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I segreti di Villa Durante
I segreti di Villa Durante
I segreti di Villa Durante
E-book541 pagine12 ore

I segreti di Villa Durante

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Info su questo ebook

Perfetto per i lettori di Dinah Jefferies e Lucinda Riley

Un’appassionante storia familiare 
tra gli orrori della guerra e la campagna toscana

Londra, 1937. Alessandra Durante sta cercando di superare il dolore per la perdita dell’adorato marito inglese, quando riceve una notizia inaspettata: è diventata l’erede della villa tra le colline toscane posseduta dai suoi avi italiani. Decisa a voltare pagina, Alessandra parte insieme a sua figlia Diana, con la speranza di ricominciare una nuova vita in mezzo alla natura. Ma gli effetti dell’imminente conflitto mondiale si fanno sentire anche in mezzo alle vigne e ai cipressi: infatti la villa diventa un ricovero per tutti coloro in cerca di un rifugio. E l’arrivo di Davide, un giovane che nasconde un segreto importante, è destinato a cambiare per sempre la vita di Diana, che sarà chiamata alla scelta più difficile di tutte: quella tra la testa e il cuore. Intanto, a Londra, il secondo figlio di Alessandra, Robert, si arruola come pilota della RAF. È determinato a fare la sua parte per liberare l’Italia dalla morsa del fascismo. Il suo coraggio lo porterà ad accettare una missione pericolosissima, che lo vedrà infiltrarsi oltre le linee nemiche. Riusciranno Alessandra, Diana e Robert a sopravvivere alla guerra senza tradire loro stessi?

Può il coraggio di una donna opporsi al destino?

«La scrittura di questa autrice riesce a coinvolgere il lettore, trasportandolo indietro nel tempo.»

«Un romanzo intenso, commovente, che evoca sentimenti profondi.»

Caroline Montague
ha vinto la sua prima competizione poetica a soli dieci anni e da quel momento ha sempre desiderato diventare una scrittrice. Per anni si è destreggiata tra i suoi lavori di modella, designer di interni e madre, ma non ha mai smesso di raccontare storie. Vive in una splendida casa nel Gloucestershire, Burnt Norton, resa celebre da una poesia di T.S. Eliot.
LinguaItaliano
Data di uscita7 giu 2019
ISBN9788822735188
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    Anteprima del libro

    I segreti di Villa Durante - Caroline Montague

    1

    Pace

    Capitolo uno

    Due anni e mezzo dopo

    Erano le sette del mattino, ed era la primavera del 1937. Alessandra Marston chiuse la porta dell’appartamento per l’ultima volta, mise le chiavi nella buca della posta e raggiunse sua figlia, che l’aspettava nel taxi. Mentre le strade di Londra sfrecciavano dal finestrino, si ricordò un’altra mattina di primavera, quando la luce aveva la stessa intensità e gli alberi erano carichi di boccioli bianchi. «Ecco», le aveva detto suo marito Anthony, cingendole le spalle con un braccio. «È questa la mia religione, Alessandra. È come se il mondo fosse rinato, e proprio qui in Inghilterra». E adesso suo marito era morto, e lei stava lasciando l’Inghilterra assieme alla figlia. Stava abbandonando i suoi amici, suo suocero, ma soprattutto suo figlio.

    Negli ultimi due anni, la sua vita era stata messa completamente sottosopra; e ora era sul punto di compiere una fuga, la fuga irrazionale di una vedova in preda al dolore: stava per andare in Italia in un momento in cui all’orizzonte si profilava un’altra guerra.

    Dopo nemmeno mezz’ora che erano arrivate a Victoria Station, tutti i bagagli di Alessandra, figlia inclusa, furono caricati sul treno che le avrebbe condotte alla nave. Diana era rannicchiata sul sedile accanto al finestrino, con il naso schiacciato contro il vetro: tra le mani stringeva Leo, il suo leone di pezza ormai logoro.

    In qualsiasi altra occasione, vedendo Diana così, Alessandra l’avrebbe rimproverata. Certi bambini, senza fare alcuno sforzo, erano sempre lindi e ordinati; altri no. Diana apparteneva a quest’ultima categoria. In quel momento, una massa di riccioli neri le sfuggiva dalla fascia per capelli e il cappotto blu, che era stato lavato solo una settimana prima, era infangato sull’orlo. Le calze le ricadevano intorno alle caviglie.

    Ma quel giorno Alessandra provò solo il desiderio urgente di abbracciarla. «Non sarà così per sempre», la rassicurò.

    «Niente è per sempre», replicò Diana guardandola in faccia: aveva gli stessi occhi della madre, e fu come se le rigirassero una lama nel cuore. A quattordici anni Diana sarebbe stata ben felice di continuare a frequentare la sua vecchia scuola. Il leone di pezza sarebbe rimasto sulla mensola dell’armadio, dov’era stato abbandonato anni prima, e Alessandra avrebbe vissuto il futuro che aveva pianificato con Anthony. Ma naturalmente, niente era andato come previsto.

    Quando Diana si addormentò, con una mano premuta contro una guancia arrossata, Alessandra raccolse Leo da terra e glielo rimise in grembo.

    Si massaggiò le tempie. Gli ultimi due anni erano stati devastanti. Anthony l’aveva protetta e amata, ma adesso era morto. Alessandra aveva scoperto che il marito, un chirurgo brillante e famoso per la sua abilità in sala operatoria, era stato un po’ meno abile con le finanze. Ripensò alla conversazione avuta con suo suocero, Peter Marston, subito dopo il funerale.

    «Sono così desolato, mia cara Alessandra», le aveva detto, con le mani che gli tremavano mentre sorseggiava un bicchiere di whisky. «Non credo che mio figlio ti abbia raccontato tutto. Sai, il crollo del 1929 ci ha danneggiati tutti in modo significativo. Le nostre azioni, le quote e gran parte dei nostri risparmi si sono dileguate. Anthony ha fatto degli investimenti sbagliati, e anch’io».

    «Cosa mi stai dicendo, Peter?»

    «Ti sto dicendo che ci hanno dato dei cattivi consigli, ed entrambi abbiamo corso dei rischi. Prima della morte di Anthony, quei rischi erano gestibili grazie al suo reddito alto, ma ora sembra che sia rimasto ben poco. Temo di averti delusa».

    «No, certo che non mi hai delusa», lo rassicurò. Era suo marito che l’aveva delusa. Come aveva fatto a non dirglielo? Come aveva potuto, lui che l’amava così tanto, lasciarla senza niente?

    Così Alessandra era stata costretta a rinunciare alla sua bella casa di Upper Brook Street, nonché alla governante, alla cuoca e alla cameriera. Aveva affittato un appartamento umido e deprimente a Marylebone e si era trovata un lavoro da Selfridges: ora vendeva gli abiti che un tempo comprava. Diana era stata trasferita dal collegio a una scuola privata di Londra, mentre Robert era rimasto alla Marchants grazie alla generosità e alla bontà di Douglas Gordon, collega e migliore amico di Anthony sin dai tempi della facoltà di medicina.

    «Mia cara Alessandra», le aveva detto Douglas, «quando Anthony mi ha chiesto di fare da padrino a Robert, ne sono stato onorato. È un impegno che ho preso seriamente, perciò sarei contento di aiutarlo dal punto di vista finanziario, e anche in altri modi». Douglas non aveva vacillato e Alessandra gli aveva sorriso, sollevata. Anthony non si era sbagliato sul conto di Douglas: era un brav’uomo, uno dei migliori.

    Due anni dopo, le loro vite erano nuovamente cambiate. Alessandra stava appendendo le decorazioni all’albero di Natale quando il campanello era suonato. Diana aveva tolto la catenella dalla porta e aveva visto una vecchia signora, con una borsa in tessuto stile arazzo infilata sotto il braccio. Aveva detto di essere la signora Browne, e Alessandra l’aveva invitata in salotto, scusandosi per il divano scomodo e gli arredi scialbi.

    «Oh, santo cielo, e perché?», aveva replicato la signora Browne, dandole un buffetto sulla mano. «In ogni caso, non dovrà tollerare tutto questo a lungo. L’avvocato non l’ha avvisata del mio arrivo?».

    Incuriosite, Alessandra e Diana scoprirono che la signora Browne era tornata di recente dall’Italia. «Vivevo a Firenze, sapete. Aiutavo sua nonna quando alloggiava nella sua suite all’Hotel Brunelleschi nei mesi invernali. Mi occupavo della corrispondenza, le pagavo le bollette, questo genere di cose. Finché non è deceduta».

    «Non sapevo che fosse morta», mormorò Alessandra, stranamente commossa.

    «L’avrebbero dovuta avvertire», commentò stizzita l’anziana signora. «Mi dispiace».

    «Non ho mai conosciuto mia nonna, perciò non è necessario scusarsi».

    «Ma è una cosa di cui si è sempre rammaricata, glielo garantisco. Ed ecco perché sono qui. Sono tornata in Inghilterra su richiesta di sua nonna, ma era anche il momento giusto per me. Pur avendo vissuto in Italia negli ultimi venticinque anni, ora che la Gran Bretagna ha condannato l’invasione dell’Abissinia da parte di Mussolini è tutto cambiato. La nostra piccola comunità è stata presa di mira dai suoi scagnozzi fascisti…». Non finì la frase e arrossì. «Naturalmente, lontano dalla città è diverso», le rassicurò piegando la testa per rovistare nella borsa. Alessandra e Diana si scambiarono uno sguardo, perplesse. La signora Browne, infine, tirò fuori una cartellina spiegazzata dalle profondità cavernose della borsa. Dentro c’erano un documento legato con un nastro rosa, un libro di poesie e una busta. «Le suggerirei di aprire prima la busta», disse con gli occhi scintillanti di eccitazione. «Mia cara, credo l’attenda una grossa sorpresa».

    Alessandra era intrigata. Cosa poteva mai dirle sua nonna, dopo tutti quegli anni? Quando aprì la busta, una fotografia scivolò fuori e cadde a terra. Era stata scattata fuori dalla chiesa cattolica di Farm Street, dopo il suo matrimonio con Anthony. Alessandra aveva un viso radioso, pieno di speranza per il futuro che l’attendeva con suo marito, prima che di colpo glielo portassero via. Si ricordò che sua madre aveva spedito quella foto in Italia. «Non so perché dovrei preoccuparmene», aveva detto, storcendo le labbra. «Tua nonna ha mai fatto qualcosa per me?». Ma gliel’aveva mandata lo stesso, e ora eccola qui, dopo tutti quegli anni.

    Alessandra lisciò il foglio e, con Diana appoggiata alla spalla, iniziò a leggere.

    Villa Durante

    Carissima Alessandra,

    è triste che non ci siamo mai incontrate. Ti penso spesso, ma mi rendo conto che il danno ormai è stato fatto. Quando ho scritto a tua madre, implorando il suo perdono, ho saputo della sua morte.

    Hai ancora l’album degli acquarelli? Li ho dipinti con la speranza che un giorno saresti venuta a trovarci. Purtroppo, ciò non accadrà finché sarò in vita, perché sto morendo, Alessandra, ma posso mettere fine ai miei giorni sapendo che la mia bella casa al confine tra Toscana e Umbria sarà tua. Mi auguro che amerai Villa Durante, così come l’abbiamo amata noi, e che quest’amore guarirà le ferite della nostra famiglia. Devi sapere che la mia punizione è stata severa: non soltanto ho perso una figlia, ma anche una bellissima nipote.

    Ho incaricato la mia amica Angela Browne di darti il mio testamento, questa lettera e un libro di poesie di Leopardi. Leggi con attenzione le poesie perché ti aiuteranno a capire questo Paese, e i tuoi antenati. Tu stessa hai subito una perdita molto tragica, perciò torna a casa, Alessandra. Hitler e Mussolini abbaiano furiosi alle calcagna dell’Europa, ma la loro influenza non durerà.

    Con affetto,

    tua nonna Durante, che ti ha pensata ogni giorno

    «Perciò, capisce, mia cara», aveva ricominciato la signora Browne, dopo che Alessandra ebbe finito di leggere la lettera e il testamento. «Lei non sapeva niente, ma sua nonna si è interessata profondamente alla sua vita, seguendola con attenzione. Sapere che si sarebbe occupata lei della proprietà in futuro la rendeva felice, ma c’è una piccola clausola. Se accetterà l’eredità, dovrà tornare in Italia entro un anno e assumere il cognome Durante. Se riterrà inaccettabili queste condizioni, la proprietà verrà destinata alla chiesa».

    Alessandra ricordava lo shock di quel momento. La donna che aveva diseredato la sua stessa figlia, e che era stata indifferente al suo calvario, adesso aveva lasciato Villa Durante in eredità alla nipote. C’era la clausola, naturalmente, il pungiglione nella coda: la richiesta perentoria che Alessandra rinunciasse al cognome dell’uomo che amava, a favore di quello della donna che aveva arrecato soltanto dolore alla sua famiglia.

    Sua nonna la stava manipolando dalla tomba.

    Quella notte Alessandra aveva camminato su e giù per l’angusto e misero salotto. Sua nonna le aveva offerto un’ancora di salvezza: la casa dell’album degli acquarelli sarebbe stata sua, e le preoccupazioni finanziarie sarebbero finite. Diana avrebbe avuto un nuovo inizio, ma Robert? Era felice al collegio: era un ragazzo che stava per diventare uomo. Esausta, si era accasciata sul divano e si era ricordata la mattina del suo sedicesimo compleanno: era sfrecciata giù per le scale nella loro casetta a Balham.

    «Un regalo da parte di tua nonna», aveva annunciato sua madre, con la disapprovazione dipinta in viso. Alessandra aveva strappato la carta che avvolgeva il regalo per trovarvi l’album all’interno. Ogni pagina, dipinta meticolosamente dalla nonna, illustrava un aspetto diverso della casa di pietra circondata dai boschi e dalle colline. C’erano gli interni, gli esterni, e i paesaggi incastonati sotto un cielo azzurro, privo di nuvole.

    «Quando possiamo andare in Italia?», aveva chiesto con impeto, e anche se le labbra di sua madre erano rimaste chiuse in un nodo di sdegno, Alessandra non si era arresa. «Dimmelo, per favore, ma perché non parli mai dei miei nonni? Voglio incontrarli».

    «Se vuoi, puoi andare in Italia, ma non con me». Poi l’espressione di sua madre si era addolcita, e la donna aveva accarezzato la guancia della figlia. «Mi dispiace, Alessandra, tu non sai nulla. Avevo diciotto anni, ero poco più grande di te, quando la mia bici si è forata. E fortuna ha voluto che venisse in mio soccorso un inglese, tuo padre. Forse ricordi le sue maniere, Alessandra, e il suo accento affascinante; persino il suo nome, Charles St John, era romantico. Il tempo di riparare la gomma, e mi ero già innamorata. I miei genitori non acconsentirono al nostro matrimonio», continuò. «Non soltanto tuo padre era socialmente inferiore, ma era anche protestante. Ci sposammo lo stesso, e quando terminò il suo contratto con le ferrovie italiane, venimmo in Inghilterra. E il resto lo sai. Quando tuo padre morì, scrissi a mia madre. Tu eri piccola, e io qui ero sola. Volevo riportarti in Italia, ma tua nonna non rispose mai alla mia lettera».

    Alessandra, in quel giorno lontano, era tornata al piano di sopra. Non si menzionò più l’album di acquarelli, ma ogni tanto, quando sua madre era al lavoro, lei lo tirava fuori e sognava un mondo in cui splendeva il sole, il giardino traboccava di fiori, e la casa dipinta era sua. Scrisse una breve lettera per ringraziare sua nonna. Fu l’unica lettera che le spedì.

    In quel momento, mentre i sobborghi di Londra sfumavano nel verde dei campi, Alessandra rovesciò il contenuto della cartellina sul sedile accanto a sé e lesse ancora una volta la lettera. Nonostante fosse un modo di chiederle scusa, non avrebbe mai rimediato agli anni di tristezza e infelicità che la nonna aveva inflitto a sua madre, quando l’unico crimine di Valentina Durante era stato quello di sposare suo padre. Sospirò. Erano passati tre mesi dalle rivelazioni della signora Browne, ed erano trascorsi in un turbinio di emozioni.

    Il viaggio in treno le portò da Londra a Dover, poi in traghetto fino a Calais, dove presero un altro treno. Diana dormiva, scriveva lunghe lettere al fratello o sfogliava riviste, lasciando ad Alessandra ore e ore per esaminare gli inventari e le liste di sua nonna. Più leggeva, più era sopraffatta: stava per imbarcarsi in una nuova vita in un Paese che non aveva mai visto. Stava per accettare una grossa proprietà che forse era in condizioni pietose, o forse no; stava per ricominciare da capo in una lingua che non parlava da anni. Quando la testa cominciò a ronzarle con fatti e cifre che quasi le toglievano il respiro, si distrasse scrivendo cartoline a Robert: le aveva comprate a ogni fermata lungo il tragitto. Aveva terminato di scrivere l’ultima, una fotografia in bianco e nero della Tour Eiffel, quando le venne un’idea. Estrasse il diario dalla valigia nel portabagagli sopra di lei. Non aveva più scritto da quel giorno terribile, ma avrebbe ricominciato, dedicando le sue pagine ad Anthony: ciò l’avrebbe aiutata a essere forte e positiva, e soprattutto, avrebbe tenuto in vita il suo adorato marito. Iniziò a scrivere:

    Sono seduta sul treno, tesoro mio, e Diana e io siamo in viaggio verso l’Italia, per cominciare una nuova vita. Con mio grande stupore, dopo tutti questi anni di silenzio, mia nonna Durante mi ha lasciato in eredità la sua casa e l’intera proprietà! Mi ritrovo sbalordita da un lascito da parte di qualcuno che non ho mai incontrato e che, se devo essere onesta, non ho mai voluto incontrare. Da un lato, è arrivato al momento giusto, considerato che di recente ho smesso di lavorare da Selfridges. Tuttavia, con la guerra civile in Spagna e un’Europa in preda all’incertezza, è stata una decisione difficile. Dopo mesi di discussioni e baruffe con l’ambasciata italiana per ottenere la doppia nazionalità, ho finalmente fatto questo passo. Robert ha deciso di restare alla Marchants, ed è stata una decisione ardua per tutti, non ultimo per la sua mamma! Nel mio cuore so che è la scelta giusta, ma è difficile lasciarlo in Inghilterra. Saresti stato orgoglioso della sua determinazione, ed è proprio questo che rende le cose più sopportabili. Diana ha vacillato tra l’eccitazione e la tristezza di abbandonare suo fratello. Per fortuna, tra gli esami, i preparativi e i bagagli, nonché le lezioni di italiano tenute dalla tua vecchia paziente, la deliziosa signora D’Abramo, ha avuto poco tempo per riflettere.

    Da quando ci hai lasciato, l’Inghilterra ha vissuto tanti cambiamenti. Il re Giorgio è morto, e suo figlio Edoardo, che hai sempre reputato un dongiovanni, ha abdicato al trono. Di recente ha sposato una divorziata americana. Dov’è finito, per l’amor del cielo, il suo senso del dovere?

    Di sicuro ti starai chiedendo perché tua moglie, che un tempo si vergognava di essere mezza italiana, ha scelto di trasferirsi in Italia in un momento del genere.

    Dopo che la tua cara mamma è morta, ho detto a tuo padre che il tempo guarisce tutto, ma mi sbagliavo: mi manchi così tanto; e spero davvero che questo sia un nuovo inizio.

    Ti ricorderai che sono stata un po’ sgarbata con il tuo amico Douglas Gordon: non perché balbetti, naturalmente, ma per la sua abitudine fastidiosa di svuotare la pipa sui miei mobili immacolati. Ho scoperto che è una persona molto cara. Forse gli abbiamo dato uno scopo dopo la tragica perdita di sua moglie Magdelene; forse la sua devozione a nostro figlio è il suo modo di ringraziarti per la tua amicizia. Qualunque sia la ragione, sono sicura che sto lasciando Robert in buone mani.

    Ora, la proprietà. Il signor Innocenti, che gestisce tutto, a quanto pare ha superato di gran lunga la mezza età, ma secondo i numerosi messaggi criptici che ha scritto mia nonna ai margini dell’inventario, è un uomo onesto. La proprietà è ancora strutturata secondo l’antico sistema della mezzadria. Ciò significa che il benessere dei contadini che vi abitano, del loro bestiame e delle loro terre è responsabilità mia. In cambio, metà dei proventi dei loro raccolti finisce nelle casse della proprietà. Tua moglie ora dovrà imparare tutto sugli ulivi e l’olio, sui vigneti, sulla produzione e i raccolti. Nonostante il compito sia sconfortante, quando riaffioreranno le mie vecchie insicurezze sentirò la tua voce calma che mi dirà che sarò in grado di affrontare questa sfida. Perciò, Anthony, mi sforzerò di essere una brava possidente, una proprietaria terriera di cui saresti orgoglioso.

    Con il mio amore e la mia devozione, sempre.

    A presto,

    la tua affezionata moglie, Alessandra

    Capitolo due

    Dopo le fermate di Parigi, Torino e Milano, alle sette di sera Alessandra e Diana arrivarono alla stazione di Firenze, Santa Maria Novella, che era nuova di zecca ed era stata voluta da Mussolini. Prima di allora, non avevano mai visto nulla di simile: treni scintillanti ad alta velocità accanto a locomotive a vapore; gente che affollava ogni angolo. Gli uomini con le valigette si affrettavano sotto il vasto soffitto di vetro e acciaio, mentre le donne dai vestiti sgargianti spettegolavano nei caffè, con i loro bambini che correvano liberi tra la folla. C’erano partenze e ricongiungimenti. In mezzo a tutto quel caos, al rumore e al turbinio di colori, giravano venditori ambulanti di ogni sorta. Gli strilloni urlavano i titoli dei giornali e il fumo del carbone si mischiava al profumo dei fiori. Quando Alessandra pagò due dolci alle mandorle, provò un brivido di eccitazione. La lingua che le aveva insegnato sua madre molte lune prima ritornò come un ricordo dimenticato. Non si vergognava più del suo retaggio: l’Italia era bella, e l’energia era diversa, più vibrante. Le sembrò che, dopo tutto, la decisione di lasciare l’Inghilterra si era rivelata giusta.

    Passarono la notte a Firenze in una pensione in via Luigi Alamanni, e ritornarono in stazione in tempo per il treno delle tre del pomeriggio.

    Quando entrarono nell’atrio, calò il silenzio. I bambini corsero dalle madri, le ragazze che vendevano fiori misero via la loro merce profumata. Persino gli strilloni si azzittirono quando una colonna della milizia fascista marciò sul pavimento di marmo.

    Diana si fece più vicina a sua madre. «Chi sono?», chiese con un filo di voce.

    «Poliziotti che lavorano per Mussolini», rispose Alessandra, mantenendo un tono leggero, anche se non riusciva a staccare gli occhi dalle camicie nere, né era in grado di fermare la paura che le artigliava il petto. Si ricordò le parole della signora Browne, prima di accomiatarsi da lei e Diana: «L’influenza di Mussolini non ha un impatto significativo sulla vita del Paese. Sarete al sicuro a Villa Durante».

    Ora, mentre le camicie nere marciavano in lontananza, Alessandra si augurò che le valutazioni della signora Browne fossero veritiere. Si accorse che sua figlia era sbiancata in viso, e le strizzò un braccio. «Se ne sono andati, vedi, quindi non c’è niente di cui preoccuparsi», disse sforzandosi di sembrare ottimista. «Andiamo dal capostazione, dobbiamo trovare il nostro treno».

    Il treno le condusse nella campagna toscana, superando paesini in cima alle colline e basse pianure. Le fattorie punteggiavano il paesaggio, ma più si allontanavano da Firenze, più questo pareva desolato. Due ore dopo aver lasciato la stazione di Santa Maria Novella, e quattro giorni dopo essere partite da Londra, arrivarono a Camucia, ai piedi della collina su cui si ergeva Cortona.

    Pioveva a dirotto. Passò un’altra ora prima che una corriera si fermasse di colpo fuori dalla porta della sala d’attesa. Esauste e afflitte, trascinarono le loro valigie fino alla fermata.

    «Buonasera, signora e signorina». L’autista, che sembrava un ragazzino, saltò giù e si tolse il berretto, rivelando una zazzera di capelli scuri e ribelli. Si sfilò la sigaretta dalla bocca e sputò per terra. Diana arricciò il naso e distolse lo sguardo. «Ah, il tempo! Ma è il tempo di Dio, sapete com’è, no», disse con la bocca incurvata in un sorriso generoso.

    Alessandra in quel momento non sapeva proprio nulla, e Diana non voleva sentire altro.

    Dopo avere riposto le loro valigie nel vano bagagli, l’autista si arrampicò di nuovo a bordo.

    «Ma ce l’hai l’età per guidare l’autobus?», indagò Alessandra, decisamente preoccupata.

    Seguì una pausa. «Ho ventun anni», rispose lui con un sorrisone. Ingranando furiosamente le marce, si allontanò a tutta birra, percorrendo le strade di montagna senza badare alla sicurezza dei suoi passeggeri o della corriera. Infine inchiodò, e l’autobus si fermò barcollando a Mercatale, a circa diciotto chilometri dalla stazione.

    «Non possiamo andare oltre».

    «Un taxi?», chiese Alessandra allungando la testa, ma la strada era deserta.

    «Per Sant’Andrea di Corbello, a quest’ora della sera? Dovevate arrivare qui prima». Scaricò le valigie sul bordo della strada. «Buonanotte, amiche mie, e se avrete mai bisogno di me, mi chiamo Pippo».

    «Ma non puoi lasciarci qui», lo implorò Alessandra.

    «Be’, mio nonno vi può dare un passaggio, ma è costoso. Molto costoso».

    Pippo s’incamminò lentamente verso una casetta dall’altro lato della strada. Qualche minuto dopo ritornò con suo nonno.

    Alessandra sorrise speranzosa.

    Pippo si sfregò le dita. «Molte lire», scoppiò a ridere. Il vecchio si grattò la testa, come se stesse considerando l’opzione. Poi tornò a casa, per ricomparire un po’ più tardi con un asino e un carretto.

    Alessandra fissò il vecchio carretto. «Questo è il nostro mezzo di trasporto?»

    «Non è abbastanza, per la signora? Lo dirò a mio nonno».

    Pippo si voltò verso il vecchio, ma Alessandra lo afferrò per un braccio.

    «No, non dirgli niente, va bene così, te l’assicuro». Salì a fatica sul carretto, tirando su Diana che si sedette accanto a lei.

    «Prima i soldi», fece il vecchio porgendole la mano.

    Col debito pagato e le valigie legate sul retro, partirono con gran lentezza.

    «Buonanotte». Pippo rimontò sull’autobus e strizzò l’occhio a Diana che, suo malgrado, sorrise.

    Proprio prima delle otto, il carretto con l’asino si fermò in fondo a un viale sterrato. «Non è possibile», esclamò il vecchio, togliendosi il cappello e scrollandosi di dosso le gocce di pioggia. Ora Alessandra poteva vedere il suo volto, solcato dalle rughe per i troppi anni passati al sole, ma gli occhi erano di un azzurro impressionante. Si asciugò le mani sulla giacca di pelle. «La strada è troppo bagnata, e il mio asino è troppo vecchio; non possiamo proseguire oltre». Scalciò l’acqua con il grosso stivale che indossava.

    Alessandra, che era ancora sul carretto, osservò la strada segnata da solchi profondi. L’acqua sgorgava copiosa lungo i rigagnoli, e nemmeno se si fossero avviate a piedi sarebbero riuscite a percorrere quel pendio scivoloso. Scese dalla tenda improvvisata del carretto e sbucò all’estremità di una piccola piazza: da un lato c’erano delle case strette con le persiane verde sbiadito, e dall’altro una chiesa con un portico e un campanile che si ergeva contro un’altra fila di case. Nel mezzo c’era un bar, con un’insegna di legno che annunciava la sua reputazione, proclamandosi una delle destinazioni migliori di tutta Europa. Tipicamente italiano, pensò Alessandra. Potevi ubriacarti e sprofondare nell’oblio al bar, per poi pregare per l’assoluzione nella chiesa accanto. Diana, assonnata, si spostò e diede una sbirciatina da dietro la tenda.

    «Dove siamo?», chiese.

    «Direi che siamo arrivate», rispose Alessandra.

    Il vecchio slegò le valigie dal carretto, e con un sospiro pesante le tirò su e le trascinò fino al portico della chiesa. «Le ho messe all’asciutto, perché qui è un po’ bagnato». Rimontò sul carro. «Buonanotte», annunciò a gran voce. «Spero che troviate un posto per dormire». Sollevò la mano in segno di saluto. Poi il vecchio e l’asino avanzarono faticosamente nell’oscurità.

    Alessandra si guardò intorno nella piazza deserta e si sforzò di sorridere. «Tu resta qui con le valigie, io vado al bar».

    Nel bar fiocamente illuminato c’erano un paio di tavolini e diverse sedie sparse qua e là. Un portacenere mezzo pieno e un boccale di birra vuoto erano le reliquie di un avventore recente, ma c’era solo un cagnolino che l’adocchiò cauto dalla cuccia nell’angolo. Alessandra si annunciò, poco convinta. Bussò sul bancone in legno, ma come unica risposta ricevette un’eco cupa.

    Fuori, le case silenziose, con le imposte tutte chiuse, parevano ugualmente abbandonate. Scelse un’abitazione in fondo alla fila, e bussò. Una tendina di pizzo guizzò sopra di lei, ma non arrivò nessuno. Successe lo stesso alla casa accanto.

    Si stava facendo buio, la chiesa era chiusa, e lei non aveva le chiavi della villa. Anche se avessero percorso a piedi la strada di ghiaia in salita, non sarebbero riuscite a entrare. Iniziò a tempestare di pugni l’uscio della terza casa, e indietreggiò sorpresa quando dall’ombra sbucò il viso di una donna.

    «Sì?»

    «Ci aiuterà?». La porta si aprì un po’ di più, e una donna, che a quanto giudicò Alessandra doveva avere all’incirca sessantacinque anni, la stava osservando con curiosità.

    «Ma perché siete in giro con questo brutto tempo? Cosa state facendo?». La donna si slegò il grembiule e uscì in strada.

    «Stiamo cercando Villa Durante».

    «E perché? E chi siete?»

    «Io sono la signora Durante», rispose Alessandra esitante.

    La donna si accigliò. «Niente scherzi, la signora Durante è morta e la sua famiglia vive in Inghilterra».

    Alessandra pensò in fretta. Aveva bisogno di una prova. La lettera che le aveva scritto sua nonna era in inglese, ma aveva la fotografia. Frugò nella borsa, ma non riuscì a trovarla.

    Le lacrime le trafissero gli occhi: l’aveva perduta in treno? Poi la trovò, in una tasca laterale della borsa. La porse alla donna, con le mani tremanti. La signora s’infilò una mano in tasca, in cerca degli occhiali. Strizzando gli occhi nella luce ormai morente, rigirò la foto e lesse i nomi sul retro.

    «Signora… Alessandra! L’ho vista tante volte, questa foto. Ma è proprio lei? E quest’uomo affascinante è suo marito, è possibile? Oddio!». Alzò la testa per scrutare Alessandra. «Sua nonna parlava così tanto di lei, desiderava che venisse qui, e alla fine è venuta».

    Alessandra sentì un singhiozzo levarsi in petto: la tensione degli ultimi mesi minacciava di sopraffarla.

    «Venite», fece la donna afferrandole entrambe per mano. «Venite dentro. Non c’è bisogno di piangere, signora, mi occuperò io di lei e di sua figlia; sì, la signora Carducci baderà anche a lei».

    Dieci minuti dopo, la signora mise in tavola un assortimento di salumi e formaggi. «In Italia sappiamo come si mangia, e sappiamo come si dorme. Stanotte starete nella soffitta: c’è una stanzetta, ma vi assicuro che dormirete come due regine».

    Quando finirono di mangiare, seguirono la signora Carducci sulle scale anguste che conducevano in cima alla casa. La lanterna stava ormai per spegnersi e le persiane erano chiuse, quando infine sprofondarono nel sonno.

    Capitolo tre

    La mattina seguente Alessandra aprì gli occhi e udì un cane che abbaiava in lontananza e lo scampanio della chiesa. Da qualche parte nelle vicinanze, un gallo cantava a gran voce, annunciando il nuovo giorno. Alessandra si stiracchiò, lasciandosi scivolare addosso quei rumori e, per la prima volta dopo mesi, si sentì in pace.

    Scavalcando il letto di Diana, che dormiva ancora, si affacciò alla finestra. Sotto di lei, la piazza era gremita di gente, e restava giusto qualche pozzanghera a testimoniare la pioggia della notte precedente. I bambini giocavano a campana e il cane della cuccia era steso al sole. Donne con le braccia muscolose sfregavano i panni nel lavatoio pubblico e poi li stendevano ad asciugare. La scena che si dipanava davanti ai suoi occhi era un caleidoscopio dai colori accesi e pieno di energia: persino il galletto zampettava impettito lungo il muro, arruffando le piume inzaccherate. Alessandra fece un bel respiro: la felicità della sua famiglia le era stata strappata via; ma lì, nella campagna italiana, potevano ricostruire le loro vite.

    Ripensò alla notte prima della partenza, con Diana in piedi davanti alle valigie.

    «Non possiamo partire», aveva detto sua figlia, stringendo forte Leo. «Non sarò in grado di parlare a papà quando mi troverò dall’altra parte del mondo».

    «Ma certo che potrai», aveva replicato Alessandra, dando un buffetto delicato alla fronte di sua figlia. «Lui è sempre qui dentro».

    «No, non è così. Sta andando via, sta svanendo come un sogno, e io non riesco a impedirglielo».

    Alessandra, in quel momento, avrebbe voluto abbracciare sua figlia e rassicurarla: era così piccola e indifesa.

    «Tuo padre non ti lascerà mai», le aveva detto dolcemente. «E inoltre, l’Italia non è dall’altra parte del mondo».

    Alessandra lasciò Diana dormire e seguì il profumo di caffè al piano di sotto, dove la signora Carducci stava impastando qualcosa su una lastra di marmo. Appallottolò l’impasto e si voltò verso Alessandra.

    «Un caffè?»

    «Grazie».

    «Deve mangiare», disse agitando un dito contro di lei. «È troppo magra». Versò il caffè in una tazzina bianca, poi prese una frittatina che si stava scaldando sulla stufa e gliela mise davanti. «Buon cibo italiano; è tutto ciò che le serve». Si asciugò le mani su un canovaccio e prese una lampada a cherosene, che poggiò di lato.

    Alessandra diede un’occhiata alla lampada.

    «Per questa sera, signora, ma non si preoccupi: c’è un generatore in casa. Basta premere un interruttore, e puff, si accende la luce. A parte il castello, è l’unica casa che ha l’elettricità da questa parte della montagna». Per la signora Carducci non era soltanto un miracolo, ma anche motivo di grande vanto. Alessandra ne sembrò impressionata.

    «E suo marito, quando verrà in Italia?», chiese.

    Alessandra fece un bel respiro. «Sono vedova, mio marito è morto in un incidente. Ecco perché siamo venute qui».

    «Ah», replicò la signora Carducci, e si fece il segno della croce; poi ritornò alle sue faccende.

    Alessandra stava asciugando il suo piatto quando udì del trambusto alla porta; seguì la signora Carducci nell’ingresso angusto, dove c’era un uomo basso e tarchiato a capo di un folto capannello di gente.

    «Sono la persona che gestisce la sua proprietà. Mi chiamo Elio Innocenti».

    Calò il silenzio quando Alessandra gli tese la mano. «Signora Marston, mi dispiace; Durante, volevo dire». Sorrise prima a quell’uomo, e poi a Diana che nel frattempo era scesa cautamente in punta di piedi giù dalle scale. «E questa è mia figlia, Diana». Alessandra sentì la tensione sciogliersi all’istante dalle spalle: sua nonna aveva ragione a dire che di quell’uomo ci si poteva fidare. Indossava dei pantaloni sbiaditi, tenuti su da una grossa cintura, e una camicia azzurra coi polsini consumati, ma erano vestiti indubbiamente puliti. Gli stivali di tela, segnati dalla polvere di tante estati, facevano parte di quell’uomo esattamente come il suo sorriso, che cominciava dagli occhi e si diffondeva piano sul viso, increspandolo con mille rughe.

    «Siamo contenti che siete venute qui», disse. «La casa è vuota da più di un anno ormai. Villa Durante attendeva il vostro ritorno».

    Seguirono il signor Innocenti in piazza, dove c’era un asino al sole. Sul carretto erano state impilate solo le valigie. Mentre s’inerpicavano sulla collina, sembrò che l’intero paese avesse deciso di unirsi a loro. E ogni uomo aveva un consiglio da dare ad Alessandra.

    «Bisogna potare gli ulivi e anche le vigne… c’è sempre un sacco di lavoro, ma in verità, che Dio mi sia testimone, il signor Innocenti lavora duramente, anche quando non siete qui». A quanto pareva, tutti avevano un fratello che lavorava alla proprietà, e tutti conoscevano qualcuno disposto a dare una mano. Dopo aver percorso circa ottocento metri, Elio Innocenti si fermò, e il gruppo intero imitò il suo esempio.

    «Questa è la terra dei vostri antenati», disse, spalancando le braccia. «Tutto questo vi appartiene, è parte della tenuta».

    Alessandra seguì il suo sguardo. Sotto di lei, campi, prati e foreste componevano un ricco arazzo di colori e forme, e in lontananza c’era un villaggio arroccato sul fianco della collina, con una chiesa al centro. Sentì un groppo formarsi in gola. Quello non era un semplice paesaggio, era molto di più; non solo era bello da straziarti il cuore, ma rappresentava anche il suo futuro e il passato di sua madre; un passato che la madre si era lasciata alle spalle.

    Svoltarono l’ultima curva del sentiero. Su un pianoro c’era un muro che circondava un pendio ripido. Al centro della pendenza, due pilastri di pietra sostenevano una cancellata arrugginita. Il signor Innocenti si appoggiò contro il cancello, e con una dimostrazione di grande forza lo accostò contro il muro; poi proseguì su una breve scalinata, coi gradini levigati da secoli d’uso, e infine si diresse verso la casa. All’improvviso il chiacchiericcio si zittì, e tutti restarono in silenzio.

    Alessandra alzò lo sguardo: era la casa custodita nelle memorie d’infanzia, la casa nell’album degli acquarelli. Alle finestre c’erano ancora le persiane, e sotto il legno grigio-argento erano visibili le tracce della vernice verde. C’era anche la loggia, con il glicine che si avvinghiava in modo disordinato agli archi, ricoprendoli, ed era tutto quel che ricordava dagli acquarelli. La fontana era priva di acqua adesso, sbeccata e inclinata come se fosse ubriaca, ma alla massiccia porta d’ingresso c’erano lo stesso cherubino e lo stesso cane di pietra. Si avvicinò alla porta e stava per abbassare la maniglia quando arrivò la signora Carducci salendo i gradini dietro di loro.

    «Ho la chiave. Abbiamo sempre saputo che un giorno sarebbe ritornato un Durante».

    La chiave girò facilmente nella toppa e tutti si fecero indietro. La signora Carducci spalancò la porta e Alessandra varcò la soglia, ma prima ancora di vedere l’interno sentì la frescura nell’aria e anche l’umidità di una casa abbandonata.

    Lentamente, i suoi occhi si abituarono al buio e lei scrutò la stanza, lunga e rettangolare, piena di mobili. Ai muri erano appesi quadri e specchi dalle cornici dorate, ormai sbiadite. Quando la signora Carducci aprì le persiane, la luce del sole si riversò dentro, trasformando la polvere in un turbinio roteante, e attenuò il rosso deciso delle mattonelle in terracotta, che ora parevano di un rosa delicato. Dal soffitto pendeva un lampadario, e delle candele bruciate restavano solo i moccoli; il cristallo opaco era imbrattato di cera. Alessandra levò i copridivani impolverati da due sofà che stavano ai lati di un caminetto in pietra; poi accarezzò una poltrona dallo schienale dritto e dal sedile in tessuto, e riuscì a vedere la stanza, non com’era adesso, ma come sarebbe stata un giorno, in futuro.

    «Grazie per essersi occupata della casa», disse.

    «Non è niente», replicò la donna più anziana. «Adesso, possiamo lasciare le finestre aperte e il signor Innocenti farà come gli dico io e riparerà i buchi nel tetto». La signora Carducci fissò l’uomo con un’espressione d’accusa, e lui scrollò le spalle e s’incamminò nella sala.

    «Ecco», indicò i secchi piazzati strategicamente per terra e puntò il dito contro il signor Innocenti. «Tocca a te».

    Il signor Innocenti allargò le braccia per mostrare che era consapevole del problema.

    «È vero», disse. «Ma la casa vi accoglierà, così come vi abbiamo accolto noi. Ripareremo il tetto, e se il generatore non funziona, lo aggiusteremo prima che faccia buio. Il bagno», sorrise, «anche questo è un piccolo problema, ma c’è un capanno in giardino, un buon capanno, anche se è un po’ incolto. Dario sta già tagliando le erbacce». Quando Alessandra lo guardò preoccupata, lui la rassicurò con la sua voce lenta e musicale. «Questa adesso è la vostra nuova casa. L’unico posto in cui starete. Vedo che siete entrambe in salute, e questo è il dono più importante nella vita».

    Ad Alessandra piacque il suo ottimismo: aveva ragione, col tempo si poteva aggiustare tutto.

    Mentre gli uomini tagliavano la legna per il fuoco, Diana corse sull’ampia scalinata. Si era tolta il cappotto invernale, e adesso indossava un leggero abito a fiori con la gonna ampia, e i capelli, liberati dalla fascia, erano una massa di ricci scuri e ribelli. Mentre sua madre, sul pianerottolo, ispezionava i due armadi a specchio a una sola anta, colmi di biancheria, Diana correva da una stanza all’altra spalancando porte e finestre, ridendo per l’eccitazione. Quando giunse in una stanza con i mobili color panna, provò uno strano desiderio. Forse erano i muri giallo pallido che le ricordavano la sua camera di Upper Brook Street. Forse era un antenato dimenticato che l’attirava come una calamita. Si sedette allo scrittoio e aprì i cassetti, che erano pieni di disegni e lettere, come se una ragazzina del passato se ne fosse andata appena qualche momento prima. Alzò lo sguardo quando entrò sua madre.

    «Può diventare la mia stanza?», chiese.

    «E perché no?», concordò Alessandra.

    Quando sua madre se ne fu andata, Diana continuò a esplorare. Nell’armadio erano appesi alle grucce, in file ordinate, abiti di un’epoca diversa, e in uno scaffale a terra c’erano diverse paia di scarpe. Una borsetta piena di bigiotteria era appesa alla porta. Quando alzò i gingilli alla luce, le venne in mente il ciondolo di cristallo che Robert le aveva regalato per Natale.

    «Papà voleva comprartelo», le aveva detto il fratello, mentre lei scartava il cuore di cristallo che pendeva da una catenina delicata, «ma non ne ha avuto la possibilità, così te l’ho preso io». L’umore di Diana cambiò all’istante. Si accasciò per terra, e lasciò scorrere le lacrime. Robert le mancava profondamente, e anche suo padre. Si

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