con salsa di cioccolato, niente nocciole. Ho pensato che magari lo avevi notato se si è allontanato con altri ragazzi.»

    «Tommy, uhu? Non ha preso nessun gelato, che io ricordi.»

    «Non si è fatto vedere qui?»

    «Me lo ricorderei, Kate. Ha vinto la partita, dopotutto. Il gelato glielo avrei offerto io. Lo faccio sempre, con i vincitori.»

    Sul serio? Gentile da parte sua. «Mmh, potrebbe averlo servito Karen?»

    Scuote la testa. «Ero io a occuparmi del banco e delle borse termiche. Karen badava alla griglia.»

    «È in giro?»

    «Ha portato a casa le borse termiche. Bisogna rimetterle nel freezer, sai?» Mi studia, intuendo la mia ansia. «Chiamala. Forse lei lo ha visto. Io però dico che è andato a casa con qualcun altro.»

    «Già» rispondo. «Grazie.»

    E mi giro pensando: non oserebbe. Non mio figlio. Andarsene senza dirmelo? Non Tommy. Ma l'osservazione sul gelato gratis per i vincitori mi preoccupa. Tommy ne era al corrente? E se è così, perché farsi dare tre dollari? Aveva altri progetti? Progetti che comportavano la necessità di qualche spicciolo?»

    Ora sono più che a disagio. Diciamo pure ansiosa. Non ancora pronta a chiamare il 911, però. O, più direttamente, lo sceriffo Corso, il nostro allenatore. Perché lo sento già dire di non preoccuparmi. Il ragazzo era su di giri, giusto? Segnare il punto vincente gli ha dato alla testa. Quanto bastava per dimenticarsi della mamma e accettare un passaggio da qualcun altro. Probabilmente un gruppo di chiassosi compagni di squadra desiderosi di elogiarlo.

    Digito il numero corrispondente a casa sul cellulare e lo sento cinguettare. Poi la mia voce che mi invita a lasciare un messaggio. «Tommy, sei lì, tesoro? Rispondi, per favore.»

    Ma so bene che mio figlio detesta farsi battere sul tempo dalla segreteria telefonica. Si precipita invariabilmente all'apparecchio, anche quando non prevede che la chiamata sia per lui. A provarlo ci sono i lividi sui suoi stinchi.

    Dov'è il mio bambino? E cosa si è messo in testa, per spaventarmi così?

    Marcio verso la palestra, convinta che sia nel bagno dei maschi, o più probabilmente impegnato a fare casino con gli amici. La porta è chiusa, ma riesco a guardare dentro. La palestra è buia e deserta. E silenziosa. Nessun ragazzo che ride. Nessuna anta di armadietto sbattuta con forza. Non c'è nessuno. Solo silenzio.

    Mi affretto verso il caravan. Farò un salto a controllare a casa prima di chiamare Fred Corso.

    Devo sforzarmi di non pigiare sull'acceleratore quando lascio il parcheggio ormai vuoto. Come puoi farmi questo, Tommy? Farmi preoccupare così? È in questo modo che progetti di comportarti nei prossimi cinque anni? Spremere denaro alla mamma, per non tornare a casa prima dell'alba?, penso amareggiata.

    Mi impongo di darmi una mossa. Forse una delle altre madri gli ha offerto un passaggio. Gli è sembrato scortese rifiutare, e se ne sono andati prima che lui potesse avvertirmi. O qualche variazione sul tema. Comunque sia, non ha scuse. Sa che mi preoccupo.

    Ho già percorso sei isolati. Devo aver superato due semafori, ma non ne conservo il ricordo. Ho innestato il pilota automatico mentre la mia mente elabora scenari possibili. E tutti si concludono con me che abbraccio forte Tommy e gli dico di non farlo più. Mai far pensare il peggio a tua madre.

    L'ultimo semaforo a Porter Road mi blocca. Una coppia di anziani non riesce a decidersi ad attraversare, neppure quando per loro scatta il verde. «Batuffoli» li chiama Tommy, a indicare gli anziani automobilisti con i capelli bianchi e vaporosi visibili dal lunotto posteriore. Non ricordo quando è stata l'ultima volta che ho suonato il clacson, ma ora lo premo con forza, e il conducente sobbalza, come colpito da un proiettile, e si lancia attraverso l'incrocio con la sua Lincoln Town Car. Altri clacson, e alcuni ce l'hanno con me.

    Facendomi largo nella confusione che ho contribuito a creare, attraverso l'incrocio e mi ricordo di mettere la freccia per segnalare che sto per svoltare nella nostra strada, la buona vecchia Linden Terrace, che si apre immediatamente a sinistra. Di fatto un cul-de-sac con una piazzola di manovra in fondo che riduce il traffico e con ogni probabilità aggiunge dieci bigliettoni alla quotazione delle sue abitazioni. Ne valeva la pena, concordavamo tutti. Non che in quel momento mi preoccupassi delle imposte sulla casa. Non con la testa piena di Tommy.

    C'ero quasi. Ero quasi a casa. La terza dal fondo. La grande bellezza di assicelle di cedro in stile Cape Cod, dietro due grossi aceri che si sono impossessati del prato sul davanti. Più di milleduecento metri quadri, e alle spalle un'area boscosa di proprietà comune. C'è un garage separato con tre posti macchina, anch'esso di assicelle, che è mi è stato utile quando ho iniziato l'attività. Era stato proprio il grande garage a incantare Ted all'inizio. Non si può mai sapere quando viene utile, aveva detto. Pensava a una barca, ma per qualche tempo ha contenuto soprattutto sedie e tavoli pieghevoli e casse di stoviglie. In totale violazione delle leggi locali... proibita qualsiasi attività commerciale, perfino lo stoccaggio... ma i miei vicini provavano pietà per la giovane vedova e avevano guardato dall'altra parte fino a quando non avevo potuto permettermi un magazzino vero e proprio. Apprezzabile, quella sorta di silenziosa gentilezza. A volte guardare dall'altra parte è proprio quello che ci vuole. Meglio che piatti caldi lasciati sui gradini di casa o offerte di fare da babysitter. Diamole tempo, si erano probabilmente detti l'un l'altro, e ora il garage è solo di nuovo un garage, e Tommy ha undici anni e fa venire il batticuore a sua madre.

    Lasciata l'auto nel vialetto, salgo volando i gradini, apro con un calcio la controporta a zanzariera e mi accosto a quella interna con la chiave in mano. Perché quando usciamo chiudiamo sempre e mettiamo in funzione l'allarme. È un bel quartiere, il nostro, ma non si sa mai. Bridgeport dista soli cinque chilometri, e a Bridgeport hanno bande e droga e reati che a volte riescono a filtrare fino alla suburbana Fairfax. Quindi chiudiamo.

    Ma la porta è aperta e l'allarme non entra in funzione. E questo può significare una cosa soltanto. Sono già pronta a tirare un sospiro di sollievo mentre entro in cucina.

    «Tommy?» chiamo. «Tommy! Ero preoccupata da morire! Cosa ti eri messo in testa?»

    Nessuna risposta. Finge di non sentirmi. Finge di non aver fatto niente di male. Pronto con una facile bugia su come mi abbia detto che aveva avuto un passaggio e di come io me ne sia scordata. Alzhaimer precoce, mamma. Stai perdendo colpi.

    «Tommy?»

    Nel tinello la TV è accesa. Bassa, ma percettibile. Un gioco della Playstation della Sony. Dev'essere Tenchu: Wrath of Heaven, attualmente il suo preferito, o forse il nuovo Tomb Raider. Ma gioco o no, il piccolo furfante mi sentirà. E ora sta cominciando a farmi arrabbiare sul serio. Dovrebbe essere qui in cucina, pronto a fornire una scusa, per quanto zoppicante.

    «Tommy! Spegni la TV!»

    Marcio in tinello, aspettandomi di trovare mio figlio appollaiato davanti al grande schermo televisivo, mentre maneggia il joystick della sua preziosa Playstation.

    Ma Tommy non è lì.

    «Salve, signora Bickford. Si sieda, vuole?»

    C'è un uomo seduto nella mia poltrona di pelle marrone. Tiene sulle ginocchia il quadro comandi del videogame di Tommy, e con la sinistra manovra il joystick. Ha il viso nascosto da un passamontagna nero.

    Con la destra impugna una pistola, e la tiene puntata contro di me.

    3

    uno, due, tre... tana

    La casa ha solo cinque stanze, senza contare lo scantinato, e Lyla le perlustra tutte. Ogni stanza, scantinato compreso. Il ragazzo sta sicuramente giocando a nascondino. Un gioco che amava quando aveva cinque anni, e solo un po' meno adesso che ne ha undici, un'età in cui di solito i bambini non vogliono più giocare con la mamma.

    Il suo Jesse è un'eccezione. È un ragazzino atletico, snello, in forma e alto per la sua età, ma per certi versi è ancora il piccolo della mamma. Da un momento all'altro salterà fuori da un armadio, da sotto la tromba delle scale, con un allegro buh! E lei si porterà le mani al cuore.

    Mi hai spaventato, tesoro!

    E lui morirà dal ridere, tenendosi la pancia, pieno di gioia.

    Oh, mamma, sei una tale fifona!

    Lo è; fin dalla prima volta in cui ha tenuto stretto il corpicino di lui, non ha fatto altro che preoccuparsi. Preoccuparsi mattina, pomeriggio e sera, fino a perdere la testa per l'ansietà. Preoccuparsi che lui anneghi in piscina, non che ne abbiano una, grazie a Dio. Che cada dalle scale quando gioca a fare l'arrampicatore. Oppure dalla bicicletta o, peggio ancora, che venga rapito da un sequestratore di bambini che nei suoi incubi da sveglia ha l'aspetto di Freddy Krueger.

    Ora ricorda a se stessa che nessun Freddy Krueger esiste nel mondo reale, per lo meno non nella noiosa New London, Connecticut. E Jesse è caduto dalle scale più di una volta senza procurarsi nulla di più grave di un livido o due. È caduto anche dalla bicicletta, se è per questo, e porta con orgoglio le cicatrici sulle ginocchia, lui che non ha pianto e non si è lamentato. È un ragazzo sano, il suo Jesse, guarisce in fretta. Robusto come un cavallo, non come sua madre, che soffre di parecchie malattie, non ultima delle quali è il ronzio distante della paura. Che non la lascia neppure quando dorme.

    Paura del mondo, di suo marito Stephen, di qualsiasi cosa, ma soprattutto paura di tutte le cose cattive che possono distruggere la vita della brava gente. Timori giustificati, se leggi i giornali e o ascolti il notiziario. Toilette che precipitano dagli aerei, schiacciando persone innocenti. Sparatorie da auto in corsa. Malattie misteriose. Aerei pieni di folli che vanno a schiantarsi contro i grattacieli. La paura è la reazione più ragionevole, giusto?

    «Jesse? Il gioco è finito, tesoro. Uno, due, tre... tana!»

    Silenzio nelle cinque stanze della casa. E silenzioso è anche lo scantinato.

    Dov'è finito? Dev'essere in camera sua, nascosto sotto il letto, con tutta quella polvere pericolosa, e la muffa. Pessime per il sistema respiratorio, dicono, e Lyla ci crede, così come crede a ogni ammonimento di disastri incombenti. Se respira troppa polvere, un bambino può ammalarsi d'asma. Se mangia troppo burro di arachidi, sviluppa allergie. Lei cerca di metterlo in guardia, ma Jesse è solo un bambino e crede di essere immortale.

    «Jesse? Vieni fuori, tesoro. La cena è quasi pronta. C'è il tuo piatto preferito, hamburger in casseruola.»

    Il letto di suo figlio è ordinatamente rifatto. È stata lei? Probabilmente. Lui non è capace di tendere in quel modo le lenzuola, né di sprimacciare il cuscino. Lyla si mette carponi, solleva il bordo del copriletto. Eccolo lì, nell'angolo in fondo!

    Ma no, è solo un'ombra. Un'ombra con la forma di un ragazzino.

    L'armadio! Ma certo, perché non ci ha pensato prima? Dev'essere lì dentro, a osservarla attraverso le feritoie delle ante. Bambino discolo.

    Lyla apre l'armadio, sposta gli appendiabiti. Ha la netta impressione che Jesse sia stato lì poco prima. Sente l'odore della sua pelle, dei suoi capelli. Dev'essere scivolato fuori mentre lei guardava sotto il letto.

    Quello di cui Lyla ha voglia è sdraiarsi nell'armadio e addormentarsi con l'odore di suo figlio sulle mani, nei capelli. Sognando che lui è lì vicino, appena fuori vista, e che presto tutto andrà bene, e Jesse sarà di nuovo al sicuro. Ma non può dormire, non prima di averlo trovato.

    Ispeziona nuovamente le cinque stanze, poi si avventura nello scantinato. Giù per i robusti gradini, aggrappata al corrimano. Tira il filo dell'unica lampadina nuda. Una cesta piena di biancheria ammucchiata sulla lavatrice. Altri indumenti di Jesse, compresa l'uniforme macchiata d'erba. I Mystic Pirates. Non per la prima volta, Lyla prende con cautela l'uniforme sporca e la solleva, come cercando indizi che la aiutino a trovare il figlio. Le macchie d'erba, ovviamente, e i pantaloni sporchi come sempre all'altezza delle ginocchia, ma quella chiazza sotto la scritta è forse sangue?

    L'ansia la percorre come una scossa elettrica. Il cuore in gola, si avventa su per le scale con l'uniforme in mano. Vuole mostrare al marito la prova che qualcosa non va, non va assolutamente. È accaduto qualcosa a Jesse, qualcosa che lo ha fatto sanguinare mentre indossava l'uniforme della Little League.

    In cima alle scale, Lyla inciampa e cade in ginocchio, scivolando sul linoleum sdrucciolevole.

    «Steve!» grida. «Steve, vieni a vedere! Sangue!»

    Ma la casa è vuota. Nel silenzio opprimente, Lyla si rialza con movimenti incerti. Tenendo stretta la piccola uniforme, va verso il soggiorno.

    «Oh, Signore» bisbiglia. «Riportalo a casa. Fa' che sia al sicuro.»

    Sulla mensola del camino c'è una foto incorniciata che le restituisce un po' di calma nel breve intervallo che si concede prima di riprendere le ricerche. Nella foto, l'uniforme di Jesse è pulita. Niente macchie d'erba, niente sangue. Lui l'aveva presa in giro quando lei l'aveva stirata... ci si aspetta che sia sgualcita, mamma, non ci arrivi?... ma era evidentemente compiaciuto da quell'attenzione. Ora, Lyla guarda il sorriso di lui mentre posa con la mazza in mano, gli occhi accesi e senza paura. Il suo bambino perfetto.

    Lyla crolla sul divano, stringendo a sé l'uniforme e la fotografia. Si concederà di piangere, ma solo per qualche minuto. Ha troppo da fare, e piangere la sfianca. Per prima cosa, deve perlustrare di nuovo la casa. Cinque stanze e lo scantinato. E se Jesse non sarà lì, farà quello che le è proibito fare. Userà il cellulare e chiamerà per esigere di sapere dov'è suo figlio e quando tornerà a casa.

    Mai chiamare, le è stato detto senza mezzi termini.

    Ma nessuno può impedire a una madre di cercare di

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1