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Più della spada
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E-book545 pagine7 ore

Più della spada

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Info su questo ebook

Odio e amore, colpi di fortuna e giochi di potere. Due famiglie in balia di un destino che non dà loro tregua.

Ottobre 1964. Le strade dei Clifton e dei Barrington corrono parallele, segnate da colpi di fortuna, disavventure e scherzi del destino. Quando il nuovo piroscafo della Compagnia di navigazione Buckingham diventa bersaglio di un attentato dell'IRA, Emma Clifton deve vedersela con i membri del consiglio d'amministrazione che vorrebbero le sue dimissioni, prima fra tutte la perfida Virginia Fenwick. Henry intanto, diventato presidente di un'associazione di scrittori, lancia una campagna per la scarcerazione di un autore russo che si oppone al regime: non immagina che così facendo rischierà la vita. Giles Barrington, ormai ministro, aspira a una carica ancor più alta... finché un viaggio a Berlino non si trasforma in un disastro diplomatico per colpa del suo vecchio avversario, il maggiore Alex Fisher. Questa volta, chi sarà il vincitore? A Londra Sebastian, il figlio di Henry ed Emma, sta facendo carriera alla banca Farthing, ma trova sulla sua strada Adam Sloane, un collega disposto a tutto pur di rovinarlo.

Un romanzo avvincente, dalla trama splendidamente congegnata e caratterizzato dagli implacabili colpi di scena che hanno reso Jeffrey Archer uno dei più famosi romanzieri del mondo.

LinguaItaliano
Data di uscita1 gen 2020
ISBN9788830509559
Più della spada
Autore

Jeffrey Archer

Barone Archer di Weston-super-Mare, è nato in Inghilterra nel 1940 e si è laureato a Oxford. È stato candidato sindaco di Londra, membro del Parlamento europeo, e deputato alla Camera dei Lord per venticinque anni. Scrittore e drammaturgo, autore di romanzi, raccolte di racconti, opere teatrali e saggi, con i suoi libri è regolarmente ai vertici delle classifiche in tutto il mondo. È sposato da oltre cinquant’anni con una compagna di università, ha due figli e vive tra Londra, Cambridge e Maiorca. Con HarperCollins ha pubblicato i sette volumi della Saga dei Clifton, Chi nulla rischia e Nascosto in bella vista della nuova serie Le indagini di William Warwick, e la trilogia  dedicata alle famiglie Kane e Rosnovsky, di cui Non fu mai gloria è il volume conclusivo.

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    Anteprima del libro

    Più della spada - Jeffrey Archer

    HARRY ED EMMA

    1964-1965

    1

    «Sua altezza reale» mugugnò Harry, svegliandosi dal torpore del dormiveglia. Si mise bruscamente a sedere e accese la lampada sul comodino, dopodiché scivolò giù dal letto e raggiunse rapidamente il vaso di gigli sul lato opposto della cabina. Lesse il messaggio della Regina Madre per la seconda volta. Grazie per la memorabile giornata a Bristol. Spero davvero che il viaggio inaugurale della mia seconda casa sia un successo. Era firmato Sua altezza reale, Elisabetta, Regina Madre.

    «Un errore così semplice» disse Harry. «Come ho fatto a non accorgermene?» Afferrò la vestaglia e accese le luci della cabina.

    «È già ora di alzarsi?» chiese una voce assonnata.

    «Sì» disse Harry. «Abbiamo un problema.»

    Emma strizzò gli occhi verso la sveglia sul comodino. «Ma sono appena le tre» protestò, guardando il marito che, sul lato opposto del letto, aveva ancora gli occhi fissi sui gigli. «Qual è il problema?»

    «Sua altezza reale non è il titolo della Regina Madre.»

    «Questo lo sanno tutti» disse Emma, tuttora semiaddormentata.

    «Tutti, tranne la persona che ha mandato questi fiori. Com’è possibile che non sapesse che il modo giusto per rivolgersi alla Regina Madre è Sua Maestà, e non sua altezza reale? Quello è il modo in cui ci si rivolge a una principessa.»

    Emma scese dal letto con riluttanza, si avvicinò con passo felpato al marito e studiò il biglietto con i propri occhi.

    «Chiedi al capitano di raggiungerci immediatamente» disse Harry. «Dobbiamo scoprire cosa c’è in questo vaso» aggiunse, prima di inginocchiarsi.

    «Acqua, con ogni probabilità» disse Emma allungando una mano.

    Harry le afferrò il polso. «Osserva con più attenzione, mia cara. Il vaso è decisamente troppo grande per qualcosa di così delicato come una dozzina di gigli. Chiama il capitano» ripeté, stavolta in tono più pressante.

    «Ma potrebbe semplicemente trattarsi di un errore del fiorista.»

    «Speriamo» disse Harry, avviandosi verso la porta. «Ma non è un rischio che possiamo permetterci di correre.»

    «Dove stai andando?» chiese Emma, alzando il telefono.

    «A svegliare Giles. Si intende di esplosivi più di me. Ha passato due anni della sua vita a piazzarne davanti ai tedeschi che avanzavano.»

    Quando Harry uscì in corridoio, fu distratto dalla vista di un uomo anziano che spariva dalle parti dello scalone di rappresentanza. Per essere così vecchio si muoveva davvero troppo rapidamente, pensò Harry. Bussò con forza sulla porta di Giles, ma dovette picchiare urgentemente una seconda volta con il pugno prima che una voce assonnata dicesse: «Chi è?».

    «Harry.»

    L’urgenza della sua voce fece saltare Giles giù dal letto e aprire la porta immediatamente. «Che problema c’è?»

    «Vieni con me» fece Harry, senza spiegazione.

    Giles si infilò la vestaglia e seguì il cognato lungo il corridoio, fin nella cabina di rappresentanza.

    «Buongiorno, sorella» disse a Emma, mentre Harry gli passava il biglietto e diceva: «Sua altezza reale».

    «Ci sono» disse Giles, dopo aver studiato il biglietto. «Non può essere stata la Regina Madre a mandare i fiori. Ma, se non è stata lei, allora chi?» Si chinò e studiò il vaso con maggiore attenzione. «Chiunque sia stato, potrebbe averci infilato un bel po’ di Semtex.»

    «O un litro d’acqua» disse Emma. «Siete sicuri di non essere entrambi preoccupati senza motivo?»

    «Se si tratta di acqua, perché i fiori stanno già appassendo?» chiese Giles, mentre il capitano Turnbull bussava alla porta, prima di entrare nella cabina.

    «Ha chiesto di vedermi, presidentessa?»

    Emma iniziò a spiegare perché mai suo marito e suo fratello fossero ancora inginocchiati.

    «A bordo ci sono quattro membri delle SAS» disse il capitano, interrompendo il presidente. «Forse, uno di loro saprà rispondere alle domande del signor Clifton.»

    «Presumo che non sia una coincidenza» disse Giles. «Faccio fatica a credere che abbiano tutti e quattro deciso di farsi una vacanza a New York contemporaneamente.»

    «Si trovano a bordo su richiesta del segretario di gabinetto» ribatté il capitano. «Ma Sir Alan Redmayne mi aveva assicurato che si trattava solo di una misura precauzionale.»

    «Come al solito, quell’uomo sa qualcosa che noi non sappiamo» disse Harry.

    «In tal caso, forse, è ora di scoprire di che cosa si tratta.»

    Il capitano uscì dalla cabina e si incamminò rapidamente lungo il corridoio, fermandosi solo quando giunse alla cabina 119. Il colonnello Scott-Hopkins rispose molto più rapidamente di quanto non avesse fatto Giles qualche minuto prima quando avevano bussato alla sua porta.

    «Dispone di un artificiere nella sua squadra?»

    «Il sergente Roberts. Faceva parte della squadra di artificieri in Palestina.»

    «Mi occorre subito, nella cabina privata della presidentessa.»

    Il colonnello non perse tempo a chiederne il motivo. Corse nel corridoio, fino allo scalone di rappresentanza, dove trovò il capitano Hartley che gli andava incontro di gran carriera.

    «Ho appena visto Liam Doherty uscire dal bagno della lounge di prima classe.»

    «Ne è sicuro?»

    «Sì. È entrato come Lord e ne è uscito venti minuti dopo come Liam Doherty. A quel punto, è sceso di sotto, in seconda classe.»

    «Questo potrebbe spiegare tutto» disse Scott-Hopkins, procedendo giù dallo scalone, con Hartley che lo seguiva a un solo passo di distanza.

    «Qual è il numero della cabina di Roberts?» chiese, correndo.

    «Sette-quattro-due» scandì Hartley, mentre scavalcavano la catena rossa per finire in una scala più angusta. Non si fermarono finché non ebbero raggiunto il ponte numero sette, dove il caporale Crann spuntò dall’oscurità.

    «Doherty ti è passato davanti negli ultimi minuti?»

    «Dannazione» disse Crann. «Sapevo di aver visto quel bastardo pavoneggiarsi sulla Falls Road. È entrato nella 706.»

    «Hartley» disse il colonnello, procedendo a rotta di collo nel corridoio, «lei e Crann tenete d’occhio Doherty. Assicuratevi che non abbandoni la cabina. Se lo fa, arrestatelo.» Il colonnello bussò con forza alla porta della cabina 742. Il sergente Roberts non ebbe bisogno di un secondo tentativo. Aprì la porta nel giro di qualche secondo e accolse il colonnello Scott-Hopkins con un «Buongiorno, signore» come se fosse solito essere svegliato dal suo ufficiale in comando nel cuore della notte, in pigiama.

    «Prenda la sua cassetta degli attrezzi, Roberts, e mi segua. Non abbiamo un momento da perdere» lo incitò il colonnello, ancora una volta in movimento.

    Roberts impiegò tre rampe di scale per raggiungere l’ufficiale in comando. Una volta arrivati al corridoio di rappresentanza, Roberts capì di quale delle sue competenze avesse bisogno il colonnello. Si precipitò all’interno della cabina della presidentessa e diede un’attenta, breve sbirciata al vaso, prima di girargli lentamente intorno.

    «Se è una bomba» disse infine, «si tratta di una bomba di grandi dimensioni. Non oso immaginare il numero di vittime se non disinneschiamo questa stronza.»

    «Riesce a farlo?» chiese il capitano, con voce straordinariamente calma. «Perché, altrimenti, la mia prima responsabilità è la vita dei passeggeri. Non è il caso che questo viaggio venga paragonato al disastroso viaggio inaugurale di un’altra nave.»

    «Non posso fare nulla, dannazione, finché non riesco a mettere le mani sul pannello di controllo. Deve essere altrove, su questa nave» disse Roberts, «probabilmente non lontano da qui.»

    «Se dovessi scommettere punterei sulla cabina del nobiluomo» disse il colonnello, «ora sappiamo che era occupata da un bombarolo dell’IRA chiamato Liam Doherty.»

    «Qualcuno sa in che cabina era?» chiese il capitano.

    «Nella numero tre» disse Harry, ricordandosi del vecchio dai movimenti un po’ troppo lesti. «Poco più avanti, nel corridoio.»

    Il capitano e il sergente corsero fuori dalla stanza, lungo il corridoio, seguiti da Scott-Hopkins, Harry e Giles. Il capitano aprì la porta della cabina e si fece da parte per consentire a Roberts di entrare. Il sergente si avvicinò rapidamente a un grosso baule al centro della stanza. Sollevò con titubanza il coperchio e diede una sbirciata dentro.

    «Cristo, detonerà tra otto minuti e trentanove secondi.»

    «Non può semplicemente staccare uno di quelli?» chiese il capitano Turnbull, indicando una miriade di cavi di diversi colori.

    «Sì, ma quale?» disse Roberts senza alzare gli occhi, mentre separava con cautela i cavi rossi, neri, azzurri e gialli. «Ho lavorato su congegni come questo diverse volte in passato. C’è sempre una possibilità su quattro e non si tratta di un rischio che io sia disposto a correre. Forse se fossi solo e in mezzo a un deserto» aggiunse, «ma non a bordo di una nave nel mezzo dell’oceano, con centinaia di vite in pericolo.»

    «In tal caso, trasciniamo immediatamente Doherty quassù» suggerì il capitano Turnbull. «Lui saprà quale cavo tagliare.»

    «Ne dubito» disse Roberts, «ho il sospetto che non sia Doherty il dinamitardo. Devono avere a bordo un elettricista e Dio solo sa dov’è.»

    «Stiamo esaurendo il tempo a nostra disposizione» ricordò loro il colonnello, fissando l’incessante avanzamento della lancetta dei secondi. «Sette minuti, tre, due, uno…»

    «Allora, Roberts, cosa suggerisce?» chiese il capitano, con calma.

    «Non le piacerà, signore, ma date le circostanze c’è una sola cosa da fare. E anch’essa presenta un rischio altissimo, ricordando che mancano meno di sette minuti.»

    «Sputi il rospo, cribbio» sbottò il colonnello.

    «Prendere questa cazzo di bomba, buttarla in mare e pregare.»

    Harry e Giles tornarono di corsa nella suite della presidentessa e presero posizione su entrambi i lati del vaso. C’erano diverse domande che Emma, che nel frattempo si era vestita, avrebbe voluto fare ma, da saggia presidentessa quale era, sapeva quando restare in silenzio.

    «Sollevatelo delicatamente» disse Roberts. «Come se fosse una ciotola piena di acqua bollente.»

    Come due pesisti, Harry e Giles si chinarono e sollevarono lentamente il pesante vaso dal tavolo, finché non furono entrambi di nuovo dritti sulle gambe. Una volta convinti di averlo saldamente tra le mani, si spostarono lateralmente lungo la cabina in direzione della porta aperta. Scott-Hopkins e Roberts si affrettarono a togliere qualsiasi ostacolo dal loro percorso.

    «Seguitemi» disse il capitano, mentre i due uomini uscivano nel corridoio e si avvicinavano lentamente allo scalone di rappresentanza. Harry non riusciva a credere a quanto fosse pesante il vaso. Poi gli venne in mente l’uomo gigantesco che lo aveva portato in cabina. Non c’era da stupirsi che non avesse atteso l’eventuale mancia. Probabilmente, era già sulla via del ritorno a Belfast oppure era seduto da qualche parte accanto a una radio per scoprire il destino del Buckingham e il numero di passeggeri che avevano perso la vita.

    Giunti alla base dello scalone di rappresentanza, Harry iniziò a contare ad alta voce per dare il tempo e salire insieme ogni gradino. Sedici passi dopo, si fermò per prendere fiato, mentre il capitano e il colonnello tenevano aperte le porte a vento da cui si accedeva al ponte scoperto, vero e proprio vanto di Emma.

    «Dobbiamo spingerci quanto più a poppa possibile» disse il capitano. «Così sarà più probabile riuscire a non danneggiare lo scafo.» Harry non sembrava convinto. «Non preoccupatevi, non manca molto ormai.»

    Che significa non manca molto ormai? si chiese Harry, che avrebbe gettato volentieri il vaso direttamente in mare. Però non disse nulla mentre avanzavano centimetro dopo centimetro verso la poppa.

    «So esattamente come ti senti» disse Giles, leggendo nel pensiero del cognato.

    Continuarono la loro avanzata a passo di lumaca oltre la piscina, il campo da tennis e le sdraio, sistemate con cura in vista degli ospiti che ora stavano dormendo e che in mattinata si sarebbero ripresentati. Harry cercò di non pensare a quanto tempo restasse prima che…

    «Due minuti» disse inutilmente il sergente Roberts, controllando l’orologio.

    Con la coda dell’occhio, Harry vide il parapetto lungo la prua della nave. Distava solo qualche passo ma, come nella conquista dell’Everest, sapeva che le ultime decine di centimetri sarebbero state le più lente.

    «Cinquanta secondi» disse Roberts, quando si fermarono davanti alla ringhiera, che lambiva le loro cintole.

    «Ti ricordi quando gettammo Fisher nel fiume alla fine dell’anno scolastico?» disse Giles.

    «Impossibile dimenticarlo.»

    «Quindi, al tre, gettiamolo nell’oceano e sbarazziamoci di questa bastarda una volta per tutte» disse Giles.

    «Uno…» I due uomini oscillarono le braccia all’indietro, un movimento che non riuscì ad andare al di là di qualche centimetro. «Due…» Forse di cinque centimetri in più. «Tre…» Fin dove riuscirono e poi, con tutta la forza che restava loro in corpo, lanciarono il vaso in aria e oltre il parapetto. Mentre cadeva, Harry si convinse che sarebbe atterrato sul ponte o che, nella migliore delle ipotesi, avrebbe colpito il parapetto, invece lo mancò di pochi centimetri e finì in mare con un debole tonfo. Giles alzò le braccia in segno di trionfo e gridò: «Alleluia!».

    Qualche istante dopo, la bomba esplose, scagliando entrambi di schiena sul ponte.

    2

    Kevin Rafferty aveva attivato il segnale di Libero nel momento in cui aveva visto Martinez uscire dalla sua casa di Eaton Square. I suoi ordini non avrebbero potuto essere più chiari. Se il cliente avesse tentato la fuga, lui avrebbe dovuto ipotizzare che non avesse intenzione di effettuare il secondo pagamento per l’attentato ai danni del Buckingham e che, di conseguenza, andasse punito.

    L’ordine iniziale era stato emesso dal comandante locale dell’IRA di Belfast. L’unica modifica approvata dal comandante di zona era stata di lasciar scegliere a Kevin quale dei due figli di don Pedro Martinez eliminare. Tuttavia, siccome sia Diego sia Luis erano fuggiti in Argentina e non avevano la minima intenzione di tornare in Inghilterra, don Pedro era l’unico candidato disponibile per la peculiare versione della roulette russa dell’autista.

    «Heathrow» disse Martinez salendo a bordo del taxi. Rafferty uscì da Eaton Square e imboccò Sloane Street, in direzione del Battersea Bridge, ignorando le sonore proteste alle sue spalle. Alle quattro del mattino, con un’insistente pioggia battente, superò una dozzina di macchine e attraversò il ponte. Qualche minuto dopo, accostò davanti a un deposito abbandonato di Lambeth. Quando fu certo che nei paraggi non ci fosse nessuno, saltò giù dal taxi, aprì velocemente il lucchetto arrugginito sulla porta esterna del fabbricato ed entrò con l’auto. Fece inversione di marcia, pronto a una rapida fuga una volta espletato l’incarico.

    Rafferty chiuse il catenaccio e accese la lampadina nuda, impolverata, appesa a una trave al centro della stanza. Estrasse una pistola da una tasca interna, prima di tornare al taxi. Per quanto avesse metà degli anni di Martinez e fosse due volte più in forma di quanto l’altro fosse mai stato, non voleva correre alcun rischio. Quando qualcuno pensa di essere sul punto di morire, l’adrenalina inizia a pompargli nelle vene e lui può trasformarsi in un superuomo, nell’estremo sforzo per la sopravvivenza. Inoltre, Rafferty sospettava che non fosse la prima volta che Martinez si trovava di fronte all’eventualità della morte. Ma stavolta non si sarebbe più trattato di una semplice eventualità.

    Aprì la portiera posteriore del taxi e agitò la pistola verso Martinez per indicargli di scendere.

    «Ecco i soldi che stavo per portarvi» insistette Martinez, tenendo la borsa bene in mostra.

    «Sperava di imbattersi in me a Heathrow, vero?» Rafferty sapeva che, se fosse stato l’intero ammontare della somma, avrebbe dovuto risparmiargli la vita. «Duecentocinquantamila sterline?»

    «No, ma qui ce ne sono oltre ventitremila. Un anticipo, capisce. Il resto è rimasto a casa mia, per cui, se torniamo indietro…»

    L’autista sapeva che la casa di Eaton Square, insieme ad altri beni di Martinez, era stata pignorata dalla banca. Era chiaro che Martinez aveva sperato di raggiungere l’aeroporto prima che l’IRA scoprisse che non aveva alcuna intenzione di rispettare la sua parte dell’accordo.

    Rafferty afferrò la borsa e la gettò sul sedile posteriore del taxi. Aveva deciso di protrarre la morte di Martinez al di là di quanto originariamente programmato. Dopotutto, nell’ora seguente non aveva nient’altro da fare.

    Agitò la pistola in direzione di una sedia di legno posizionata esattamente dietro la lampadina. Era già coperta di schizzi di sangue di precedenti esecuzioni. Con forza costrinse la vittima a sedersi e, prima che don Pedro avesse la possibilità di reagire, gli legò le braccia dietro la schiena. Per finire, legò le gambe di Martinez tra loro e poi si ritrasse per ammirare il lavoro fatto.

    Tutto ciò che Rafferty doveva decidere era per quanto tempo avrebbe consentito alla vittima di vivere. L’unico vincolo consisteva nel fatto che sarebbe dovuto arrivare a Heathrow in tempo per prendere il primo aereo del mattino per Belfast. Controllò l’orologio. Era sempre un piacere vedere sul volto della vittima l’espressione di chi è convinto di avere ancora una chance di sopravvivenza.

    Tornò al taxi, aprì la zip della borsa di Martinez e contò le mazzette di banconote fruscianti da cinque sterline. Aveva quantomeno detto la verità al riguardo, anche se mancavano oltre duecentoventiseimila sterline. Chiuse nuovamente la lampo della borsa e la sistemò nel baule. Dopotutto, Martinez non ne avrebbe più avuto alcun bisogno.

    Gli ordini del comandante locale erano chiari: una volta portato a termine l’incarico, avrebbe dovuto lasciare il corpo nel deposito e a sbarazzarsene sarebbe stato qualcun altro. L’unica cosa richiesta a Rafferty era una telefonata con cui avrebbe comunicato: «Pacco pronto per presa in consegna». Dopodiché, avrebbe dovuto guidare fino all’aeroporto e lasciare il taxi e il denaro al piano superiore del parcheggio di lunga sosta. Qualcun altro avrebbe avuto il compito di ritirarla e di distribuire il contante.

    Tornò da don Pedro, che non gli aveva mai staccato gli occhi di dosso. Se fosse dipeso da Rafferty, gli avrebbe sparato nello stomaco e poi avrebbe atteso qualche minuto, finché le urla non si fossero spente, prima di piazzargli una seconda pallottola nell’inguine. Altre urla, probabilmente ancor più forti, finché lui non gli avesse schiaffato la pistola in bocca. Avrebbe fissato la vittima negli occhi per diversi secondi e poi, senza preavviso, avrebbe premuto il grilletto. Ma ciò significava tre spari. Uno forse sarebbe passato inosservato, ma tre colpi nel cuore della notte avrebbero indiscutibilmente destato attenzione. Pertanto, avrebbe obbedito agli ordini del comandante di zona. Un solo sparo e niente urla.

    L’autista sorrise a don Pedro che alzò gli occhi, speranzoso, finché vide la pistola puntare verso la sua bocca.

    «Aprila» disse Rafferty, come un dentista affabile che cerchi di convincere un bimbo riluttante. A tutte le sue vittime battevano i denti.

    Martinez resistette e in quella lotta impari inghiottì un incisivo. Il sudore colava abbondante lungo le pieghe del suo viso. Passarono solo pochi secondi prima che il grilletto venisse premuto, ma non udì altro che il clic del cane.

    Alcuni svenivano, altri semplicemente restavano a occhi aperti, increduli, mentre altri ancora vomitavano abbondantemente quando si rendevano conto di essere ancora vivi. Rafferty detestava quelli che svenivano. Lo costringevano ad attendere che si fossero ripresi del tutto prima di ricominciare da capo. Ma Martinez rimase cortesemente e pienamente sveglio.

    Quando Rafferty estraeva la pistola – la sua idea di pompino – le vittime spesso sorridevano, pensando che il peggio fosse passato. Ma, nel momento in cui fece nuovamente ruotare il tamburo, don Pedro capì che sarebbe morto. Restava solo da stabilire quando. Dove e come era già stato deciso.

    Per Rafferty era sempre una delusione concludere al primo colpo. Il suo record personale era di nove, ma la media stava tra quattro e cinque. Non che gli importasse delle statistiche. Schiaffò nuovamente la canna nella bocca di Martinez e fece un passo indietro. Dopotutto, non intendeva sporcarsi di sangue. L’argentino fu talmente sciocco da opporsi di nuovo e perciò perse un altro dente, questa volta d’oro. Rafferty se lo infilò in tasca e premette di nuovo il grilletto, ma ottenne solo l’ennesimo clic. Estrasse la canna nella speranza di far uscire un altro dente. Be’, mezzo dente.

    «Fortunato per la terza volta» disse Rafferty mentre schiaffava ancora la canna nella bocca di Martinez e premeva il grilletto. Ancora cilecca. L’autista si stava spazientendo e ora sperava di portare a termine l’incarico della mattinata al quarto tentativo. Stavolta fece girare il tamburo con un po’ di entusiasmo in più, ma quando alzò gli occhi Martinez era svenuto. Che delusione. Gli piaceva che la vittima fosse vigile quando la pallottola le entrava nel cervello. Per quanto le restasse ancora solo un secondo da vivere, era un’esperienza di cui lui si beava. Afferrò Martinez per i capelli, gli aprì la bocca con la forza e vi schiaffò nuovamente dentro la canna. Era sul punto di premere il grilletto per la quarta volta, quando il telefono nell’angolo della stanza prese a squillare. Nella notte fredda, l’insistente eco metallica colse Rafferty di sorpresa. Non aveva mai considerato che quel telefono potesse squillare. In passato lo aveva usato solo per digitare un numero e comunicare un messaggio di sei parole.

    Con riluttanza, estrasse la canna della pistola dalla bocca di Martinez, raggiunse il telefono e alzò la cornetta. Non parlò, si limitò ad ascoltare.

    «Missione abortita» disse una voce dall’accento secco, istruito. «Non serve incassare il secondo pagamento.»

    Un clic seguito da un ronzio.

    Rafferty posò la cornetta. Forse, avrebbe fatto girare il tamburo ancora una volta e, se avesse avuto successo, avrebbe comunicato che Martinez era già morto quando era squillato il telefono. In precedenza, aveva mentito al comandante di zona in un’unica occasione e a provarlo restava solo la perdita di un dito della mano sinistra. A chiunque glielo chiedesse diceva che a tagliarglielo era stato un agente inglese nel corso di un interrogatorio, cosa a cui in pochi credevano, da una parte come dall’altra.

    Riluttante, rimise la pistola nella tasca da cui l’aveva tirata fuori e tornò lentamente da Martinez, che era accasciato sulla sedia, con la testa tra le gambe. Si chinò e gli sciolse la corda intorno a polsi e caviglie. Martinez si accasciò sul pavimento. L’autista lo tirò su per i capelli, se lo gettò su una spalla come un sacco di patate e lo buttò nel retro del taxi. Per un istante, aveva quasi sperato che gli opponesse resistenza e poi che… ma non aveva avuto quella fortuna.

    Uscì col taxi dal deposito, chiuse il lucchetto della porta e si diresse verso Heathrow, per unirsi a diversi altri taxisti al lavoro quella mattina.

    Mancavano circa tre chilometri all’aeroporto quando Martinez confermò di essere ancora a questo e non all’altro mondo. L’autista osservò nello specchietto retrovisore il passeggero che iniziava a svegliarsi. Martinez batté le palpebre diverse volte prima di guardare fuori dal finestrino per scorgere file di case suburbane scorrergli accanto. Quando iniziò a capire come stavano le cose, si sporse in avanti e riempì di vomito il sedile posteriore. Il collega di Rafferty non avrebbe apprezzato.

    Don Pedro alla fine riuscì a raddrizzare il suo corpo flaccido. Riacquistò l’equilibrio aggrappandosi all’estremità del sedile con entrambe le mani e fissò il suo potenziale boia.

    Cosa lo aveva spinto a cambiare idea? Forse, non aveva affatto cambiato idea. Forse, a essere cambiato era solo il luogo dell’esecuzione. Don Pedro si sporse leggermente in avanti, nella speranza che gli venisse fornita una sola opportunità di fuga, ma era dolorosamente conscio del fatto che gli occhi diffidenti di Rafferty tornavano sullo specchietto retrovisore a intervalli di pochi secondi.

    Rafferty abbandonò la strada principale e seguì le indicazioni per il parcheggio di lunga sosta. Salì al piano superiore e condusse l’auto nell’angolo lontano. Scese, fece scattare la serratura del baule e aprì la cerniera della sacca da viaggio, di nuovo soddisfatto alla vista delle file ordinate di banconote fruscianti da cinque sterline. Gli sarebbe piaciuto portarsi quei soldi a casa, ma non poteva rischiare di venire sorpreso con quella somma, ora che c’erano tanti addetti alla sicurezza in più a tenere d’occhio ogni volo per Belfast.

    Dalla sacca estrasse un passaporto argentino, un biglietto di prima classe sola andata per Buenos Aires e dieci sterline in contanti, dopodiché lasciò cadere la pistola nella sacca: un’altra cosa con cui non poteva permettersi di farsi sorprendere. Chiuse il baule, aprì la portiera del guidatore e sistemò sotto il sedile le chiavi e il biglietto del parcheggio che un collega avrebbe ritirato nella seconda parte della mattinata. A quel punto aprì la portiera posteriore e si fece da parte per consentire a Martinez di smontare, ma quello non si mosse. Avrebbe tentato la fuga? No, se ci teneva alla vita. Dopotutto, non sapeva che l’autista non disponeva più di una pistola.

    Rafferty afferrò saldamente Martinez per un gomito, lo strattonò fuori dall’automobile e lo condusse a forza verso l’uscita più vicina. Due uomini gli passarono accanto sulla scala mentre scendevano al piano terra. Rafferty non li degnò di uno sguardo.

    Nessuno dei due parlò durante la lunga camminata verso il terminal. Quando furono nell’atrio, Rafferty consegnò a Martinez il suo passaporto, il suo biglietto e le due banconote da cinque sterline.

    «E il resto?» disse don Pedro tra i denti. «Perché è chiaro che i suoi colleghi non sono riusciti ad affondare il Buckingham

    «Si ritenga fortunato di essere vivo» disse Rafferty, prima di voltarsi rapidamente e sparire tra la folla.

    Per un istante, ma solo per un istante, don Pedro valutò se tornare al taxi e recuperare i suoi soldi. Al contrario, si diresse con riluttanza verso lo sportello sudamericano della British Airways e consegnò il biglietto a una donna seduta dietro il banco.

    «Buongiorno, signor Martinez. Spero che il suo soggiorno in Inghilterra sia stato piacevole.»

    3

    «Come ti sei procurato l’occhio nero, papà?» volle sapere Sebastian quando raggiunse la famiglia per colazione, al ristorante del Buckingham, in tarda mattinata.

    «Tua madre mi ha colpito quando ho osato insinuare che russasse» rispose Harry.

    «Io non russo» disse Emma, imburrando un altro pezzo di pane tostato.

    «Come fai a sapere se russi quando dormi?» disse Harry.

    «E tu, zio Giles? Mia madre ti ha spezzato un braccio quando anche tu hai insinuato che russasse?» chiese Seb.

    «Io non russo!» ripeté Emma.

    «Seb» intervenne Samantha con decisione, «non dovresti porre una domanda a qualcuno se sai già che non avrà voglia di rispondere.»

    «Parole da figlia di un diplomatico» disse Giles, sorridendo alla fidanzata di Seb dal lato opposto del tavolo.

    «Parole da politico che non vuole rispondere alla mia domanda» ribatté Seb. «Ma sono determinato a scoprirlo…»

    «Buongiorno, è il vostro capitano a parlare» annunciò una voce frusciante dall’impianto di amplificazione. «Stiamo viaggiando alla velocità di ventidue nodi. La temperatura è di venti gradi centigradi e nelle prossime ventiquattro ore non ci attendiamo cambiamenti climatici. Spero che passiate una giornata gradevole e non mancate di approfittare di tutte le meravigliose strutture che il Buckingham è in grado di offrire, in particolare delle sdraio e della piscina al piano superiore, una caratteristica esclusiva di questa nave.» Ci fu una lunga pausa, prima che continuasse. «Alcuni passeggeri mi hanno chiesto spiegazioni circa un forte rumore che li ha svegliati nel cuore della notte. Pare che, intorno alle tre del mattino, la Home Fleet stesse effettuando delle esercitazioni notturne nell’Atlantico e che, per quanto si siano svolte a svariate miglia nautiche di distanza, in una notte tersa come quella scorsa possano essere sembrate decisamente più prossime. Chiedo scusa a chiunque sia stato svegliato da rumori di colpi d’arma da fuoco ma, poiché ho servito nella Royal Navy durante la guerra, so bene che le esercitazioni notturne sono necessarie. Tuttavia, posso assicurare ai passeggeri che la loro incolumità non è mai stata in discussione. Grazie, e godetevi il resto della giornata.»

    I dieci uomini rimasero in piedi finché Emma non ebbe preso posto a capotavola, una tavola sconosciuta ma, per dirla tutta, la sala da ballo del Buckingham non era stata creata per una riunione di emergenza del consiglio di amministrazione.

    Quando studiò i colleghi intorno a lei, nessuno sorrideva. Molti di loro avevano affrontato delle crisi nelle loro vite, ma nulla di quella portata. Persino le labbra dell’ammiraglio Summers erano increspate. Emma aprì la cartellina di cuoio azzurro che aveva davanti, un dono di Harry quando era stata nominata presidentessa. Era stato lui, rifletté, ad avvertirla della crisi e poi a occuparsene.

    «Non serve rammentarvi che tutto ciò di cui discuteremo oggi è e rimarrà strettamente confidenziale: non è esagerato sostenere che ne va del futuro della compagnia di navigazione Barrington, per non parlare della sicurezza di chiunque si trovi a bordo di questa nave» disse.

    Emma posò gli occhi su un’agenda che le aveva fatto trovare pronta Philip Webster, il segretario della società, il giorno prima della loro partenza da Avonmouth. Era già superata. C’era un solo argomento di discussione sull’agenda riveduta e sarebbe stato certamente l’unico tema trattato quel giorno.

    «Comincerò» disse Emma, «raccontando, in via ufficiosa, tutto ciò che si è verificato nelle prime ore di stamattina e, a quel punto, decideremo quale corso d’azione intraprendere. Sono stata svegliata da mio marito poco dopo le tre…»

    Venti minuti dopo, Emma ricontrollò gli appunti. Era convinta di aver prodotto un resoconto attendibile di ciò che era già successo, ma accettò di non poter predire il futuro.

    «L’abbiamo fatta franca?» chiese l’ammiraglio quando Emma lasciò il campo alle eventuali domande.

    «Buona parte dei passeggeri ha accettato la spiegazione del capitano senza fare questioni.» Voltò la pagina del suo dossier. «Tuttavia, per il momento, abbiamo ricevuto lamentele da parte di trentaquattro passeggeri. Tutti tranne uno hanno accettato come indennizzo un viaggio gratis sul Buckingham da effettuarsi in futuro.»

    «E potete stare certi che ce ne saranno molte altre» disse Bob Bingham, distinguendosi con la sua solita schiettezza campagnola del Nord rispetto alla calma apparente dei consiglieri più anziani.

    «Cosa glielo fa dire?» chiese Emma.

    «Non appena gli altri passeggeri scopriranno che non devono far altro che scrivere una lettera di proteste per ottenere un viaggio gratis, molti raggiungeranno immediatamente le rispettive cabine e le metteranno nero su bianco.»

    «Forse, non tutti ragionano come lei» provò a dire l’ammiraglio.

    «È per questo che faccio parte del consiglio di amministrazione» disse Bingham, senza cedere di un millimetro.

    «Ci diceva, presidentessa, che tutti i passeggeri tranne uno hanno accettato l’offerta di un viaggio omaggio…» sottolineò Jim Knowles.

    «Sì» disse Emma. «Purtroppo, un passeggero americano minaccia di fare causa alla compagnia. Dice di essersi trovato sul ponte alle prime ore del mattino e di non aver visto o sentito la presenza della Home Fleet, ma di essersi comunque rotto una caviglia.»

    D’un tratto, tutti i consiglieri si misero a parlare contemporaneamente. Emma attese che si placassero. «Alle dodici, ho un appuntamento con il signor…» disse, controllando il fascicolo, «… Hayden Rankin.»

    «Quanti altri americani ci sono a bordo?» domandò Bingham.

    «Un centinaio. Perché me lo chiede, Bob?»

    «Speriamo che tra di loro non ci siano tanti avvocatucoli di quelli che cercano di lucrare dalle cause per incidenti, altrimenti ci troveremo impelagati in azioni legali per il resto dei nostri giorni.» Intorno al tavolo scoppiarono risate nervose. «Mi assicuri soltanto, Emma, che il signor Rankin non è un avvocato.»

    «Peggio» replicò lei. «È un politico. Un rappresentante dello stato della Louisiana.»

    «Un verme che si è felicemente ritrovato in un cesto di mele appena colte» rincarò la dose Dobbs, un consigliere che di rado offriva un’opinione.

    «Non la seguo, vecchio mio» intervenne Clive Anscott, dal lato opposto del tavolo.

    «Un politico locale che probabilmente pensa di aver colto un’opportunità per farsi un nome nell’arena nazionale.»

    «Proprio quello che ci serve» disse Knowles.

    Il consiglio di amministrazione rimase in silenzio per un po’, finché Bob Bingham disse, in tono prosaico: «Dovremo eliminarlo. L’unica domanda è chi sarà a premere il grilletto».

    «Toccherà a me» rispose Giles, «visto che sono l’unico altro verme nel cesto.» Dobbs parve adeguatamente in imbarazzo. «Cercherò di imbattermi in lui prima che abbia il suo incontro con te, presidentessa, e vedrò se riesco a ottenere qualcosa. Speriamo che sia un democratico.»

    «Grazie, Giles» disse Emma, che non si era ancora abituata all’idea che suo fratello la chiamasse presidentessa.

    «Che tipo di danno ha subito la nave nell’esplosione?» chiese Peter Maynard, che fino a quel momento non aveva parlato.

    Gli occhi di tutti puntarono verso l’estremità opposta del tavolo, dove sedeva il capitano Turnbull.

    «Meno di quanto temessi inizialmente» disse il capitano, alzandosi dal suo posto. «Una delle quattro eliche principali è rimasta danneggiata nella deflagrazione e non sarò in grado di sostituirla finché non saremo di ritorno ad Avonmouth. Anche lo scafo ha subito qualche danno, ma si tratta di lesioni superficiali.»

    «Ci rallenteranno?» chiese Michael Carrick.

    «Non al punto da far sì che qualcuno si accorga che viaggiamo a ventidue nodi invece che ventiquattro. Le altre tre eliche sono pienamente efficienti e, dato che è sempre stata mia intenzione giungere a New York alle prime ore del 4, solo i passeggeri più attenti si renderebbero conto che siamo in ritardo di qualche ora sulla tabella di marcia.»

    «Scommetto che Rankin, il membro della Camera dei Rappresentanti, se ne accorgerà» disse Knowles, inutilmente. «E come ha spiegato i danni ai membri dell’equipaggio?»

    «Non l’ho fatto. Non sono pagati per fare domande.»

    «Che ci dice del viaggio di ritorno ad Avonmouth?» chiese Dobbs. «Possiamo sperare di tornare senza ritardi?»

    «I nostri ufficiali di macchina lavoreranno a ciclo continuo sul danno alla poppa nelle trentasei ore in cui saremo ormeggiati a New York e così, nel momento in cui salperemo, dovremmo essere in perfetto ordine e completamente efficienti.»

    «Ottimo!» disse l’ammiraglio.

    «Però, potrebbe essere il minore dei nostri guai» fece Anscott. «Non dimenticate che abbiamo una cellula dell’IRA a bordo e Dio solo sa cos’altro abbia pianificato per il resto del viaggio.»

    «Tre di quegli uomini sono già stati arrestati» disse il capitano. «Sono stati letteralmente incatenati e verranno consegnati alle autorità non appena saremo a New York.»

    «Ma non potrebbero esserci altri uomini dell’IRA a bordo?» chiese l’ammiraglio.

    «Secondo il colonnello Scott-Hopkins, una cellula dell’IRA solitamente è composta da quattro o cinque persone. Pertanto sì, è possibile che a bordo ce ne siano ancora un paio, ma è probabile che tengano un profilo molto basso ora che tre dei loro colleghi sono stati arrestati. La loro missione è stata un evidente fallimento, cosa che non hanno intenzione di ricordare a tutti, una volta tornati a Belfast. E io posso confermare che l’uomo che ha consegnato i fiori alla cabina della presidentessa non è più a bordo: deve essere sbarcato prima che salpassimo. Ho il sospetto che, se ce ne sono altri, non si uniranno a noi nel viaggio di ritorno.»

    «Mi viene in mente una cosa pericolosa quanto Rankin, il membro della Camera dei Rappresentanti, e quanto la stessa ira» disse Giles. Da politico stagionato quale era, il rappresentante del collegio di Bristol, area portuale, aveva destato l’attenzione di tutti.

    «Di che parli?» chiese Emma, guardando suo fratello dalla parte opposta del tavolo.

    «Il quarto potere. Non dimenticare che hai invitato dei giornalisti a unirsi a noi in questo viaggio, nella speranza di ottenere buone recensioni. Ora hanno un’esclusiva.»

    «Vero, però nessuno fuori da questa stanza sa esattamente che cosa sia successo la notte scorsa e, a ogni buon conto, solo tre giornalisti hanno accettato il nostro invito: il Telegraph, il Mail e l’Express

    «Tre di troppo» disse Knowles.

    «Il tizio dell’Express è il corrispondente di viaggio» disse Emma. «All’ora di pranzo raramente è sobrio e, dunque, mi sono assicurata che nella sua cabina ci siano sempre almeno due bottiglie di Johnnie Walker e Gordon’s. Il Mail ha sponsorizzato dodici crociere omaggio per questo viaggio e, dunque, è improbabile che sia interessato a scrivere commenti negativi. Derek Hart del Telegraph, invece, si è già messo a indagare e a fare domande.»

    «Nell’ambiente lo chiamano SpietHarto» disse Giles. «Dovrò fornirgli una storia ancora più interessante per tenerlo occupato.»

    «Cosa potrebbe esserci di più interessante del possibile affondamento del Buckingham da parte dell’IRA in occasione del suo viaggio inaugurale?»

    «Il possibile affondamento della Gran Bretagna da parte di un governo laburista. Stiamo per annunciare un prestito di un miliardo e mezzo di sterline dall’FMI nel tentativo di bloccare il tracollo della sterlina. Il direttore del Telegraph sarà felice di riempire diverse pagine con quella notizia.»

    «Anche se così fosse» intervenne Knowles, «credo che, con un rischio così alto, presidentessa, dovremmo prepararci al peggio. Dopotutto, se il nostro politico americano decidesse di fare dichiarazioni pubbliche o se il signor Hart del Telegraph si dovesse imbattere nella verità o – Dio ce ne scampi – l’IRA dovesse avere un piano B, questo potrebbe essere il primo e ultimo viaggio del Buckingham

    Ci fu un altro lungo silenzio, prima che Dobbs dicesse: «Be’, in effetti abbiamo promesso ai nostri passeggeri che sarebbe stato indimenticabile».

    «Il signor Knowles ha ragione» disse Emma. «Se dovesse verificarsi una di queste tre eventualità, crociere omaggio o bottiglie di gin non basteranno a salvarci. Il prezzo delle nostre azioni crollerebbe dalla sera alla mattina, le riserve della compagnia si prosciugherebbero e addio prenotazioni se i potenziali passeggeri pensassero che esista la minima possibilità che un attentatore dell’IRA alloggi nella cabina accanto alla loro. La sicurezza dei nostri passeggeri è di fondamentale importanza. Per questo, vi suggerisco di passare il resto della giornata a raccogliere tutte le informazioni che riuscite a trovare e al tempo stesso di rassicurare i passeggeri che tutto va bene. Sarò nella mia cabina e dunque, se doveste scoprire qualcosa, sapete dove trovarmi.»

    «Non è una buona idea» disse Giles con decisione. Emma parve sorpresa. «La presidentessa dovrebbe farsi vedere sul ponte scoperto mentre si rilassa e si diverte, il che ha molte più probabilità di convincere i passeggeri che non c’è nulla di cui preoccuparsi.»

    «Ottimo ragionamento» disse l’ammiraglio.

    Emma annuì. Stava per alzarsi in piedi e indicare che la riunione era terminata, quando Philip Webster, il segretario della società, mugugnò: «C’è altro?».

    «Non credo» disse Emma, che ora era in piedi.

    «A dire il vero sì, presidentessa» disse Giles. Emma tornò a sedersi. «Ora che faccio parte del governo, non ho altra scelta che rassegnare le dimissioni da direttore della compagnia, dato che non mi è consentito di mantenere

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