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Questo fu un uomo
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E-book542 pagine7 ore

Questo fu un uomo

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Info su questo ebook

“In questo ultimo capitolo della saga, Archer ha sfoderato l’intero arsenale delle sue formidabili capacità di romanziere” - Daily Mail

“Una storia che ha svolte del tutto inaspettate, ma raccontata con autenticità. Che descriva i discorsi dei politici alla Camera dei Lord, l’interno di Buckingham Palace o il parlatorio di un carcere, Archer sta parlando di cose che conosce personalmente” - Irish Examiner

Le strade dei Clifton e dei Barrington stanno per incrociarsi un'ultima volta…

In un bosco della Gran Bretagna echeggia uno sparo. Chi è morto? E chi invece è sopravvissuto? Contemporaneamente, a Whitehall, Giles Barrington apprende la verità sul conto di Karin dal segretario di gabinetto. Sua moglie è una spia, o una pedina in un gioco ancor più grande e pericoloso?
Mentre Harry Clifton si appresta a scrivere la sua opera più importante Emma, che da dieci anni è la stimata presidentessa del Bristol Royal Infirmary, riceve una telefonata a sorpresa da Margaret Thatcher. In seguito a un’imprevista decisione di Bishara, direttore della Banca Farthings Kaufman, per Sebastian Clifton si aprono nuove, inaspettate possibilità di carriera. Sua figlia Jessica, invece, che frequenta una prestigiosa scuola d’arte, si mette nei guai. E a quel punto solo sua zia Grace potrà aiutarla. Lady Virginia sta per lasciare il paese per sfuggire ai creditori, quando la morte della Duchessa di Hertford le offre inaspettatamente l’opportunità di salvarsi dai debiti e di distruggere una volta per tutte le due famiglie che ha sempre odiato con tutta se stessa. E a quel punto, ancora una volta, i Clifton dovranno affrontare i colpi di un destino implacabile che sconvolge le loro vite.
Con il suo stile impeccabile e il consueto susseguirsi di colpi di scena, Jeffrey Archer ci regala un finale commovente, che cala il sipario su una delle più intriganti saghe familiari che mai siano state scritte. "

LinguaItaliano
Data di uscita1 ott 2020
ISBN9788830519855
Questo fu un uomo
Autore

Jeffrey Archer

Barone Archer di Weston-super-Mare, è nato in Inghilterra nel 1940 e si è laureato a Oxford. È stato candidato sindaco di Londra, membro del Parlamento europeo, e deputato alla Camera dei Lord per venticinque anni. Scrittore e drammaturgo, autore di romanzi, raccolte di racconti, opere teatrali e saggi, con i suoi libri è regolarmente ai vertici delle classifiche in tutto il mondo. È sposato da oltre cinquant’anni con una compagna di università, ha due figli e vive tra Londra, Cambridge e Maiorca. Con HarperCollins ha pubblicato i sette volumi della Saga dei Clifton, Chi nulla rischia e Nascosto in bella vista della nuova serie Le indagini di William Warwick, e la trilogia  dedicata alle famiglie Kane e Rosnovsky, di cui Non fu mai gloria è il volume conclusivo.

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    Anteprima del libro

    Questo fu un uomo - Jeffrey Archer

    Prologo

    1978

    Emma studiava sempre con attenzione qualsiasi imbarcazione che battesse bandiera canadese. Dopodiché controllava il nome sullo scafo, prima che il suo cuore tornasse a battere in modo normale.

    Quella che osservò in quel momento le fece quasi raddoppiare i battiti e per poco non le cedettero le gambe. Controllò nuovamente: non era un nome di cui lei potesse scordarsi. Si alzò in piedi e osservò i due piccoli rimorchiatori risalire l’estuario, con un pennacchio di fumo che si alzava dai rispettivi fumaioli a mano a mano che pilotavano il vecchio mercantile verso la sua destinazione finale.

    Emma cambiò direzione ma, mentre puntava verso il cantiere di demolizione, non poté fare a meno di chiedersi cosa sarebbe successo se avesse cercato di scoprire la verità dopo tutti quegli anni. Di certo, sarebbe stato più saggio tornarsene in ufficio invece di rivangare il passato… un passato lontano.

    Ma non tornò indietro e, giunta al cantiere, Emma si diresse subito verso l’ufficio del caposquadra, come se stesse semplicemente facendo i suoi soliti giri del mattino. Entrò nel vagone ferroviario e, con sollievo, scoprì che Frank non c’era e trovò solo una segretaria che stava battendo a macchina. Si alzò in piedi nel momento in cui vide la presidentessa.

    «Temo che il signor Gibson non ci sia, signora Clifton. Devo andare a cercarlo?»

    «No, non sarà necessario» disse Emma. Scoccò un’occhiata alla tabella delle prenotazioni sulla parete, ottenendo la conferma dei suoi peggiori timori. Lo smantellamento del piroscafo Maple Leaf era stato programmato e i lavori sarebbero iniziati martedì della settimana seguente. Per lo meno, così avrebbe avuto un po’ di tempo per decidere se avvertire Harry, oppure fare come Nelson e chiudere un occhio. Però, se Harry avesse scoperto che il Maple Leaf era tornato per essere rottamato e le avesse chiesto se lei ne fosse stata al corrente, non sarebbe riuscita a mentirgli.

    «Sono certa che il signor Gibson sarà di ritorno tra pochi minuti, signora Clifton.»

    «Non si preoccupi, non è importante. Ma le dispiace chiedergli di fare un salto da me la prima volta che passa davanti al mio ufficio?»

    «Posso dirgli di cosa si tratta?»

    «Lo capirà.»

    Karin guardò la campagna che le sfrecciava davanti, fuori dal finestrino, mentre il treno procedeva verso Truro. Ma i suoi pensieri erano altrove, nel tentativo di farsi una ragione della morte della baronessa.

    Non aveva notizie di Cynthia Forbes-Watson da diversi mesi e l’MI6 non aveva nemmeno provato a scegliere un’altra persona come suo referente. Avevano perso interesse per lei? Ultimamente Cynthia non le aveva dato nulla di rilevante da passare a Pengelly e i loro incontri nella sala da tè si erano fatti sempre meno frequenti.

    Pengelly aveva lasciato intendere che non sarebbe passato tanto tempo prima che lui dovesse rientrare a Mosca. Per lei non sarebbe mai stato troppo presto. Non ne poteva più di ingannare Giles, l’unico uomo che avesse mai amato, ed era stanca di recarsi in Cornovaglia con la scusa di andare a trovare suo padre. Pengelly non era suo padre ma il suo patrigno. Lo detestava. Aveva implorato sua madre di non sposarlo. Ma, una volta che sua madre era diventata la signora Pengelly, Karin aveva impiegato poco a capire che avrebbe potuto usare quell’insignificante funzionario di partito per fuggire da un regime che disprezzava ancor più di quanto disprezzasse lui, ammesso che fosse possibile. E poi aveva incontrato Giles Barrington, che aveva reso tutto possibile, innamorandosi di lei.

    Karin detestava non poter dire a Giles il vero motivo per cui prendeva così spesso il tè con la baronessa alla Camera dei Lord. Ora che Cynthia era morta, non sarebbe più stata costretta a vivere una menzogna. Ma, una volta scoperta la verità, Giles avrebbe creduto che lei era fuggita dalla tirannia di Berlino Est soltanto perché voleva stare con lui? Aveva raccontato una bugia di troppo?

    Quando il treno entrò nella stazione di Truro, pregò che fosse l’ultima volta.

    «Da quanti anni lavora per la compagnia, Frank?» chiese Emma.

    «Quasi quaranta, signora. Ho servito suo padre e suo nonno prima di lui.»

    «Dunque, avrà sentito la storia del Maple Leaf, giusto?»

    «Prima che io iniziassi, signora, ma nel cantiere tutti conoscono quella vicenda, anche se sono in pochi a parlarne.»

    «Ho un favore da chiederle, Frank. Può mettere insieme una piccola squadra di uomini fidati?»

    «Ho due fratelli e un cugino che non hanno mai lavorato per altri che la Barrington’s.»

    «Dovranno venire una domenica in cui il cantiere sia chiuso. Darò loro il doppio della paga, in contanti, e ci sarà un incentivo della stessa cifra fra dodici mesi, ma solo se non avrò sentito nulla del lavoro da loro svolto quel giorno.»

    «Un’offerta molto generosa, signora» disse Frank, sfiorandosi la visiera del cappello.

    «Quando saranno in grado di cominciare?»

    «Nel pomeriggio di domenica prossima. Il cantiere sarà chiuso fino a martedì, dato che lunedì è un giorno di festa.»

    «Si rende conto che non mi ha chiesto cosa voglio che facciate?»

    «Non ce n’è bisogno, signora. Se dovessimo trovare nel doppiofondo quello che lei cerca, cosa facciamo?»

    «Chiedo solo che i resti di Arthur Clifton abbiano una cristiana sepoltura.»

    «E se non troviamo nulla?»

    «In tal caso, sarà un segreto che noi cinque ci porteremo nella tomba.»

    Il patrigno di Karin aprì il portone della villetta e la accolse con un sorriso insolitamente cordiale.

    «Ho una buona notizia da darti» disse mentre lei entrava in casa, «ma, per il momento, dovrà attendere.»

    Possibile, pensò Karin, che quell’incubo stesse per finire? Poi, vide una copia del Times sul tavolo della cucina, aperta sulla pagina dei necrologi. Fissò la nota fotografia della Baronessa Forbes-Watson e si chiese se fosse una mera coincidenza oppure se lui l’avesse lasciata aperta solo per provocarla.

    Bevvero un caffè e parlarono di cose di scarsa importanza, ma a Karin non sarebbero potute sfuggire le tre valigie di fronte alla porta che sembravano annunciare una partenza imminente. Ciò nonostante, il suo nervosismo crebbe con il passare dei minuti, dato che Pengelly restava decisamente troppo rilassato e cordiale per i suoi gusti. Qual era quella vecchia espressione militare? Felicità da congedo?

    «È venuto il momento di parlare di faccende più serie» disse, portandosi un dito alle labbra. Uscì nel corridoio e tolse il suo pesante soprabito da una gruccia accanto alla porta. Karin pensò di darsela a gambe ma, se lo avesse fatto e se tutto ciò che lui le avesse detto era che stava per tornare a Mosca, la sua copertura sarebbe saltata. Lui la aiutò a infilarsi la giacca e la accompagnò fuori.

    Karin restò sorpresa quando lui la strinse per un braccio e quasi la trascinò lungo la strada deserta. Solitamente, lei lo prendeva sottobraccio di modo che ogni sconosciuto di passaggio ipotizzasse che fossero padre e figlia impegnati in una camminata. Non quel giorno, però. Decise che, se si fossero imbattuti in qualcuno, persino nel vecchio colonnello, si sarebbe fermata e gli avrebbe parlato, ben sapendo che Pengelly non avrebbe corso rischi in presenza di un testimone. Come tutte le spie, dava per scontato che chiunque altro fosse una spia.

    Pengelly continuò con le sue chiacchiere gioviali. Era tutto talmente insolito che l’apprensione di Karin crebbe e i suoi occhi schizzarono in tutte le direzioni, ma sembrava che nessuno in quella giornata fredda e grigia si facesse una camminata per sgranchirsi le gambe.

    Una volta giunti ai margini del bosco Pengelly si guardò intorno, come faceva sempre, per verificare se qualcuno li stesse seguendo. Nel qual caso, ripercorrevano i loro passi e tornavano alla villetta. Ma non quel pomeriggio.

    Malgrado non fossero ancora le quattro, la luce stava già iniziando a scemare e si stava facendo sempre più buio con il passare dei minuti. Le strinse il braccio con maggior forza quando si staccarono dalla strada e imboccarono il sentiero che conduceva dentro il bosco. La sua voce cambiò, in armonia con la fredda aria della notte.

    «So che sarai felice di sapere, Karin…» Non la chiamava mai Karin. «… che sono stato promosso e presto tornerò a Mosca.»

    «Congratulazioni, compagno. Te lo sei meritato.»

    Lui non allentò la morsa. «Dunque, questo sarà il nostro ultimo incontro» continuò. Karin poteva sperare che… «Ma il maresciallo Koshevoi mi ha affidato un ultimo incarico.» Pengelly non aggiunse dettagli, come se volesse che lei si prendesse il suo tempo per pensarci. A mano a mano che si addentravano nel bosco, il buio crebbe a tal punto che Karin faticava a vedere più di un metro davanti a sé. Pengelly, invece, sembrava sapere esattamente dove stava andando, come se avesse studiato ogni passo.

    «Il capo del controspionaggio» disse con calma, «ha finalmente smascherato il traditore tra le nostre fila, la persona che da anni tradisce la patria. Sono stato incaricato di impartirle il giusto castigo.»

    Alla fine allentò la presa e la lasciò andare. Il primo istinto di Karin fu di scappare, ma lui aveva scelto bene il posto. Una macchia d’alberi alle sue spalle, la miniera abbandonata alla sua destra, un angusto sentiero che non riusciva quasi a scorgere nell’oscurità alla sua sinistra e, a svettare sopra di lei, Pengelly, che non sarebbe potuto sembrare più calmo o più pronto.

    L’uomo estrasse lentamente una pistola dalla tasca del soprabito e la tenne su un fianco, con aria minacciosa. Sperava che lei provasse a darsela a gambe, in modo da dover utilizzare più di una pallottola per ucciderla? Ma lei restò inchiodata sul posto.

    «Sei una traditrice» disse Pengelly, «hai fatto più danni alla nostra causa di qualsiasi altro agente del passato. Pertanto, devi morire da traditrice.» Rivolse un’occhiata al pozzo della miniera. «Sarò a Mosca molto prima che scoprano il tuo cadavere, ammesso che lo scoprano.»

    Alzò lentamente la pistola finché non fu all’altezza degli occhi di Karin. L’ultimo pensiero della donna prima che lui schiacciasse il grilletto fu per Giles.

    Il rumore di un colpo echeggiò in tutto il bosco e un nugolo di storni volò alto nel cielo mentre il suo corpo stramazzava al suolo.

    HARRY ED EMMA CLIFTON

    1978-1979

    1

    Numero Sei premette il grilletto. La pallottola uscì dal fucile alla velocità di 341 chilometri orari, colpendo il bersaglio cinque centimetri circa sotto la clavicola sinistra, uccidendolo all’istante.

    La seconda pallottola si conficcò in un albero, a qualche metro dal punto in cui erano caduti i corpi. Pochi istanti dopo, cinque paracadutisti delle SAS spuntarono dalla boscaglia al di là della miniera di stagno abbandonata e circondarono entrambi i corpi. Come meccanici iperaddestrati di un pit stop della Formula Uno, ciascuno svolse il proprio compito senza discutere o fare domande.

    Numero Uno, un tenente a capo dell’unità, raccolse la pistola di Pengelly e la infilò in una busta di plastica, mentre Numero Cinque, un dottore, si inginocchiava accanto alla donna e le tastava il polso: era debole ma ancora presente. Nell’udire il primo sparo doveva essere svenuta, motivo per il quale chi si trova davanti a un plotone d’esecuzione viene spesso legato a un palo.

    Numero Due e Numero Tre, entrambi caporali, sollevarono la sconosciuta con delicatezza e la posarono su una barella che trasportarono verso una radura nel bosco, a qualche centinaio di metri di distanza, dove un elicottero li attendeva con le pale già in movimento. Una volta fissata in sicurezza la barella al suo interno, Numero Cinque, il medico, salì a bordo per unirsi alla paziente. L’elicottero si alzò dal suolo subito dopo che lui si fu allacciato l’imbracatura di sicurezza. Le controllò nuovamente le pulsazioni: erano leggermente più regolari.

    Intanto a terra Numero Quattro, un sergente nonché pugile campione dei pesi massimi del reggimento, raccolse il secondo corpo e se lo gettò su una spalla come un sacco di patate. Il sergente si allontanò con il proprio passo nella direzione opposta rispetto ai colleghi. Ma sapeva esattamente cosa fare.

    Un istante dopo, apparve un secondo elicottero che si mise a volare in cerchio, proiettando un ampio fascio di luce sull’area dell’operazione. Svolto il proprio compito di barellieri, Numero Due e Numero Tre tornarono rapidamente e si unirono a Numero Sei, il tiratore scelto, che era sceso da un albero con il fucile a tracolla, e iniziarono a cercare le due pallottole.

    La prima si era conficcata nel terreno a pochi metri da dove era caduto Pengelly. Numero Sei ne aveva seguito la traiettoria e la individuò in pochi secondi. Per quanto ogni membro dell’unità fosse esperto nell’individuazione dei segni dei colpi di rimbalzo o dei residui di polvere da sparo, ci volle comunque un po’ di più per trovare la seconda. Uno dei caporali, che era solo alla sua seconda missione, alzò una mano nell’istante in cui la vide. La estrasse con il coltello dall’albero e la consegnò a Numero Uno, che la fece cadere in un altro sacchetto di plastica, un souvenir che sarebbe stato esposto in una mensa che non prevedeva mai serate a inviti. Missione compiuta.

    I quattro uomini tornarono di corsa alla radura passando accanto alla vecchia miniera di stagno, e vi spuntarono proprio mentre il secondo elicottero stava atterrando. Il tenente attese che i suoi uomini fossero saliti a bordo, poi raggiunse il pilota nella parte anteriore e si allacciò la cintura di sicurezza.

    Non appena l’elicottero si fu alzato dal suolo, avviò un cronografo.

    «Nove minuti e quarantatré secondi. Accettabile, direi» gridò, per farsi sentire nel boato delle pale rotanti. Aveva assicurato al suo ufficiale capo che l’operazione non solo sarebbe stata un successo, ma che si sarebbe conclusa in meno di dieci minuti. Posò lo sguardo sul terreno sottostante e, a parte qualche orma che sarebbe stata cancellata dal prossimo acquazzone, non v’era alcun segno di quanto aveva appena avuto luogo. Se qualcuno del posto avesse notato i due elicotteri allontanarsi in direzioni diverse, non avrebbe dato alcun peso alla cosa. Dopotutto, la base della RAF di Bodmin distava solo una trentina di chilometri e le operazioni quotidiane rientravano nella routine della gente del posto.

    Un abitante della zona, tuttavia, sapeva esattamente cosa stava succedendo. Il colonnello in pensione Henson, Croce Militare, aveva telefonato alla base di Bodmin pochi istanti dopo aver visto Pengelly lasciare la villetta avvinghiato al braccio della figlia. Aveva telefonato a un numero che gli era stato detto di chiamare se avesse pensato che la donna fosse stata in pericolo. Per quanto non avesse la minima idea di chi fosse la persona all’altro capo della linea, aveva pronunciato la parola in codice Tumbleweed, prima che la comunicazione si chiudesse. Quarantotto secondi dopo, due elicotteri si erano alzati in volo.

    L’ufficiale in comando si era avvicinato alla finestra e aveva osservato i due Puma volare sul suo ufficio e dirigersi a sud. Aveva passeggiato per la stanza, controllando l’orologio a intervalli di qualche secondo. Uomo d’azione, non era nato per fare lo spettatore, per quanto accettasse con riluttanza che, all’età di trentanove anni, era troppo vecchio per un’operazione sotto copertura. Pure lo serve anche chi immoto aspetta.

    Quando furono finalmente trascorsi i dieci minuti, tornò alla finestra, ma passarono altri tre minuti prima che individuasse un elicottero impegnato a scendere tra le nubi. Attese ancora qualche secondo, finché non si convinse di poter ragionevolmente smettere di incrociare le dita, perché se il secondo elicottero fosse stato nella scia del primo, avrebbe significato che l’operazione era fallita. Le sue istruzioni da Londra non avrebbero potuto essere più chiare. Se la donna era morta, avrebbero dovuto portare il suo corpo a Truro e sistemarlo in un’ala privata dell’ospedale, dove una terza squadra disponeva già delle adeguate istruzioni. Se era sopravvissuta, avrebbero dovuto trasportarla a Londra, dove se ne sarebbe occupata una quarta squadra. L’ufficiale in comando non sapeva quali fossero i loro ordini e non aveva idea di chi fosse la donna: quell’informazione era ben al di sopra della sua portata.

    Quando l’elicottero atterrò, l’ufficiale in comando rimase immobile. Si aprì una porta e il tenente saltò giù, piegandosi su se stesso dato che le pale stavano ancora ruotando. Corse per qualche metro prima di raddrizzarsi e, dopo aver scorto il colonnello accanto alla finestra, gli rivolse il segno dei pollici alzati. L’ufficiale in comando emise un sospiro di sollievo, tornò alla scrivania e chiamò il numero che si era annotato sul taccuino. Sarebbe stata la seconda e ultima volta in cui parlava con il segretario di gabinetto.

    «Colonnello Dawes, signore.»

    «Buonasera, colonnello» disse Sir Alan.

    «Operazione Tumbleweed completata con successo, signore. Puma Uno tornato alla base. Puma Due in viaggio verso casa.»

    «Grazie» disse Sir Alan, e mise giù il telefono. Non c’era un momento da perdere. La persona che doveva vedere subito dopo si sarebbe presentata da un momento all’altro. Neanche fosse stato un profeta, la porta si aprì e la sua segretaria annunciò: «Lord Barrington».

    «Giles» disse Sir Alan, alzandosi in piedi da dietro la scrivania e stringendo la mano del suo ospite. «Posso offrirle un tè o un caffè?»

    «No, grazie» disse Giles, a cui interessava una sola cosa: scoprire perché mai il segretario di gabinetto avesse voluto vederlo con tale urgenza.

    «Mi spiace averla trascinata fuori dalla Camera» disse Sir Alan, «ma ho bisogno di parlare di una faccenda privata con lei, in base alle regole del Privy Council.»

    Giles non udiva tali parole da quando era stato ministro del gabinetto, ma non ebbe bisogno di farsi rammentare che, di qualunque cosa lui e Sir Alan stessero per parlare, non avrebbe mai potuto ripeterla, a meno che l’altra persona presente non fosse stata a sua volta un membro del Privy Council.

    Giles annuì e Sir Alan disse: «Per prima cosa, sua moglie Karin non è figlia di Pengelly».

    Una finestra rotta e, un istante dopo, i sei entrarono. Non sapevano esattamente cosa cercare ma, quando la videro, non avrebbero potuto avere dubbi. Il maggiore al comando della seconda unità, nota come squadra spazzini, non aveva un cronografo al seguito perché non aveva fretta. I suoi uomini erano stati addestrati a prendersela comoda e ad assicurarsi di non lasciarsi sfuggire nulla. Non gli era mai concessa una seconda chance.

    A differenza dei colleghi dell’unità uno, indossavano tute sportive e avevano con sé grandi sacchetti di plastica nera per pattumiere. Un’eccezione c’era: Numero Quattro. Ma, in fin dei conti, non era un membro permanente della squadra. Vennero tirate tutte le tende prima che si accendessero le luci e si desse inizio alla ricerca. Gli uomini smantellarono meticolosamente ogni stanza in modo rapido e metodico, senza lasciare nulla al caso. Due ore dopo, avevano riempito otto sacchi di plastica. Ignorarono il corpo che Numero Quattro aveva posato sul tappeto nel salotto, anche se uno di loro frugò nelle sue tasche.

    Le ultime cose che passarono in rassegna furono le tre valigie lasciate davanti alla porta, nel corridoio: un vero e proprio tesoro. Il loro contenuto riempì un solo sacchetto, ma le informazioni al suo interno superavano quelle degli altri sette sacchetti messi insieme: diari, nomi, numeri di telefono, indirizzi e dossier confidenziali che Pengelly aveva sicuramente progettato di portarsi appresso a Mosca.

    A quel punto, l’unità passò ancora un’ora a ricontrollare tutto, ma non trovò altre cose particolarmente interessanti. Però, erano dei professionisti, addestrati a fare le cose per bene al primo tentativo. Una volta che il comandante dell’unità fu convinto che non ci fosse altro da fare, i sei uomini uscirono dalla porta sul retro e presero strade separate, ben pianificate, per tornare alla base, lasciandosi dietro solo Numero Quattro. Non era uno spazzino, bensì un distruttore.

    Quando il sergente udì il rumore della porta sul retro che si chiudeva, si accese una sigaretta e fece qualche tiro, prima di gettare il mozzicone incandescente sul tappeto, accanto al corpo. A quel punto, spruzzò la benzina del suo accendino sulle braci ormai spente e, nel giro di pochi stanti, apparve una fiamma azzurra che appiccò il fuoco al tappeto. Sapeva che si sarebbe propagato rapidamente a tutta la villetta di legno, ma doveva esserne certo e, dunque, non se ne andò prima che il fumo lo facesse tossire, quando uscì velocemente dalla stanza e si diresse alla porta sul retro. Una volta fuori dalla villetta si voltò e, convinto che il fuoco fosse indomabile, si mise in cammino per tornare alla base. Non avrebbe chiamato i vigili del fuoco.

    I dodici uomini tornarono tutti in caserma in momenti diversi e ripresero a essere un’unica squadra solo quando si incontrarono quella sera nella mensa per farsi un drink. Il colonnello li raggiunse a cena.

    Il segretario di gabinetto era davanti alla finestra del suo ufficio al primo piano e attese di vedere Giles Barrington uscire dal Numero 10 e avanzare con decisione lungo Downing Street, in direzione di Whitehall. A quel punto, tornò alla scrivania, si sedette e rifletté attentamente sulla telefonata seguente e su quanto lui avrebbe rivelato.

    Harry Clifton era in cucina quando il telefono squillò. Lo alzò, e nell’udire le parole «parla il Numero 10, è pregato di attendere in linea» ipotizzò che dovesse essere il primo ministro per Emma. Non ricordava se fosse all’ospedale oppure se stesse presiedendo una riunione a Barrington House.

    «Buongiorno, signor Clifton. Parla Alan Redmayne. È un momento opportuno?»

    Harry per poco non scoppiò a ridere. Era tentato di dire: No, Sir Alan, sono in cucina e mi sto preparando una tazza di tè e non riesco a decidermi se metterci una o due zollette di zucchero, per cui, le spiace richiamarmi più tardi? Invece, spense il bollitore. «Certo, Sir Alan. Come posso aiutarla?»

    «Volevo che lei fosse il primo a sapere che John Pengelly non è più un problema e che, malgrado lei sia stato tenuto all’oscuro di tutto, le sue paure su Karin Brandt erano infondate, per quanto comprensibili. Pengelly non era suo padre e negli ultimi cinque anni quella donna è stata uno dei nostri agenti più fidati. Ora che Pengelly non è più un problema, Karin sarà in congedo retribuito e non abbiamo in progetto di farla rientrare in servizio.»

    Harry ipotizzò che l’espressione non è più un problema fosse un eufemismo per dire Pengelly è stato eliminato! e, per quanto avesse diverse domande da fare al segretario di gabinetto, se le tenne per sé. Sapeva che un uomo che non condivideva i suoi segreti nemmeno con il primo ministro difficilmente gli avrebbe risposto.

    «Grazie, Sir Alan. C’è altro che è bene che io sappia?»

    «Sì, suo cognato ha appena scoperto la verità sul conto di sua moglie, ma Lord Barrington non sa che è stato lei a condurci a Pengelly. Francamente, preferirei che non lo sapesse mai.»

    «Ma cosa devo dire se lui dovesse mai tirare in ballo l’argomento?»

    «Non c’è bisogno di dire nulla. Dopotutto, non ha motivo di sospettare che lei si sia imbattuto nel nome Pengelly mentre si trovava a Mosca per un convegno letterario e io di certo non l’ho illuminato al riguardo.»

    «Grazie, Sir Alan. È stato gentile da parte sua ragguagliarmi.»

    «Di niente. E, a proposito, signor Clifton: complimenti vivissimi. Davvero meritati.»

    Dopo essere uscito dal Numero 10, Giles tornò rapidamente a casa sua, in Smith Square. Era un sollievo che fosse il giorno di riposo di Markham e, subito dopo aver aperto il portone, raggiunse la propria camera al piano di sopra. Accese la luce sul comodino, chiuse le tende e tirò indietro il copriletto. Per quanto fossero passate da poco le sei, i lampioni di Smith Square erano già in funzione.

    Era a metà delle scale quando il campanello del portone suonò. Corse ad aprire e trovò un giovane sui gradini davanti all’ingresso. Dietro di lui c’era un furgone nero senza contrassegni, con le portiere posteriori aperte. L’uomo gli tese la mano. «Sono il dottor Weeden. Immagino ci stesse aspettando…»

    «Sì» disse Giles, mentre due uomini spuntavano dal retro del furgone e scaricavano una barella con delicatezza.

    «Seguitemi» disse Giles, guidandoli verso la camera da letto al piano di sopra. I due infermieri sollevarono la donna priva di sensi dalla barella e la posarono sul letto. Giles sistemò la coperta su sua moglie, mentre i barellieri se ne andavano senza dire una parola.

    Il dottore le controllò le pulsazioni. «Le ho dato un sedativo e, dunque, dormirà per un paio d’ore. Al suo risveglio, è possibile che per un po’ lei immagini che sia stato solo un incubo, ma non appena si sarà resa conto di essere in un ambiente familiare, si riprenderà e le tornerà in mente esattamente tutto ciò che è successo. È probabile che si chieda quanto lei sappia, dunque avrà un po’ di tempo per pensarci.»

    «Ci ho già pensato» disse Giles, prima di accompagnare il dottor Weeden al piano di sotto e di aprire il portone. I due uomini si strinsero la mano per la seconda volta, poi il medico si infilò nella cabina del furgone, senza mai voltarsi. Il veicolo anonimo girò lentamente intorno a Smith Square e svoltò a destra, unendosi al pesante traffico della sera.

    Una volta che il furgone non fu più in vista, Giles chiuse la porta e corse di sopra. Prese una sedia e si accomodò accanto alla moglie assopita.

    Giles doveva essersi addormentato perché, senza quasi accorgersene, vide che Karin era seduta sul letto e lo stava fissando. Lui sbarrò gli occhi, sorrise e la accolse tra le braccia.

    «È tutto finito, cara. Ora sei al sicuro» disse.

    «Pensavo che, se lo avessi scoperto, non mi avresti mai perdonata» disse, stringendosi a lui.

    «Non c’è nulla di cui farsi perdonare. Scordiamoci del passato e concentriamoci sul futuro.»

    «Ma è importante che io ti dica tutto» disse Karin. «Basta segreti.»

    «Alan Redmayne mi ha già ragguagliato in modo esauriente» disse Giles, cercando di rassicurarla.

    «Non del tutto» disse Karin, staccandosi da lui. «Nemmeno lui sa tutto e io non posso continuare a portare avanti una menzogna.» Giles le rivolse un’espressione angosciata. «La verità è che ti ho usato pur di uscire dalla Germania. Sì, mi piacevi, ma una volta al sicuro in Inghilterra intendevo scappare sia da te sia da Pengelly e di cominciare una nuova vita. E lo avrei fatto, se non mi fossi innamorata di te.» Giles le prese la mano. «Però, per poterti tenere, ho dovuto far sì che Pengelly continuasse a credere che lavoravo per lui. È stata Cynthia Forbes-Watson a venire in mio soccorso.»

    «Anche in mio» disse Giles. «Solo che, nel mio caso, mi sono innamorato di te dopo la notte che abbiamo passato insieme a Berlino. Non è stata colpa mia che tu ci abbia messo un po’ di più a renderti conto di quanto fossi stata fortunata.» Karin scoppiò a ridere e strinse le braccia intorno a lui. Quando lei si staccò, Giles disse: «Vado a prepararti un’altra tazza di tè».

    Roba da inglesi, pensò Karin.

    2

    «A che ora ci è stato detto di essere a disposizione di Sua Maestà?» chiese con un sorrisino Emma, che non voleva ammettere quanto andasse fiera di suo marito né con quale trepidazione attendesse quell’occasione. A differenza della riunione del consiglio che avrebbe presieduto nella seconda parte della settimana, che di rado non era nei suoi pensieri.

    «A qualsiasi ora tra le dieci e le undici» disse Harry, controllando il biglietto di invito.

    «Ti sei ricordato di prenotare la macchina?»

    «Ieri pomeriggio. E ho verificato nuovamente stamattina» aggiunse, mentre il campanello dell’ingresso squillava.

    «Deve essere Seb» disse Emma. Diede un’occhiata al suo orologio. «E, per una volta, è puntuale.»

    «Non credo che si sarebbe mai presentato in ritardo per questa occasione» disse Karin.

    Giles si alzò dal suo posto al tavolo della colazione quando Markham aprì la porta e si face da parte per consentire a Jessica, a Seb e a una Samantha vistosamente incinta di unirsi a loro.

    «Avete fatto colazione?» chiese Giles, baciando Samantha su una guancia.

    «Sì, grazie» disse Seb, mentre Jessica si abbandonava pesantemente su una sedia accanto al tavolo, imburrava un toast e prendeva la marmellata d’arance.

    «Chiaramente non tutti» disse Harry, sorridendo alla nipote.

    «Quanto tempo ho?» chiese Jessica, tra un boccone e l’altro.

    «Cinque minuti al massimo» disse Emma, con decisione. «Non voglio arrivare a palazzo più tardi delle dieci e trenta, signorina.» Jessica imburrò un altro toast.

    «Giles» disse Emma, rivolgendosi a suo fratello, «è stato gentile da parte tua ospitarci a dormire da te e mi dispiace solo che voi non possiate unirvi a noi.»

    «La regola è solo i familiari più stretti» disse Giles, «ed è giusto così, altrimenti ci vorrebbe uno stadio di calcio per far posto a chiunque voglia essere presente.»

    Qualcuno bussò delicatamente al portone.

    «Deve essere il nostro autista» disse Emma. Ancora una volta, controllò che la camicia di seta di Harry fosse dritta e gli tolse un capello grigio dal tight, prima di dire: «Seguitemi».

    «Una presidentessa resta sempre una presidentessa» sussurrò Giles, mentre accompagnava il cognato verso il portone. Seb e Samantha li seguirono, con Jessica che, nelle retrovie, ora stava sgranocchiando la terza fetta di pane tostato.

    Non appena Emma uscì in Smith Square, un autista aprì la portiera di una limousine nera. Lei fece salire il gruppo, poi si unì a Harry e Jessica sul sedile posteriore. Samantha e Seb si sedettero sui due sedili regolabili di fronte a loro.

    «Sei nervoso, nonno?» chiese Jessica, mentre l’automobile si metteva in movimento, unendosi al traffico del mattino.

    «No» disse Harry. «Sempre che tu non abbia intenzione di rovesciare lo stato.»

    «Non metterle strane idee in testa» disse Sebastian, mentre passavano accanto alla Camera dei Comuni ed entravano in Parliament Square.

    Persino Jessica fece silenzio quando l’automobile varcò l’Admiralty Arch e apparve Buckingham Palace. L’autista procedette lentamente lungo il Mall, girando intorno alla statua della Regina Vittoria, prima di fermarsi davanti ai cancelli del palazzo. Abbassò il finestrino e disse al giovane ufficiale delle guardie: «Signor Harry Clifton e famiglia».

    Il tenente sorrise e spuntò un nome sul suo portablocco a molla. «Superate l’arcata alla vostra sinistra e uno dei miei colleghi vi indicherà dove parcheggiare.»

    L’autista seguì le istruzioni ed entrò in un ampio cortile dove erano già parcheggiate file su file di automobili.

    «La prego di parcheggiare accanto alla Ford azzurra là in fondo» disse un altro ufficiale, indicando il lato opposto del cortile, «e, a quel punto, il vostro gruppo potrà entrare nel palazzo.»

    Quando Harry smontò dall’automobile, Emma gli diede un’ultima controllata.

    «So che non ci crederai» gli sussurrò, «ma hai la patta aperta.»

    Harry si fece rosso come un peperone mentre si tirava su la cerniera lampo, poi salì i gradini e mise piede all’interno del palazzo. Due valletti che indossavano la divisa rosso-oro del casato reale erano rigidamente sull’attenti alla base dell’ampio scalone rivestito da un tappeto rosso. Harry ed Emma salirono lentamente i gradini, cercando di assorbire tutto ciò che vedevano. Una volta sulla sommità, furono accolti da altri due uomini della casa reale. Harry notò che il grado saliva ogni volta che venivano fermati.

    «Harry Clifton» dichiarò, prima che gli venisse chiesto.

    «Buongiorno, signor Clifton» disse il più alto in grado dei due ufficiali. «Vuole essere così gentile da venire con me? Il mio collega condurrà la sua famiglia alla Sala del Trono.»

    «Buona fortuna» gli sussurrò Emma, mentre Harry veniva condotto via.

    La famiglia salì un altro scalone, non altrettanto ampio, da cui si accedeva a una lunga galleria. Entrando in una sala dall’alto soffitto, Emma si fermò per osservare le file di dipinti appesi a stretto contatto tra loro, che in precedenza aveva visto solo sui libri d’arte. Si rivolse a Samantha. «Siccome è improbabile che ci invitino una seconda volta, sospetto che Jessica voglia saperne di più sulla Royal Collection.»

    «Anch’io» disse Sebastian.

    «Molti dei re e delle regine di Inghilterra» iniziò Samantha, «erano conoscitori e collezionisti e, dunque, questa è soltanto una piccola porzione della Royal Collection, che non è in realtà di proprietà della Regina, bensì della nazione. Noterete che la pinacoteca è imperniata su artisti britannici del primo XIX secolo. Uno splendido quadro di Venezia di Turner è appeso di fronte a uno squisito dipinto della cattedrale di Lincoln del suo vecchio rivale, Constable. Ma la galleria, come potete vedere, è dominata da un grande ritratto di Carlo I a cavallo realizzato da Van Dyck che, al tempo, era l’artista di corte.»

    Jessica era talmente affascinata da scordarsi quasi dove si trovassero. Quando, finalmente, giunsero alla Sala del Trono, Emma rimpianse di non essersi mossa in anticipo, dato che le prime dieci file di sedie erano già occupate. Percorse rapidamente il corridoio centrale, prese posto alla fine della prima fila disponibile e attese che la famiglia la raggiungesse. Una volta seduti, Jessica iniziò a studiare attentamente la sala.

    Poco più di trecento eleganti sedie d’oro erano sistemate in file da sedici, separate al centro da un ampio corridoio. Nella parte anteriore della sala c’era un gradino rivestito da un tappeto rosso da cui si accedeva a un grande trono vuoto, in attesa del suo legittimo titolare. Il brusio del chiacchiericcio nervoso cessò sei minuti prima delle undici, quando un uomo alto ed elegante in frac entrò nella sala, si fermò alla base del gradino e si voltò in direzione del pubblico.

    «Buongiorno, signore e signori» esordì, «e benvenuti a Buckingham Palace. L’investitura di oggi inizierà tra qualche minuto. Mi sia permesso di ricordarvi di non scattare fotografie e vi prego di non andarvene prima che la cerimonia sia terminata.» Senza aggiungere altro, si allontanò con la medesima discrezione con cui era entrato.

    Jessica aprì la borsetta e tirò fuori un piccolo blocco e una matita. «Non ha parlato di disegni, nonna» sussurrò.

    Allo scoccare delle undici, Sua Maestà, la Regina Elisabetta II, entrò nella Sala del Trono e tutti gli ospiti si alzarono in piedi. Prese posto sul gradino di fronte al trono, ma non parlò. Un cenno da parte di un cerimoniere e il primo destinatario di un’onorificenza entrò dal lato opposto della sala. Nell’ora che seguì, uomini e donne provenienti da tutto il Regno Unito e dal Commonwealth ricevettero diverse onorificenze dalla loro monarca, che si trattenne in brevi conversazioni con ciascuno di loro, prima che il cerimoniere facesse un nuovo cenno e il successivo destinatario ne prendesse il posto.

    Quando il nonno entrò nella sala, la matita di Jessica era pronta. Mentre avanzava verso la Regina, il cerimoniere posò uno sgabellino davanti a Sua Maestà e poi le consegnò una spada. La matita di Jessica non si fermò nemmeno per un istante, catturando la scena di Harry che si piegava su un ginocchio e chinava il capo. La Regina gli sfiorò delicatamente la spalla destra con la punta della spada, la sollevò e poi la posò sulla sua spalla sinistra, prima di dire: «Si alzi, Sir Harry».

    «Allora, cos’è successo dopo che ti hanno condotto alla Torre?» volle sapere Jessica mentre uscivano in macchina dal palazzo e ripercorrevano il Mall, per portare Harry al suo ristorante preferito, a poche centinaia di metri da lì, in vista di un pranzo celebrativo.

    «Tanto per cominciare, ci hanno portati tutti in un’anticamera in cui un cerimoniere ci ha spiegato come si sarebbe svolta la cerimonia. È stato molto gentile e ci ha consigliato, al momento dell’incontro con la Regina, di fare l’inchino dal collo» disse Harry, fornendone una dimostrazione, «e non dalla cintola come un paggetto. Ci ha detto di non stringerle la mano, di rivolgerci a lei chiamandola Vostra Maestà e di attendere che a iniziare la conversazione fosse lei. Di non farle domande, per nessuna ragione.»

    «Che noia» disse Jessica, «perché ci sono un sacco di domande che mi piacerebbe farle.»

    «E, in risposta a eventuali domande che ci avrebbe potuto rivolgere» continuò Harry, ignorando la nipote, «ci ha detto di rivolgerci a lei con il termine signora, e di ripetere l’inchino al termine dell’udienza.»

    «Dal collo» disse Jessica.

    «E di prendere commiato.»

    «Ma cosa sarebbe successo se tu non avessi preso commiato» chiese Jessica, «e ti fossi messo a fare domande?»

    «Il cerimoniere ci ha assicurato con molto garbo che, se ci fossimo trattenuti più del necessario, aveva istruzione di mozzarci la testa.» Risero tutti a eccezione di Jessica.

    «Io mi rifiuterei di inchinarmi o di chiamarla Vostra Maestà» disse Jessica, con decisione.

    «Sua Maestà è molto tollerante nei confronti dei ribelli» disse Sebastian, cercando di riportare la conversazione su un terreno più sicuro, «e ammette che gli americani sono fuori controllo dal 1776.»

    «Allora, di che cosa ha parlato?» chiese Emma.

    «Mi ha detto quanto le piacciono i miei romanzi e mi ha chiesto se per Natale ci sarà un altro William Warwick. Sì, signora ho risposto, ma il mio prossimo libro potrebbe non piacerle, dato che sto pensando di far morire William

    «Che gliene è parso?» chiese Sebastian.

    «Mi ha ricordato ciò che la sua trisavola, la Regina Vittoria, aveva detto a Lewis Carroll dopo aver letto Alice nel paese delle meraviglie. Tuttavia, le ho assicurato che il mio prossimo libro non sarà una tesi di matematica su Euclide.»*

    «E come ha reagito?» chiese Sebastian.

    «Mi ha sorriso, per farmi capire che la conversazione era giunta al termine.»

    «Dunque, se farai morire William Warwick, quale sarà l’argomento del tuo prossimo libro?» chiese Sebastian, mentre l’automobile si fermava davanti al ristorante.

    «Una volta ho promesso a tua nonna, Seb» ribatté Harry, smontando dalla macchina, «che avrei provato a scrivere un’opera più ragguardevole, un’opera capace, cito le sue parole, di sopravvivere a qualsiasi lista dei bestseller e di reggere alla prova del tempo. Non sto certo ringiovanendo e, dunque, non appena avrò soddisfatto il mio attuale contratto, intendo cercare di capire

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