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I peccati del padre
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I peccati del padre
E-book442 pagine8 ore

I peccati del padre

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Info su questo ebook

Il destino di una famiglia
nelle mani di un solo uomo...

New York 1939.
Appena sbarcato in America, Tom Bradshaw viene arrestato per omicidio di primo grado. Così, quando Sefton Jelks, un affermato avvocato di Manhattan, gli offre gratuitamente i propri servigi e gli garantisce che riuscirà a fargli avere uno sconto sulla pena, lo squattrinato giovane non può fare altro che accettare. Le cose però non vanno affatto come sperava: all'indomani del processo, in cui viene dichiarato colpevole e condannato a sei anni di galera, l'avvocato sparisce e Tom si rende conto che l'unico modo per provare la propria innocenza è rivelare chi è davvero, anche se per proteggere la donna che ama ha giurato che non lo avrebbe mai fatto.
Nel frattempo Emma Barrington arriva a New York, decisa a tutto pur di ritrovare l'uomo che avrebbe dovuto sposare benché le abbiano detto che è morto in mare. L'unica prova su cui si fondano le sue certezze è una lettera. Una lettera spedita più di un anno prima, che è rimasta dimenticata sulla mensola di un caminetto a Bristol...

Tra oscuri segreti, scandali, drammi familiari e avventure emozionanti,il secondo volume della Saga dei Clifton si sposta dai sobborghi di Bristol ai grattacieli di New York e ai campi di battaglia della Seconda guerra mondiale, in un crescendo di tensione e colpi di scena.

LinguaItaliano
Data di uscita27 set 2018
ISBN9788858994535
I peccati del padre
Autore

Jeffrey Archer

Barone Archer di Weston-super-Mare, è nato in Inghilterra nel 1940 e si è laureato a Oxford. È stato candidato sindaco di Londra, membro del Parlamento europeo, e deputato alla Camera dei Lord per venticinque anni. Scrittore e drammaturgo, autore di romanzi, raccolte di racconti, opere teatrali e saggi, con i suoi libri è regolarmente ai vertici delle classifiche in tutto il mondo. È sposato da oltre cinquant’anni con una compagna di università, ha due figli e vive tra Londra, Cambridge e Maiorca. Con HarperCollins ha pubblicato i sette volumi della Saga dei Clifton, Chi nulla rischia e Nascosto in bella vista della nuova serie Le indagini di William Warwick, e la trilogia  dedicata alle famiglie Kane e Rosnovsky, di cui Non fu mai gloria è il volume conclusivo.

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    Anteprima del libro

    I peccati del padre - Jeffrey Archer

    HARRY CLIFTON

    1939-1941

    1

    «Mi chiamo Harry Clifton.»

    «Come no, e io sono Babe Ruth» disse il detective Kolowski, accendendosi una sigaretta.

    «No» disse Harry. «C’è stato un terribile sbaglio. Io sono Harry Clifton, un cittadino inglese di Bristol. Ho servito a bordo della stessa nave di Tom Bradshaw.»

    «Risparmi il fiato per il suo avvocato» disse il detective, espirando con forza e saturando di una nube di fumo la piccola cella.

    «Non ce l’ho un avvocato» protestò Harry.

    «Se io mi trovassi nei guai in cui si trova lei, ragazzo mio, riterrei la presenza di Sefton Jelks al mio fianco la mia unica speranza.»

    «Chi è Sefton Jelks?»

    «Magari non ha mai sentito parlare dell’avvocato più in gamba di New York» disse il detective, soffiando fuori un altro pennacchio di fumo, «ma ha un appuntamento con lei alle nove di domattina, e Jelks non abbandona mai il suo ufficio se il suo onorario non è stato pagato in anticipo.»

    «Ma…» fece per dire Harry, mentre Kolowski batteva il palmo di una mano contro la porta della cella.

    «Per cui, quando domattina si presenterà Jelks» seguitò Kolowski, ignorando l’interruzione di Harry, «sarà meglio che lei tiri fuori una storia più convincente del fatto che abbiamo arrestato l’uomo sbagliato. Ha detto al funzionario dell’immigrazione che era Tom Bradshaw e, se la cosa è stata bene a lui, starà bene anche al giudice.»

    La porta della cella si spalancò, ma non prima che il detective avesse soffiato fuori l’ennesimo pennacchio di fumo che fece tossire Harry. Kolowski uscì nel corridoio senza aggiungere una sola parola e si sbatté la porta alle spalle. Harry si abbandonò su una branda fissata al muro e posò la testa su un cuscino duro come un mattone. Puntò lo sguardo verso il soffitto e iniziò a pensare a come avesse fatto a finire in una cella di polizia, all’altro capo del mondo, accusato d’omicidio.

    La porta si aprì ben prima che la luce del mattino filtrasse all’interno della cella attraverso le sbarre della finestra. Malgrado fosse molto presto, Harry era già sveglio.

    Un secondino entrò con un vassoio di cibo che l’Esercito della Salvezza forse avrebbe potuto offrire a un vagabondo senza un soldo in tasca. Sistemato il vassoio sul tavolino di legno, se ne andò senza dire una parola.

    Harry diede un’occhiata al cibo prima di mettersi a fare avanti e indietro nella cella. Passo dopo passo, crebbe in lui la convinzione che, una volta spiegato al signor Jelks il motivo per cui aveva assunto il nome di Tom Bradshaw, la faccenda si sarebbe prontamente risolta. Di certo, espellerlo dal paese sarebbe stata la pena peggiore che avrebbero potuto comminargli e, considerato aveva sempre avuto intenzione di tornare in Inghilterra ed entrare in Marina, tutto rientrava nel suo piano originale.

    Alle 8.55 del mattino, Harry era seduto in fondo alla branda e non vedeva l’ora che apparisse il signor Jelks. L’enorme porta di ferro si spalancò solo alle 9.12. Harry scattò in piedi nel momento in cui una guardia carceraria si fece da parte per far entrare un uomo alto ed elegante, dai capelli grigio-argento, e pensò che dovesse avere la stessa età di suo nonno. Il signor Jelks indossava un gessato doppiopetto blu, una camicia bianca e una cravatta regimental. L’aria annoiata lasciava intendere che difficilmente qualcosa riusciva a sorprenderlo.

    «Buongiorno» disse, rivolgendogli un timido sorriso. «Mi chiamo Sefton Jelks. Sono il socio anziano dello studio Jelks, Myers & Abernathy e due miei clienti, il signore e la signora Bradshaw, mi hanno chiesto di rappresentarla in vista del suo imminente processo.»

    Harry offrì a Jelks l’unica sedia della sua cella, come se fosse stato un vecchio amico passato dal suo studio di Oxford per una tazza di tè. Si appollaiò sulla branda e osservò l’avvocato aprire la ventiquattrore, estrarre un taccuino giallo e posarlo sul tavolo.

    Jelks tirò fuori una penna da una tasca interna e disse: «Forse, è il caso che lei cominci col dirmi chi è, dato che sappiamo entrambi che non è il tenente Bradshaw».

    Se l’avvocato fu sorpreso dal racconto di Harry, non lo diede a vedere minimamente. Mantenendo il capo chino, annotò un sacco di cose sul taccuino giallo mentre Harry spiegava come aveva finito per passare la notte in prigione. Una volta terminato, Harry ipotizzò di essersi lasciato tutti i suoi problemi alle spalle, dato che aveva al suo fianco un avvocato tanto esperto. E così fu, finché non udì la prima domanda di Jelks.

    «Dice di aver scritto una lettera a sua madre mentre si trovava a bordo della Kansas Star per spiegare come mai aveva assunto l’identità di Tom Bradshaw?»

    «È esatto, signore. Non volevo che mia madre soffrisse senza motivo ma, allo stesso tempo, era necessario che capisse come mai avevo preso una decisione così drastica.»

    «Sì, posso intuire perché lei abbia pensato che un cambiamento di identità avrebbe risolto tutti i suoi problemi più impellenti, senza rendersi conto che ciò avrebbe potuto farla finire in una serie di guai ben peggiori» disse Jelks. La sua domanda successiva sorprese ancor più Harry. «Ricorda il contenuto di quella lettera?»

    «Certamente. L’ho scritta e riscritta tante di quelle volte che potrei riprodurla quasi parola per parola.»

    «In tal caso, mi consenta di mettere alla prova la sua memoria» disse Jelks e, senza aggiungere una sola parola, strappò un foglietto dal taccuino giallo e lo porse a Harry insieme a una penna stilografica.

    Mamma carissima,

    ho fatto tutto il possibile per assicurarmi che tu ricevessi questa lettera prima che qualcuno ti dicesse che ero morto in mare. Come dimostra la data, non sono perito quando la Devonian è colata a picco, il 4 settembre. Infatti, un marinaio di una nave americana mi ha ripescato dalle acque e, grazie a lui, sono vivo e vegeto. Tuttavia, mi si è presentata l’opportunità inattesa di assumere l’identità di un altro uomo e l’ho fatto di buon grado, nella speranza di alleggerire Emma di tutti i problemi che sembra io abbia, mio malgrado, causato a lei e alla sua famiglia nel corso degli anni.

    È importante che tu capisca che il mio amore per Emma non è minimamente venuto meno. Al contrario. Non credo proprio di poter mai più provare un amore simile. Ma non penso di avere il diritto di aspettarmi che lei passi il resto della sua vita aggrappandosi alla vana speranza che un giorno io possa dimostrare che Hugo Barrington non è mio padre e che io, in realtà, sono il figlio di Arthur Clifton. In questo modo, perlomeno, potrà contemplare un futuro con qualcun altro. Invidio quell’uomo.

    È mia intenzione fare ritorno in Inghilterra con la prima nave disponibile. Dunque, se tu dovessi ricevere qualche comunicazione da un certo Tom Bradshaw, puoi desumere che sia io. Mi metterò in contatto con te non appena sbarcato a Bristol. Nel frattempo, però, devo supplicarti di mantenere il mio segreto con la stessa determinazione con cui hai mantenuto il tuo per tanti anni.

    Il tuo affezionato figlio,

    Harry

    Dopo che Jelks ebbe finito di leggere la lettera, colse nuovamente di sorpresa Harry con un’altra domanda. «La lettera l’ha spedita lei, di persona, signor Clifton» chiese, «oppure ha affidato l’incarico a qualcun altro?»

    Per la prima volta, Harry ebbe qualche sospetto e decise di non dire che aveva chiesto al dottor Wallace di recapitare la lettera a sua madre al suo ritorno a Bristol, di lì a due settimane. Temeva che Jelks potesse convincere il dottor Wallace a consegnargli la lettera e che, così facendo, sua madre non avesse modo di sapere che era ancora vivo.

    «Ho spedito la lettera quando sono sbarcato» disse.

    L’anziano avvocato se la prese comoda prima di riprendere. «Ha qualche prova del fatto che lei è Harry Clifton e non Thomas Bradshaw?»

    «No, signore» disse Harry, senza esitazione, dolorosamente conscio del fatto che nessuno a bordo della Kansas Star aveva il minimo motivo per ritenere che lui non fosse Tom Bradshaw e che le uniche persone in grado di verificare la sua storia si trovassero sul lato opposto dell’oceano, a circa cinquemila chilometri di distanza, e che sarebbe passato molto tempo prima che venissero tutte a sapere che Harry Clifton era perito in mare.

    «In tal caso, forse posso aiutarla, signor Clifton. Sempre ipotizzando che lei continui a desiderare che la signorina Emma Barrington la ritenga morto. In tal caso» disse Jelks, con un sorriso insincero, «forse sono in grado di offrire una soluzione al suo problema.»

    «Una soluzione?» disse Harry, mostrandosi speranzoso per la prima volta.

    «Ma solo se si ritiene in grado di continuare a recitare il ruolo di Thomas Bradshaw.»

    Harry rimase in silenzio.

    «L’ufficio del procuratore distrettuale riconosce che l’imputazione ai danni di Bradshaw è quanto meno circostanziale e che l’unica prova reale a cui si stanno aggrappando è il suo allontanamento dal paese nel giorno successivo a quello dell’omicidio. Consapevoli di quanto il loro caso sia debole, hanno accettato di lasciar cadere l’accusa a patto che lei si dichiari colpevole dell’imputazione meno grave di diserzione dalle forze armate.»

    «Ma perché dovrei accettare una cosa del genere?» chiese Harry.

    «Mi vengono in mente tre buone ragioni» ribatté Jelks. «Prima di tutto, se non lo fa, è probabile che finirà per trascorrere sei anni in prigione per essere entrato negli Stati Uniti con l’inganno. In secondo luogo, manterrebbe l’anonimato e, dunque, la famiglia Barrington non avrebbe motivo di continuare a ritenerla in vita. E, in terzo luogo, i Bradshaw sono disposti a versarle diecimila dollari se accetterà di prendere il posto del loro figlio.»

    Harry capì immediatamente che ciò gli avrebbe dato l’opportunità di ripagare sua madre per tutti i sacrifici che aveva fatto per lui nel corso degli anni. Una somma così ingente le avrebbe cambiato la vita, dandole la possibilità di fuggire dalla casetta a due piani – due stanze per piano – di Still House Lane, oltre che dalla visita settimanale dell’esattore dell’affitto. Forse, addirittura, avrebbe potuto prendere in considerazione l’ipotesi di abbandonare il suo posto di cameriera al Grand Hotel e di iniziare a condurre una vita più agiata, anche se Harry lo riteneva improbabile. Ma, prima di accettare i piani di Jelks, anche lui aveva qualche domanda da fare.

    «Perché mai i Bradshaw dovrebbero portare avanti un inganno simile pur sapendo che loro figlio è morto in mare?»

    «La signora Bradshaw desidera disperatamente che il nome di Thomas non venga sporcato dalla minima macchia. Non accetterà mai che uno dei suoi figli possa aver ucciso l’altro.»

    «Dunque, è di questo che Tom è accusato? Di aver assassinato il fratello?»

    «Sì, ma come ho detto, le prove sono deboli e circostanziali e, di certo, non reggerebbero in tribunale, il che spiega come mai l’ufficio del procuratore distrettuale sia pronto a lasciar cadere l’accusa, ma solo a patto che accettiamo di dichiararci colpevoli dell’imputazione meno grave di diserzione.»

    «E se io accettassi, a quanto ammonterebbe la mia condanna?»

    «Il procuratore distrettuale è disposto a raccomandare al giudice di condannarla a un anno e, dunque, con la buona condotta, lei potrebbe essere libero nel giro di sei mesi, un netto vantaggio rispetto ai sei anni che si può attendere se continuerà a dichiarare di essere Harry Clifton.»

    «Però, nell’istante in cui metterò piede in quel tribunale, di certo qualcuno capirà che non sono Bradshaw.»

    «Improbabile» disse Jelks. «I Bradshaw vengono da Seattle, sulla Costa occidentale, e per quanto siano molto abbienti, raramente passano da New York. Thomas è entrato in Marina a diciassette anni e, come lei ha scoperto a sue spese, non mette piede in America da quattro anni. Se lei si dichiara colpevole, resterà in quella corte solo una ventina di minuti.»

    «Ma appena aprirò bocca, non capiranno tutti che non sono americano?»

    «È per questo che lei non aprirà bocca, signor Clifton.» Il cortese avvocato sembrava avere una risposta per tutto. Harry optò per una tattica diversa.

    «In Inghilterra, i processi per omicidio attirano sempre molti giornalisti e il pubblico fa la coda davanti al tribunale fin dalle prime ore del mattino, nella speranza di vedere l’imputato anche solo di sfuggita.»

    «Signor Clifton, attualmente a New York si stanno svolgendo quattordici processi per omicidio, compreso quello del famigerato assassino delle forbici. Dubito che a questo caso venga assegnato anche solo un cronista alle prime armi.»

    «Ho bisogno di un po’ di tempo per pensarci.»

    Jelks diede un’occhiata al suo orologio. «Siamo attesi davanti al giudice a mezzogiorno, pertanto ha poco più di un’ora per schiarirsi le idee, signor Clifton.» Chiamò una guardia per farsi aprire la porta della cella. «Se dovesse decidere di non avvalersi dei miei servizi, le auguro buona fortuna, perché non ci incontreremo più» aggiunse, prima di uscire dalla cella.

    Harry si sedette in fondo alla branda, soppesando l’offerta di Jelks. Per quanto non dubitasse che il legale dalla chioma argentea avesse i propri interessi, sei mesi gli sembravano decisamente meno indigesti che sei anni, e a chi altri si sarebbe potuto rivolgere se non a quell’avvocato esperto? Rimpianse di non potersi presentare nell’ufficio di Sir Walter Barrington per un rapido consulto.

    Un’ora dopo, Harry, con un abito blu scuro, una camicia color crema dal colletto inamidato e una cravatta regimental, venne ammanettato, condotto dalla sua cella a un automezzo carcerario e portato in tribunale sotto scorta armata.

    «Nessuno deve crederla in grado di commettere un omicidio» aveva dichiarato Jelks dopo che un sarto si era presentato nella cella di Harry con mezza dozzina di abiti, camicie e svariate cravatte tra cui scegliere.

    «Infatti non lo sono» gli aveva ricordato Harry.

    Si ricongiunse con Jelks nel corridoio. L’avvocato gli rivolse il solito sorriso, prima di varcare le porte dell’aula e di percorrere la corsia centrale, senza fermarsi finché non ebbe raggiunto le due sedie vuote al tavolo del collegio difensivo.

    Una volta che si fu accomodato al suo posto e gli furono tolte le manette, Harry si guardò intorno nell’aula semivuota. Jelks ci aveva visto giusto: poche persone, e di certo nessun esponente della stampa, sembravano interessate al caso. Per loro doveva trattarsi dell’ennesimo omicidio tra le mura domestiche in cui, con ogni probabilità, l’imputato sarebbe stato prosciolto. Niente titoli della serie Caino e Abele, dato che nell’aula quattro non c’era la minima prospettiva di una sedia elettrica.

    Quando il primo rintocco annunciò il mezzogiorno, una porta sul lato opposto dell’aula si aprì e apparve il giudice Atkins. Attraversò lentamente l’aula, salì i gradini e prese posto dietro una scrivania sulla predella rialzata. Dopodiché, rivolse un cenno al procuratore distrettuale, come se sapesse esattamente cosa stava per dire.

    Un giovane avvocato si alzò dal banco del procuratore e spiegò che lo Stato avrebbe lasciato cadere l’accusa di omicidio, ma che avrebbe perseguito Thomas Bradshaw per diserzione dalla Marina degli Stati Uniti. Il giudice annuì e rivolse l’attenzione al signor Jelks, che si alzò in piedi con tempismo perfetto.

    «E come si dichiara il suo cliente a proposito della seconda accusa, quella di diserzione?»

    «Colpevole» disse Jelks. «Spero, Vostro onore, che in questa occasione lei si mostrerà indulgente verso il mio cliente, dato che non serve che io le ricordi, signore, che si tratta del suo primo reato e che, prima di questo insolito inciampo, la sua fedina era immacolata.»

    Il giudice Atkins si accigliò. «Signor Jelks» replicò, «si potrebbe obiettare che un ufficiale che abbandoni il proprio posto mentre serve la patria commetta un crimine orribile tanto quanto l’omicidio. Sono certo di non doverle rammentare che, fino a poco tempo fa, un simile reato avrebbe fatto finire il suo cliente di fronte a un plotone d’esecuzione.»

    Harry avvertì un conato di nausea mentre alzava lo sguardo verso Jelks, che non staccò gli occhi dal giudice.

    «Pertanto» continuò Atkins, «condanno il tenente Thomas Bradshaw a sei anni di carcere.» Picchiò il martelletto e, prima che Harry avesse la minima possibilità di protestare, disse: «Il prossimo caso».

    «Mi aveva assicurato…» fece per dire Harry, ma Jelks aveva già dato le spalle al suo ex cliente e si stava allontanando. Harry stava per rincorrerlo, quando le due guardie lo afferrarono per le braccia, gliele strinsero dietro la schiena e ammanettarono rapidamente il condannato, prima di fargli attraversare l’aula del tribunale verso una porta che prima non aveva notato.

    Quando si girò, Harry vide Sefton Jelks stringere la mano a un uomo di mezza età che si stava chiaramente congratulando con lui per il buon lavoro svolto. Dove aveva già visto quella faccia? E in quel momento capì: doveva essere il padre di Tom Bradshaw.

    2

    Harry venne condotto con modi bruschi attraverso un corridoio lungo e poco illuminato e, da lì, in un cortile spoglio, dopo aver varcato una porta anonima.

    Al centro del cortile si trovava un autobus giallo privo di numeri o di altro che potesse indicarne la destinazione. Accanto alla portiera si trovava un controllore muscoloso che imbracciava un fucile e che, con un cenno, indicò a Harry di salire a bordo. Le guardie che lo accompagnavano lo aiutarono, nel caso stesse per avere qualche ripensamento.

    Harry si sedette e puntò mestamente lo sguardo fuori dal finestrino; qualche prigioniero in fila veniva fatto salire sull’autobus, alcuni a capo chino, mentre altri, che quel percorso lo avevano già fatto in precedenza, mostravano un atteggiamento tra il borioso e il vivace. Ipotizzò che non sarebbe passato tanto tempo prima che l’autobus partisse per la sua destinazione, ma stava per imparare la sua prima dolorosa lezione da prigioniero: una volta condannato, nessuno ha la minima fretta.

    Harry valutò se chiedere a una guardia dove stessero andando, ma nessuna di esse aveva l’aria di essere una guida turistica servizievole. Angosciato, si voltò quando qualcuno si abbandonò sul sedile accanto al suo. Non voleva fissare il suo nuovo compagno, ma siccome l’uomo si presentò immediatamente, lo studiò con maggiore attenzione.

    «Piacere, Pat Quinn» gli disse, con un lieve accento irlandese.

    «Tom Bradshaw» rispose Harry, che gli avrebbe stretto la mano se non fossero stati entrambi in manette.

    Quinn non aveva l’aria del criminale. I suoi piedi arrivavano appena al pavimento, dunque doveva essere alto circa un metro e mezzo e, mentre buona parte degli altri prigionieri sull’autobus erano ipermuscolosi o semplicemente sovrappeso, Quinn lasciava intendere che una folata di vento potesse spazzarlo via. I radi capelli rossi iniziavano a ingrigire, anche se non poteva avere un giorno più di quarant’anni.

    «È la prima volta che finisci dentro?» disse Quinn, con disinvoltura.

    «È così evidente?» chiese Harry.

    «Ce l’hai scritto in faccia.»

    «Cos’è che ho scritto in faccia?»

    «Che non hai la più pallida idea di ciò che accadrà adesso.»

    «Dunque, è evidente che non è la prima volta che tu finisci dentro…»

    «È l’undicesima volta che mi trovo su quest’autobus. Forse la dodicesima.»

    Harry rise come non accadeva da diversi giorni.

    «Per cosa sei finito dentro?» chiese Quinn.

    «Diserzione» rispose Harry, senza entrare nei dettagli.

    «Mai sentita una cosa del genere» disse Quinn. «La mia diserzione è stata abbandonare tre mogli, ma non mi hanno mai schiaffato in gattabuia per averlo fatto.»

    «Io non ho abbandonato una moglie» disse Harry, pensando a Emma. «La mia diserzione è stata abbandonare la Royal Navy… intendo dire la Marina.»

    «E quanto ti hanno dato?»

    «Sei anni.»

    Quinn emise un fischio tra i due denti che gli restavano. «Una condanna severa, direi. Chi era il giudice?»

    «Atkins» disse Harry, con trasporto.

    «Arnie Atkins? Hai beccato il giudice sbagliato. Se dovesse mai capitarti nuovamente di essere sotto processo, accertati di sceglierti il giudice giusto.»

    «Non sapevo che si potesse scegliere il giudice.»

    «Non si può» disse Quinn, «però c’è modo di evitare i peggiori.» Harry guardò il compagno con maggiore attenzione, ma non lo interruppe. «In questo circuito giudiziario operano sette giudici e ce ne sono due da evitare a tutti i costi. Uno è Arnie Atkins. Gli fa difetto il senso dell’umorismo, mentre non è mai a corto di condanne lunghe da comminare.»

    «Ma come avrei potuto evitarlo?» chiese Harry.

    «Atkins presiede la corte numero quattro da undici anni, per cui, se per caso è lì che io sono destinato, mi viene una crisi epilettica e le guardie mi portano dal medico del tribunale.»

    «Sei epilettico?»

    «No» disse Quinn, «non sei attento.» Aveva un tono esasperato e Harry smise di parlare. «Quando fingo di essermi ripreso, il mio caso è stato senz’altro allocato presso un’altra corte.»

    Harry rise per la seconda volta. «E la fai franca?»

    «No, non sempre. Però, se finisco nelle mani di un paio di guardie alle prime armi, ho qualche chance, anche se ripetere lo stesso numero varie volte si sta facendo sempre più difficile. Stavolta non mi sono nemmeno dovuto impegnare, perché sono stato accompagnato direttamente alla corte numero due, territorio del giudice Regan. È irlandese – come me, nel caso non te ne fossi accorto – e, dunque, è più propenso a infliggere una condanna minima a un compatriota.»

    «E quale era la tua imputazione?» chiese Harry.

    «Sono un borsaiolo» annunciò Quinn, come se fosse stato un architetto o un dottore. «La mia specialità sono le riunioni ippiche d’estate e gli incontri di pugilato d’inverno. È sempre più facile, quando i miei polli sono in piedi» spiegò. «Ma, ultimamente, la mia fortuna si è esaurita perché sono troppi gli steward che mi riconoscono e, dunque, mi sono dovuto dare da fare in metropolitana e presso le stazioni degli autobus, dove il bottino è scarso ed è più facile farsi beccare.»

    Harry aveva davvero tante cose da chiedere al suo nuovo tutor e, come uno studente entusiasta, si concentrò sulle domande che gli avrebbero dato una mano a superare l’esame di ammissione, alquanto soddisfatto che Quinn non avesse messo in dubbio il suo accento.

    «Sai dove stiamo andando?» chiese.

    «Lavenham oppure Pierpoint» disse Quinn. «Dipende tutto dall’uscita della statale che imbocchiamo: la dodici o la quattordici.»

    «Sei già stato in uno dei due?»

    «In entrambi, diverse volte» disse Quinn, in tono prosaico. «E, prima che tu me lo chieda, se ci fosse una guida turistica per le prigioni, Lavenham si meriterebbe una stella e Pierpoint verrebbe chiusa.»

    «Perché non chiediamo alla guardia in quale delle due stiamo andando?» disse Harry, che era stanco di restare sui carboni ardenti.

    «Perché ci direbbe quella sbagliata, giusto per farci incazzare. Se è Lavenham, l’unica cosa di cui tu ti debba preoccupare è il blocco in cui ti metteranno. Dato che per te è la prima volta in carcere, è probabile che tu finisca nel blocco A, dove la vita è più facile. I recidivi come me, in genere, li mandano al blocco D, dove non c’è nessuno che abbia meno di trent’anni di età e nessuno che abbia commesso reati violenti, dunque il posto ideale in cui stare calmo e scontare la tua pena. Cerca di evitare i blocchi B e C: sono zeppi di tossicomani e di malati di mente.»

    «Cosa devo fare per essere certo di finire nel blocco A?»

    «Racconta all’agente addetto all’accoglienza che sei un cristiano devoto, che non fumi e non bevi.»

    «Non pensavo che in prigione fosse consentito bere» disse Harry.

    «Non lo è, stupido idiota» disse Quinn, «ma se sei in grado di cacciare qualche verdone» aggiunse, sfregando un pollice sul polpastrello del dito indice, «le guardie si trasformano in baristi all’istante. Nemmeno il proibizionismo ha fatto da deterrente.»

    «Qual è la cosa più importante a cui prestare attenzione nel mio primo giorno?»

    «Assicurati di ottenere l’impiego giusto.»

    «Che scelta c’è?»

    «Pulizie, cucina, ospedale, lavanderia, biblioteca, giardinaggio e la cappella.»

    «Cosa devo fare per finire in biblioteca?»

    «Comunica che sai leggere.»

    «Tu cosa dirai a quella gente?» chiese Harry.

    «Che ho studiato da chef.»

    «Dev’essere stato interessante.»

    «Non ci sei ancora arrivato, vero?» disse Quinn. «Non ho mai studiato da chef, ma significa che starò sempre in cucina, il miglior lavoro che possa esserci in qualsiasi carcere.»

    «E perché?»

    «Ti lasciano uscire dalla cella prima della colazione e non ci torni fin dopo la cena. Fa caldo e hai il cibo migliore. Ah… si va a Lavenham» disse Quinn, non appena l’autobus ebbe imboccato l’uscita dodici della statale. «Bene, perché ora non sarò costretto a rispondere a domande sciocche su Pierpoint.»

    «C’è qualcos’altro che devo sapere su Lavenham?» chiese Harry, per nulla infastidito dal sarcasmo di Quinn, dato che aveva il sospetto che il carcerato veterano se la stesse godendo a impartire una bella lezione a uno scolaretto così volenteroso.

    «Troppe cose per dirtele tutte» disse, con un sospiro. «Ricordati solo di starmi vicino una volta che ci saremo registrati.»

    «Ma non ti spediranno direttamente al blocco D?»

    «Non se il signor Mason è in servizio» disse Quinn, senza ulteriori spiegazioni.

    Harry riuscì a fargli parecchie altre domande prima che l’autobus si fermasse davanti alla prigione. In effetti, era convinto di aver imparato più cose da Harry in un paio d’ore di quante fosse riuscito ad apprenderne in una dozzina di seminari a Oxford.

    «Stammi vicino» ripeté Quinn nel momento in cui l’enorme cancello si aprì. L’autobus avanzò lentamente e raggiunse una macchia desolata di vegetazione che non aveva mai conosciuto un giardiniere. Si fermò di fronte a un ampio edificio di mattoni, dotato di diverse file di finestrelle lerce dalle quali gli occhi di alcune persone li stavano fissando.

    Harry osservò una decina di guardie creare un corridoio verso l’ingresso della prigione. Due armate di fucile si piazzarono su entrambi i lati della portiera dell’autobus.

    «Allontanatevi dall’autobus due alla volta» annunciò con voce aspra una delle guardie, «a intervalli di cinque minuti una coppia dall’altra. Nessuno si muova di un centimetro se non sono io a dirlo.»

    Harry e Quinn rimasero sull’autobus per un’altra ora. Quando finalmente furono fatti scendere, Harry alzò gli occhi verso gli alti muri sormontati da filo spinato che cingevano la prigione e pensò che nemmeno il detentore del record del mondo di salto con l’asta sarebbe riuscito a evadere da Lavenham.

    Seguì Quinn all’interno dell’edificio, dove si fermarono di fronte a un agente seduto a un tavolo. L’uomo indossava una divisa azzurra luccicante e vissuta, ma i bottoni non brillavano. Aveva l’aria di uno che avesse già scontato un ergastolo mentre studiava la lista di nomi sul suo portablocco. Sorrise quando vide il prigioniero successivo.

    «Bentornato, Quinn» disse. «Non troverai granché di diverso rispetto all’ultima volta che sei stato qui.»

    Quinn sogghignò. «Anche per me è un piacere vederla, signor Mason. Forse, mi vorrà usare la gentilezza di chiedere a un fattorino di portare la mia valigia nella solita camera.»

    «Non sfidare la sorte, Quinn» disse Mason, «perché potrei avere la tentazione di raccontare al nuovo dottore che non sei epilettico.»

    «Ma signor Mason, ho un certificato medico che lo attesta.»

    «Stessa provenienza del tuo attestato di chef, senza dubbio…» disse Mason, spostando l’attenzione su Harry. «E tu chi sei?»

    «È il mio amicone Tom Bradshaw. Non fuma, non beve, non bestemmia e non sputa» disse Quinn prima che Harry avesse la possibilità di parlare.

    «Benvenuto a Lavenham, Bradshaw» disse Mason.

    «Capitano Bradshaw, per l’esattezza» disse Quinn.

    «Tenente. Un tempo…» disse Harry. «Non sono mai stato capitano.» Quinn parve deluso dal suo pupillo.

    «Prima volta in carcere?» chiese Mason, studiando Harry con maggiore attenzione.

    «Sì, signore.»

    «Ti metterò nel blocco A. Una volta che ti sarai fatto una doccia e avrai ritirato i tuoi indumenti carcerari dal magazzino, il signor Hessler ti accompagnerà alla cella numero 327.» Mason fece una X sul suo blocco, prima di rivolgersi a un giovane agente in piedi alle sue spalle, con un manganello che gli ciondolava dalla mano destra.

    «C’è speranza di potermi unire al mio amico?» chiese Quinn, dopo che Harry ebbe firmato il registro. «Dopotutto, il tenente Bradshaw potrebbe aver bisogno di un attendente…»

    «Sei l’ultima persona di cui abbia bisogno» disse Mason. Harry stava per dire qualcosa, quando il borsaiolo si chinò, si sfilò una banconota piegata da una calza e, in un batter d’occhio, la fece scivolare dentro il taschino di Mason. «Anche Quinn starà nella cella 327» disse Mason all’agente subalterno. Se Hessler aveva assistito a quello scambio, non fece alcun commento.

    «Voi due, seguitemi» fu tutto ciò che disse.

    Quinn corse dietro a Harry prima che Mason cambiasse idea.

    I due nuovi prigionieri furono condotti per un lungo corridoio di mattoni verdi finché Hessler non si fermò di fronte a uno stanzino delle docce all’interno del quale c’erano due strette panche di legno fissate al muro, zeppe di asciugamani abbandonati.

    «Spogliatevi» disse Hessler, «e fatevi una doccia.»

    Harry si sfilò lentamente l’abito di sartoria, l’elegante camicia color crema e la cravatta regimental che il signor Jelks aveva insistito per fargli indossare in tribunale perché facesse colpo sul giudice. Il guaio era che aveva beccato il giudice sbagliato.

    Quinn era già sotto la doccia prima che Harry si fosse slacciato le scarpe. Girò il rubinetto e un rivolo d’acqua colò con riluttanza sulla sua incipiente calvizie. A quel punto, raccolse un pezzetto di sapone dal pavimento e iniziò a lavarsi. Harry si posizionò sotto il getto freddo dell’unica altra doccia e, un istante dopo, Quinn gli passò quel che restava del sapone.

    «Ricordami di parlare delle infrastrutture con la direzione» disse Quinn, prendendo in mano un asciugamano umido, non più grande di un canovaccio, e tentando di asciugarsi.

    Le labbra di Hessler restarono increspate. «Vestitevi e seguitemi» disse, prima che Harry avesse finito di insaponarsi.

    Di nuovo, Hessler procedette di buona lena lungo il corridoio, inseguito da Harry, seminudo e ancora bagnato. Non si fermarono prima di essere giunti di fronte a una porta a doppio battente, contrassegnata dalla scritta MAGAZZINI. Hessler bussò con decisione e, un istante dopo, la porta si aprì davanti a un agente annoiato a morte, impegnato a fumarsi una sigaretta fatta a mano, con i gomiti sul bancone. L’uomo sorrise alla vista di Quinn.

    «Non sono certo che ci sia stata restituita l’ultima tua borsa di panni sporchi dalla lavanderia, Quinn» disse.

    «In tal caso, mi servirà una fornitura nuova di tutto, signor Newbold» replicò Quinn, che si chinò ed estrasse qualcosa dall’altra calza, facendola scomparire ancora una volta senza la minima traccia. «Le mie esigenze sono semplici» aggiunse. «Una coperta, due lenzuola di cotone, un cuscino, una federa…» L’agente scelse ciascun articolo dagli scaffali alle sue spalle, prima di sistemarli sul bancone, in una pila ordinata. «… due camicie, tre paia di calze, sei paia di mutande, due asciugamani, una scodella, un piatto, un coltello, una forchetta e un cucchiaio,

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