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La miglior difesa: La nuova scienza del sistema immunitario: La nuova scienza del sistema immunitario
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E-book474 pagine6 ore

La miglior difesa: La nuova scienza del sistema immunitario: La nuova scienza del sistema immunitario

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Info su questo ebook

Dal premio Pulitzer Matt Richtel, un saggio appassionato e innovativo esplora il sistema immunitario e svela i segreti della nostra salute
Un paziente terminale malato di cancro si alza dalla tomba. Un prodigio medico sfida l’HIV. Due donne con una patologia autoimmune scoprono che i loro corpi si sono rivoltati contro di loro. La storia delle ricerche scientifiche che da secoli cercano di svelare i misteri della malattia e della salute si intrecciano con le vicende personali di queste quattro persone in un saggio che si propone di raccontare il sistema immunitario come non era mai stato fatto prima.
Il sistema immunitario è la rete cellulare che difende il nostro corpo, un guardiano che combatte la malattia, guarisce le ferite, mantiene l’ordine e l’equilibrio e sostanzialmente ci tiene in vita. I suoi microscopici soldati – dalle cellule T alle cosiddette “ natural killer” – pattugliano il nostro organismo e comunicano attraverso un’efficientissima rete di telecomunicazioni: un esercito che si è evoluto nel corso dei millenni per affrontare una quantità pressoché infinita di minacce.
Eppure, nonostante la stupefacente complessità di questa rete, i meccanismi del sistema immunitario possono essere compromessi dalla fatica, dallo stress, dalle tossine, dall'età avanzata e da un'alimentazione sbagliata – tutte caratteristiche della vita contemporanea – e persino da un’igiene eccessiva. Paradossalmente, è una fragile arma miracolosa che può rivoltarsi contro il nostro corpo con risultati sorprendenti, che oggi portano l’incidenza delle patologie autoimmuni a livelli epidemici.
Richtel guida i lettori in un'avvincente indagine scientifica che si snoda dalla peste nera che decimò la popolazione europea nel Trecento, alle scoperte fondamentali del XX secolo come vaccinazioni e antibiotici, fino ai laboratori all’avanguardia che stanno rivoluzionando l’immunologia, forse la più straordinaria e innovativa disciplina medica del nostro tempo. E lo fa rendendo accessibili le rivelazioni sull’immunoterapia del cancro, sul microbioma e sul trattamento delle malattie autoimmuni che stanno cambiando milioni di vite. La miglior difesa spiega inoltre con ricchezza di dettagli come queste potenti terapie, lo stile di vita e l'ambiente interagiscano con il sistema immunitario con esiti spesso positivi, ma correndo sempre sul filo del rasoio con il rischio di infrangere il delicato equilibrio che regola questo straordinario apparato.
Attingendo ai suoi reportage per il New York Times, e sulla base di nuove interviste a scienziati di fama mondiale, Matt Richtel ha scritto un libro fondamentale che è al tempo stesso un'indagine appassionante sugli enigmi della sopravvivenza e un racconto profondamente umano che prende vita attraverso gli occhi dei quattro personaggi principali, ciascuno dei quali illumina un aspetto essenziale di quella che è la nostra “miglior difesa”."
LinguaItaliano
Data di uscita29 ago 2019
ISBN9788830502123
La miglior difesa: La nuova scienza del sistema immunitario: La nuova scienza del sistema immunitario
Autore

Matt Richtel

MATT RICHTEL è un giornalista del New York Times, vincitore di un Premio Pulitzer e autore bestseller, di saggi e di mistery. Vive a San Francisco con la moglie Meredith, neurologa, e i loro due figli. Online lo trovate su: www.mattrichtel.wordpress.com

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    Anteprima del libro

    La miglior difesa - Matt Richtel

    storie.

    PRIMA PARTE

    VITE IN BILICO

    1

    JASON

    Jason Greenstein viaggiava in silenzio sul sedile del passeggero di una Ford Windstar sotto a un cielo plumbeo. Era venerdí 13 marzo 2015. Jason stava andando incontro a un miracolo viaggiando come suo solito: nel disordine e nella sporcizia.

    Il furgoncino metallizzato, che si stava rapidamente avvicinando a Denver dai sobborghi della cittá, era un vero e proprio rottame. Il sistema di riscaldamento sbuffava e rantolava e sembrava funzionare soltanto quando fuori faceva caldo. La porta posteriore non si apriva. Sul cruscotto lampeggiavano diverse spie luminose che segnalavano guasti che Jason fingeva di non vedere. Cartine e stradari traboccavano dai vani portaoggetti e riempivano lo spazio sotto ai sedili.

    Per non parlare dell’odore. L’abitacolo era intriso del tanfo che proveniva dalla tanica di benzina da venti litri che Jason teneva nel bagagliaio per le emergenze e dai residui di grasso accumulati dalle innumerevoli soste nei fast-food. Jason non sapeva resistere agli hot dog di 7-Eleven, nonostante li chiamasse dita di strega e li definisse disgustosi.

    Quando viaggiava, cosa che faceva spesso, Jason a volte dormiva nel retro del furgone. Si raggomitolava su un tappeto orientale arancione cosparso di macchie, con la testa accanto alla bomboletta del gas. A volte si appisolava sulle scatole di ninnoli luccicanti che vendeva a remoti casinó come articoli promozionali.

    Jason aveva quarantasette anni, si era laureato presso un college prestigioso, specializzandosi poi in economia aziendale e diritto. Non che avesse molto rispetto per questi titoli. Viveva passando da un’iniziativa imprenditoriale all’altra, da un’avventura all’altra. La cosa che lo rendeva più felice era guidare, con una presa di tabacco tra i denti, ascoltando Springsteen o una stazione radio locale diretto verso qualche nuova cittá. Jason era determinato a scoprire, esplorare e vivere la sua strada. Era un autentico sognatore americano e il furgone era il suo carro da pioniere.

    «Ma’, se mai mi succedesse qualcosa, voglio che qualcuno si occupi del mio furgone. Mi stai ascoltando, ma’?» chiedeva a sua madre. I rapporti tra Jason e sua madre Catherine oscillavano tra momenti di profondo affetto e furibonde liti in uno stile passivo-aggressivo che avrebbe fatto la gioia di Arthur Miller.

    Ora a guidare era Beth, la sua ragazza, mentre lui stava sul sedile del passeggero. Jason stava per provare qualcosa di completamente nuovo, qualcosa che non avrebbe mai potuto nemmeno immaginare. Era deciso a diventare una meraviglia medica, un testimonial, per usare le sue stesse parole, di un nuovo miracoloso trattamento contro il cancro. Stava per sfidare la morte, in piedi sul precipizio, con un piede giá oltre l’orlo del baratro.

    Jason soffriva di un cancro all’ultimo stadio. Era quello che si dice un malato terminale.

    Nei polmoni e sulla parte sinistra della schiena gli si era formato un linfoma di Hodgkin le cui dimensioni raddoppiavano ogni volta nel giro di poche settimane e che ormai pesava quasi sette chili. Quattro anni di chemioterapia e di radioterapia non erano serviti a nulla, riuscendo soltanto per brevi periodi a rallentare quello che normalmente è uno fra i tumori più curabili. I medici avevano provato praticamente tutto, aumentando le dosi dei farmaci o somministrandoli in combinazione tra loro, con violenti effetti collaterali. Ma il cancro l’aveva sempre spuntata. Ora la massa tumorale gli sporgeva cosí tanto dalla schiena che Beth chiamava affettuosamente il fidanzato Quasimodo. La pressione esercitata sul nervo ulnare provocava a Jason dolori lancinanti, rendendolo incapace di muovere la mano sinistra; era gonfia, sembrava una massa di carne flaccida e informe.

    Il danno alla mano sinistra era particolarmente crudele. Da ragazzo, quando giá ci conoscevamo, Jason era un atleta fenomenale: un mancino agile, scaltro, tenace. Non era alto, ma accidenti se sapeva saltare! Era un’antilope con le gambe di una rana e aveva partecipato ai campionati studenteschi dello stato del Colorado giocando sia a basket che a baseball. Aveva anche l’aspetto giusto: capelli neri e occhi scuri, un ampio sorriso, e un’ascendenza per metá italiana e per metá ebraica che gli dava quel fascino meticcio tipicamente americano al quale le ragazze non riuscivano a resistere. Ma per me a renderlo unico era la sua risata, che raggiungeva frequenze da soprano lirico e che spesso esplodeva in seguito a una sua stessa battuta. Era qualcosa di fantastico.

    Mentre Beth guidava da Boulder verso Denver, il sole occhieggiava tra le nuvole, come se marzo ancora non avesse deciso se fosse inverno o primavera. Jason era un grumo di dolore. Indossava pantaloni della tuta grigi, mocassini di tela, una camicia di flanella. Doveva vestirsi con indumenti comodi e larghi perché erano gli unici che riusciva a infilare sul suo corpo sofferente. Anche i suoi piedi si erano gonfiati. Jason aveva preso tutto ció che il cancro aveva da offrire. Il suo oncologo lo aveva soprannominato Toro d’acciaio perché sopportava con stoicismo ogni terapia alla quale era sottoposto, spesso riuscendo anche a fare qualche battuta o a lanciare un sorriso.

    Ma nel corso dell’ultimo appuntamento con il medico Jason aveva ricevuto la propria condanna a morte. L’oncologo aveva esaminato la progressione del tumore, spiegandogli in lacrime che non c’era più nulla da fare. Avevano tentato ogni tipo di trattamento, tutte le combinazioni possibili di farmaci: il cancro continuava a tornare più forte di prima. Era giunto il momento di arrendersi.

    Al termine della visita, nel proprio referto il medico aveva scritto: «La soluzione più ragionevole, per quanto emotivamente pesante, sarebbe ricoverare il signor Greenstein in una clinica per malati terminali». Poi aveva organizzato un incontro con la famiglia di Jason per prepararlo alle cure palliative.

    Ulteriori cure, aveva scritto il medico, avrebbero portato «più danni che benefici» e non sarebbero state giustificate «a meno che il paziente non risponda al trattamento in modo clamoroso».

    Beth giunse col furgone nel quartiere borghese intorno alla clinica presbiteriana St Luke. Jason era un tipo al quale in genere piaceva parlare. Era davvero un gran chiacchierone. Ora la fidanzata riusciva a malapena a strappargli qualche parola.

    Dopo aver parcheggiato, Beth prese Jason sottobraccio e lo portó all’ascensore, accompagnandolo fino al terzo piano della clinica. In quel reparto Jason aveva trascorso ore disteso su una grossa poltrona reclinabile all’interno di un box, subendo devastanti trattamenti chemioterapici. Ma non quel giorno.

    Jason si accomodó a fatica. Un’infermiera collegó il deflussore per la flebo al catetere che aveva nel petto. Prima lasció passare un po’ di soluzione salina per assicurarsi che il deflussore fosse pulito, quindi del Benadryl, per sedarlo. A questo punto l’infermiera sostituí le sacche, prendendone un’altra, piena anch’essa di un liquido trasparente. Qualcosa che a Jason non era mai stato somministrato.

    Il cancro è una fra le principali cause di morte al mondo. Ma questa non è una storia sul cancro. Non è nemmeno una storia su malattie cardiache o respiratorie, incidenti, ictus, morbo di Alzheimer, diabete, influenza e polmonite, insufficienza renale o HIV. Tutte queste sono patologie dolorose e letali. Questa non è la storia di una particolare malattia o infortunio. È la storia di tutte queste malattie e dello straordinario filo rosso da cui sono collegate, il collante responsabile della salute e del benessere umano. Questa è la storia del sistema immunitario.

    Questo libro racconta le straordinarie scoperte che, in particolare negli ultimi settant’anni, sono state fatte sul nostro sistema di difesa e sul ruolo che esso svolge in ogni aspetto concernente il nostro stato di salute. Quando un graffio o un taglio superano la corazza della nostra pelle, che è la nostra prima linea di difesa, il sistema immunitario si attiva. Le cellule immunitarie accorrono in massa per disinfettare la ferita, ricostruire i tessuti, riparare i danni interni provocati da un urto o da un livido, per trattare morsi e ustioni. Una complessa rete di difesa cellulare aggredisce tutti i virus influenzali – da due a tre all’anno – tiene sotto controllo le infinite mutazioni che rischiano di trasformarsi in tumori, sorveglia virus come l’herpes che colpiscono ampi segmenti di popolazione, e affronta centinaia di milioni di casi di intossicazione alimentare ogni anno. Solo di recente si è cominciato a comprendere l’indispensabile ruolo che il nostro sistema immunitario ha nel cervello, dove le sinapsi danneggiate o troppo vecchie vengono eliminate dalle cellule immunitarie cerebrali, garantendo la salute neurologica.

    Anche se questa assidua attivitá di controllo e vigilanza passa quasi completamente inosservata, il sistema immunitario è a tutti gli effetti una sorta di guardia del corpo che determina ogni aspetto della nostra salute. Per esempio, quegli stessi meccanismi che operano a tutela della nostra salute individuale sembrano avere un ruolo anche in altre funzioni essenziali, per esempio nella scelta del partner, aiutandoci a evitare accoppiamenti incestuosi che potrebbero danneggiare sicurezza e sopravvivenza collettive.

    Per parlare del sistema immunitario si ricorre spesso a immagini di tipo bellico: le truppe del nostro corpo combattono contro il nemico rappresentato dalle malattie servendosi di potenti cellule per operazioni di sorveglianza e spionaggio, incursioni mirate e attacchi atomici. Per restare in metafora, alla nostra difesa collaborano anche agenti segreti provvisti di capsule di veleno nel caso dovesse rendersi necessario un suicidio, e a essa è collegata una fra le reti di telecomunicazioni più complesse e veloci al mondo. Questo apparato gode anche di una autonomia praticamente unica rispetto a qualsiasi altro componente della biologia umana. Esso si muove liberamente nel nostro corpo e nei nostri organi. Come la polizia in un periodo di legge marziale, il sistema immunitario va in cerca di possibili minacce e impedisce loro di provocare danni mortali, individuando abilmente fino a un miliardo di diversi pericoli provenienti dall’esterno, alcuni dei quali non ancora scoperti dalla scienza.

    Si tratta di un compito straordinariamente complesso, considerato che la vita e il nostro corpo sono come un festival chiassoso, un party scatenato, un ritrovo caotico ed esuberante popolato da tutta una varietá di cellule. Ne esistono a miliardi: cellule tissutali e sanguigne, proteine e molecole, microbi invasori…

    Il lavoro di sorveglianza del sistema immunitario è reso più complicato dalla natura stessa dei confini del nostro corpo. Quasi tutti gli organismi che vogliono entrare dentro di noi lo possono fare. Il nostro corpo è una festa alla quale tutti sono invitati, una casa aperta a tutti: ladruncoli e gang criminali, terroristi con cinture esplosive, cugini e parenti idioti e ubriachi, agenti nemici travestiti da amici, e nemici cosí strani e imprevedibili che sembrano teletrasportati da un altro universo.

    Eppure, nonostante l’esistenza di tutte queste minacce, la metafora bellica è fuorviante e parziale, e anzi probabilmente del tutto sbagliata. Il nostro sistema immunitario non è una macchina da guerra, ma una forza di pace che più di ogni altra cosa vuole creare armonia. Il suo compito è sorvegliare questa festa scatenata tenendo sotto controllo eventuali disturbatori e – questo è l’aspetto più importante – far sloggiare i cattivi provocando il minor danno possibile alle altre cellule. Questo non soltanto perché non vogliamo danneggiare i nostri stessi tessuti, ma anche perché abbiamo bisogno di molti degli organismi alieni che vivono sopra e dentro di noi, compresi i miliardi di batteri che risiedono nel nostro intestino. È stato scoperto che alcuni di questi microbi, invece di minacciarci, sono indispensabili alleati per il nostro corpo. La nostra salute dipende pertanto da un’armoniosa interazione con una moltitudine di batteri. Quando usiamo antibiotici o saponi antibatterici o ingeriamo tossine che danneggiano la flora intestinale, rischiamo di nuocere ai batteri che concorrono al funzionamento del nostro sistema immunitario.

    E quando le nostre difese si surriscaldano, bisogna fare attenzione.

    Proprio come una forza di polizia in un regime totalitario, un sistema immunitario fuori controllo puó diventare talmente zelante da essere pericoloso come qualsiasi altra malattia proveniente dall’esterno. È il caso dei disturbi autoimmuni, che sono oggi sempre più diffusi. Si calcola che ne soffra il 20 per cento della popolazione statunitense – 50 milioni di americani. Secondo alcune stime, il 75 per cento è composto da donne, colpite da patologie quali artrite reumatoide, lupus, morbo di Crohn e sindrome del colon irritabile (SCI), ciascuna delle quali terribile, logorante, debilitante e difficile da diagnosticare. Nel complesso, i disturbi autoimmuni rappresentano la terza categoria di patologie più diffuse negli Stati Uniti, dopo le malattie cardiovascolari e il cancro. Il diabete, per esempio, che è la principale causa di morte nel paese, è provocato dalla guerra scatenata dal sistema immunitario contro il pancreas.

    Negli ultimi decenni, grazie all’immunologia – la scienza che studia il sistema immunitario – abbiamo scoperto qualcosa di fondamentale: le nostre difese possono anche essere ingannate. Puó capitare che una malattia attecchisca e cominci a svilupparsi e a diffondersi, e questo punto imbroglia il sistema immunitario, facendogli credere di non essere troppo dannosa. Convince tutte quante le nostre difese ad aiutarla a crescere. A Jason è successo proprio questo.

    Il cancro ha giocato un brutto tiro al suo ingegnoso sistema di difesa. Ha assunto il controllo dei canali di comunicazione del suo sistema immunitario e ha convinto le truppe del suo corpo a non intervenire. Dopodiché ha usato il sistema immunitario per proteggere se stesso, facendosi passare per un tessuto nuovo, sano e prezioso. C’è mancato poco che Jason morisse.

    Il liquido limpido che goccia dopo goccia entrava nel petto di Jason quel felice venerdí 13 doveva esattamente servire a svelare finalmente l’imbroglio del cancro e istruire il suo sistema immunitario a reagire. Jason, uno fra i primi cinquanta pazienti al mondo a sperimentare uno dei più grandi progressi nella storia della medicina, non avrebbe mai immaginato che sarebbe diventato un pioniere in quel campo. Quel giorno si trovava all’avanguardia della scienza moderna, impegnata nella sfida contro una fra le malattie più tenaci e mortali di sempre.

    Quando fu chiaro che il caso di Jason avrebbe potuto essere una svolta in campo medico, decisi di mettermi a scrivere.

    Come giornalista del New York Times nonché amico di Jason, iniziai allora un viaggio per capire il sistema immunitario, come avessimo imparato a intervenire su di esso e che cosa questo significasse. Avrei scoperto una storia di eroiche conquiste scientifiche, una rete di ricerca globale che si snoda attraverso l’Europa, la Russia, il Giappone e gli Stati Uniti, in cui gli scienziati pervengono faticosamente a una rivelazione dopo l’altra. Quanto ho imparato ho deciso di esporlo per quadri e lezioni, storie private e grandi scoperte scientifiche che fanno di questo libro più un racconto che un manuale. È la storia dei meccanismi del sistema immunitario e dei suoi effetti su tutto ció che riguarda la nostra salute: sonno, condizioni fisiche e psicologiche, alimentazione, invecchiamento e demenza.

    L'autore con Jason Greenstein. 'Sono tornato.' (Nick Cote/New York Times)

    L’autore con Jason Greenstein. «Sono tornato.» (Nick Cote/New York Times)

    È anche la storia di Jason e di altri tre prodigi della medicina: Bob Hoff, un uomo con uno dei sistemi immunitari fra i più straordinari al mondo, e Linda Segre e Merredith Branscombe, due donne coraggiose che combattono contro un assassino invisibile – il loro stesso sistema immunitario iperattivo.

    Come Jason, anche loro stanno vivendo un momento epocale della ricerca scientifica, un’esplosione di conoscenza grazie alla quale gli scienziati stanno portando la nostra nuova comprensione del sistema immunitario al livello delle più grandi conquiste dell’umanitá.

    Secondo il dottor John Timmerman dell’Universitá della California, Los Angeles (UCLA), autore di pionieristiche ricerche in campo immunologico, queste nuove scoperte sono «importanti tanto quanto quella degli antibiotici». Nella lotta contro tutta una serie di malattie che hanno conseguenze sulla nostra aspettativa di vita e sulla qualitá della nostra esistenza, «in questo momento siamo come l’Apollo 11. Siamo atterrati. Eagle è atterrato».

    Al St Luke, quel giorno di venerdí 13, il farmaco entró goccia dopo goccia nel sistema di Jason per un’ora. Dopodiché, Beth guidó altri quarantacinque minuti per tornare a Boulder, dove Jason aveva in programma di assistere alla partita di basket di suo nipote Jack al Coors Events Center del campus dell’Universitá del Colorado. Quando arrivarono, Jason non aveva nemmeno la forza di salire le scale dello stadio, cosí un membro della famiglia convinse il personale a lasciarlo passare da un ingresso speciale che arrivava direttamente sul campo.

    Quello era il modo in cui Jason era abituato a entrare in uno stadio nel suo periodo d’oro: al centro dell’arena. Io stesso, decenni prima, seduto nelle tribune di quel medesimo stadio, avevo visto Jason infilare uno dei canestri più improbabili ed emozionanti mai visti in vita mia. Il tiro vincente, sganciato dal limite dell’area di tiro libero, arrivó sulla sirena del secondo tempo supplementare della partita, consentendo alla nostra squadra di avanzare nei play-off di Stato.

    Ora, dopo molti anni, Jason era seduto sugli spalti, mentre gli amici osservavano pensierosi il suo corpo svuotato, convinti che stesse assistendo alla sua ultima partita.

    «Aveva un pessimo aspetto» ricorda l’allampanato Danny Gallagher, un vecchio amico nonché ottimo tiratore ed ex compagno di squadra. «Mi chiedevo se sarebbe riuscito a superare la notte.»

    2

    IO E JASON

    La storia del sistema immunitario è ovviamente una storia di vita e di morte, una storia di sopravvivenza nelle condizioni più letali. Ma è anche una storia di lotta per la pace e l’armonia, per un’integrazione riuscita, una storia che parla di organismi e di migrazioni da un confine all’altro del nostro corpo, di destino, di evoluzione. È una storia di amicizia.

    I miei primi ricordi di Jason sono legati al baseball. Avevamo dieci anni. La nostra squadra dei pulcini era sponsorizzata da McDonald’s: divise bianche bordate di giallo. Jason aveva una gran zazzera di capelli e un sorriso quasi altrettanto ampio. Nella foto di gruppo, lui è il secondo da sinistra nella fila di dietro; io sto in quella davanti: un bambino felice e sicuro di sé a scuola, ma desideroso di attenzioni e che tentava di nascondere l’insicurezza che gli veniva dall’essere più basso degli altri.

    Jason mi sembrava incarnare il vero ideale del ragazzo americano. Non era solo un ottimo atleta, ma era anche dotato di una naturale curiositá, gentile e con carisma da vendere. In seconda media sarebbe stato eletto miglior alunno della scuola. Gli altri studenti lo adoravano. Lo chiamavano Golden. E aveva tanto più fascino proprio perché era l’opposto di un bullo. «Coraggio, Rick!» mi urlava quando andavo in battuta, in genere per beccarmi tre strike. «La prossima volta» mi diceva quando tornavo in panchina.

    Jason: secondo da sinistra in alto; autore: in basso a destra, sotto il padre di Jason. (Per gentile concessione dell'autore)

    Jason: secondo da sinistra in alto; autore: in basso a destra, sotto il padre di Jason. (Per gentile concessione dell’autore)

    Avevamo peró anche alcune cose in comune, in particolare i nostri padri, per entrambi importanti figure di riferimento nella vita e nella nostra comunitá. Mio padre faceva il giudice nella nostra cittadina. Il padre di Jason, Joel Greenstein, era un apprezzato avvocato divorzista nonché allenatore della nostra squadra, l’allenatore dei pulcini della cittá, praticamente il nostro Walter Matthau, senza le parolacce e senza bottiglia. Teneva sempre un sigaro tra i denti, aveva un sorriso ironico e un umorismo pungente, inconfondibile a fondo campo nella sua giacca a vento blu scura degli Yankees. Se ne stava ritto in piedi in panchina, con una gamba appoggiata sul gradino, mentre con il pugno colpiva il guantone da ricevitore in pelle screpolata.

    Joel stravedeva per Jason e lo guidava con la delicatezza e la strategia di un bravo allenatore che abbia avuto la fortuna di ritrovarsi per le mani un autentico campione.

    «Jason adorava nostro padre» ricorda Yvette, la sorella di Jason. «Gli era cosí affezionato, e anche nostro padre lo adorava. Nostro padre era una persona piuttosto riservata, e poi c’era Jason che invece esprimeva sempre tutto… Emotivamente era davvero senza filtri: quello che aveva da darti in quel momento te lo dava.»

    Guy, il fratello maggiore di Jason, chiosa: «Mio padre era il suo guru».

    Per quanto invece riguardava l’attenzione alla salute, Murray, mio padre, e Jason erano invece molto diversi. Murray aveva scoperto il jogging all’inizio degli anni Settanta, diventando come molti altri un vero appassionato e arrivando a correre tredici maratone. Anche Joel era un tipo in forma, peró fumava il sigaro. E anche Cathy, la madre di Jason, fumava un pacchetto di sigarette al giorno. L’odore di tabacco permeava la casa dei Greenstein. Il fumo mette alla prova il sistema immunitario come poche altre abitudini umane; le microscopiche lesioni che esso provoca al tessuto polmonare molle non solo creano danni permanenti, ma costringono le cellule a dividersi per sostituire il tessuto intaccato. E la divisione cellulare aumenta la possibilitá di mutazioni, e quindi di cancro. Si tratta di semplice matematica, e puó essere letale.

    *

    In terza media, Tom Meier, uno fra gli amici più cari di Jason, si trovava nella palestra della scuola. Dalla porta entró di corsa Golden. «Singhiozzava» ricorda Tom.

    Prima che Tom riuscisse ad attirare la sua attenzione, Jason si diresse verso lo spogliatoio. Tom lo seguí. Jason si sedette sulla panchina dello spogliatoio.

    «Che c’è, J?»

    «Mio papá sta morendo.»

    Aveva saputo che suo padre aveva un cancro al colon.

    Quarant’anni dopo, Tom ha ancora le lacrime agli occhi mentre mi racconta questa storia. «Era la persona più forte che avessi mai conosciuto» spiega, «ed era completamente distrutto.»

    Sempre più emotivamente alienato, Jason sembrava insensibile al male che stava consumando suo padre. In seconda media, si candidó alla presidenza del consiglio studentesco. Il suo discorso trasudava disinvoltura e sicurezza di sé. Disse a tutti ragazzi che non si sarebbe mai arreso.

    «Se saró eletto, cercheró sempre di impegnarmi e di non perdere mai la mia energia o la mia vitalitá.» Fece una sola promessa: «Faró del mio meglio e ce la metteró tutta per voi se saró eletto presidente».

    Se. Ovviamente fu eletto.

    In seconda superiore Jason mise a punto una filosofia di vita che nella sua meravigliosa ingenuitá ci avrebbe guidati per alcuni splendidi anni. Trovó anche un nome per il nostro gruppo di amici: la Societá dei Preoccupati (SdP).

    Jason, io e altri cinque di noi – Josh, Noel, Tom, Adam, Bob, insieme ai quali formavamo una compagnia molto affiatata – cominciammo a vivere secondo questa filosofia. I principi della SdP erano praticamente l’opposto di quelli che il suo nome potrebbe lasciar immaginare. Secondo Jason non avremmo dovuto mai preoccuparci troppo di nulla. Preoccuparsi era per chi aveva perso la giusta prospettiva.

    Ma, come ogni altra filosofia di vita o religione, anche questa rischiava di ripiegarsi su se stessa, rivelando le proprie contraddizioni. A uno sguardo più attento eravamo naturalmente preoccupati per ogni genere di cose, spaventati a morte e insicuri, nonostante la nostra condizione di privilegiati. Come avremo modo di vedere, questo tipo di alienazione puó provocare ansia e malattie, legate al modo in cui il sistema immunitario gestisce lo stress. Ma all’epoca, visti da fuori, davamo l’impressione di studenti bravi e fortunati, di atleti in gamba, i cosiddetti tipi giusti. E Jason più di tutti gli altri. In terza superiore, fu autore di un’impresa eccezionale.

    Giocando con i ragazzi delle classi più grandi, Jason condusse le Pantere della Boulder High School in una straordinaria corsa fino ai play-off dei campionati scolastici statali di basket del 1984. Era alto appena un metro e settantacinque e non era l’unica stella della squadra – c’erano diversi compagni più grandi di lui e altrettanto forti – ma grazie alla sua impareggiabile energia era indiscutibilmente il collante del team nonché sua guardia tiratrice e mascotte.

    L’allenatore della squadra, una specie di Bobby Knight di nome John Raynor, pensava che fosse indistruttibile. «Giocava sempre a tutta» ricorda. «Magari finiva per terra e si rialzava che zoppicava… Io mi chiedevo: Resisterá fino alla fine?

    Noi membri della SdP ce ne stavamo seduti in tribuna, con dipinte sui volti le zampette viola delle nostre Pantere, perché tutto il maledetto stato del Colorado potesse vedere di che pasta eravamo fatti.

    Seduto non lontano da noi, ridotto ormai a un’ombra in lotta per la vita, Joel guardava il figlio adorato.

    La partita era cominciata male.

    Jason, che giá era uno dei più piccoli in campo, soffriva per una distorsione alla caviglia che si era procurato nella partita precedente. Segnó solo quattro punti. I due migliori tiratori delle Pantere furono imprecisi. Punteggio finale: 52-42.

    Pochi mesi dopo, il 13 luglio 1984, Joel Greenstein morí. Aveva cinquant’anni.

    Jason venne informato e tornó a casa, e trovó suo padre disteso su una barella nel soggiorno, circondato da infermieri. Scoppió a piangere. Non credeva che sarebbe davvero potuto accadere.

    In seguito mi avrebbe detto: «Ci sono due cose che odio in questo mondo: gli ospedali e il cancro».

    Secondo alcuni membri della sua famiglia fu come se la morte del padre lo avesse privato di una guida, lasciandolo fisicamente, spiritualmente ed emotivamente allo sbando. Dopo la scomparsa di Joel, Jason cominció a correre sempre più forte, ma come un cavallo senza più fantino. Era come se avesse sempre il piede pigiato sull’acceleratore: inizió a viaggiare per il mondo – andó a insegnare in Giappone, attraversó l’America Latina – e a collezionare diplomi di laurea. Più o meno. Non avendo mai pagato le tasse di iscrizione, non poté mai ritirare ufficialmente la laurea in legge. Divenne un imprenditore seriale e solitario, vendendo servizi di telefonia mobile, Crocs al centro commerciale, frullatori ai ristoranti. Aprí un’azienda che noleggiava camper agli sciatori. Si gettava in ognuna di queste sue avventure con l’entusiasmo di un ragazzino convinto di aver appena avuto l’idea della vita.

    Anche se potrebbe sembrare che, con un simile stile di vita, egli stesse mettendo a rischio la propria salute, fui io il primo ad ammalarmi. Terminata l’universitá, crollai sotto il peso delle mie eccessive e avventate ambizioni, senza avere un’idea di quali fossero le mie vere passioni. Arrivarono ansia e insonnia. Per sopravvivere dovetti ritrovare me stesso. Ne uscii scoprendomi una persona fondamentalmente soddisfatta di quello che era e pronta a seguire la sua vocazione senza paura.

    Alla fine degli anni Novanta, io, guarito e felice, e Jason, avventuroso e mai a corto di idee imprenditoriali una più folle dell’altra, eravamo legati da una profonda e autentica amicizia. A unirci erano il nostro entusiasmo, i ricordi dei vecchi tempi e la capacitá di non prenderci troppo sul serio mentre seguivamo convinti le nostre rispettive muse. Finché il destino non bussó alla porta di Jason.

    Il 9 maggio 2010 Jason atterró in un aeroporto di Phoenix in una splendida serata. Era domenica e aveva trascorso il fine settimana a una fiera del settore del gioco d’azzardo a Biloxi, Mississippi. La sua ultima avventura imprenditoriale concerneva la vendita di scatoline smaltate prodotte in Cina che i casinó davano in omaggio ai clienti più affezionati o come premi per i gratta e vinci. Aveva chiamato la sua azienda Green Man Group.

    Era Jason all’ennesima potenza. Viveva a Las Vegas, la frontiera degli appassionati del gioco d’azzardo, vendeva ninnoli scintillanti a sognatori come lui e viaggiava per il paese visitando i sempre più numerosi casinó per ingraziarsi i proprietari e convincerli che i suoi gadget avrebbero accresciuto esponenzialmente la fedeltá dei loro clienti. Guidava una Chrysler Concorde del 1982, un modello che rappresentava «il 98% delle ultime auto degli ebrei. Ora tutti quegli ebrei sono morti o non possono più guidare, oppure hanno venduto l’auto a una famiglia messicana. E tutte queste auto ormai appartengono a una famiglia messicana. Tutte tranne la mia».

    Dicendomi queste parole, scoppió nella sua caratteristica risata acuta, consapevole forse di aver esagerato un pochino, o magari invece proprio per il contrario: perché davvero pensava che fosse divertente. Ed era quasi impossibile non ridere con lui. Era Jason nel suo elemento: l’aria calda, i finestrini abbassati, un’avventura che lo attendeva in fondo alla strada. «Mi piaceva guidare nel deserto, essere sulla strada.»

    Tornando a Las Vegas si era fermato a Phoenix perché aveva degli affari da sbrigare in Arizona. Quando, dopo nove giorni di viaggio, atterró, scoprí che la compagnia aerea aveva smarrito il suo bagaglio, dove c’erano anche i suoi gadget. Fu costretto a restarsene lí ad aspettare che glielo riconsegnassero. Cominció a sentire un pizzicore in gola. Sono cose che capitano nel deserto, pensó. Avró una qualche allergia, oppure mi sono beccato uno streptococco o un virus alla gola.

    Passó la notte in un motel a mezz’ora dall’aeroporto e al mattino si sentiva uno straccio. La cosa lo infastidí parecchio. «Era una bella giornata di maggio, e stavo davvero da schifo, avevo mal di testa.» Per tirarsi su, fece quello che faceva di solito quando guidava: si infiló una presa di tabacco fra il labbro e la gengiva. «Ho masticato come un pazzo.» Poi, siccome stava ancora male, si fermó per uno spuntino a un distributore.

    Era lí, sulla strada, l’unico posto dove si sentiva davvero felice, e stava di merda.

    «Jason è come quelli che ai tempi dei pionieri decidevano di andare a ovest» spiega sua sorella Natalie. «Avrebbe abbandonato la cittá e avrebbe corso il rischio di incontrare gli indiani o chissá che altro.» Natalie non è sicura se quella fosse soltanto una posa o se fosse invece una conseguenza reale della morte del padre. «Quando nostro padre è morto, è stato come se qualcosa in lui si fosse rotto o fosse cambiato.» Sistemarsi, rallentare… Non erano cose alle quali Jason pensava. Lui aveva le sue idee e le perseguiva anche se gli altri lo guardavano con tanto d’occhi. Come il rimedio casalingo che escogitó qualche settimana dopo per curarsi quel mal di gola.

    Jason viveva a Las Vegas con – indovinate un po’ – una spogliarellista. La ragazza aveva affittato una stanza nella casa che la madre di Jason aveva comprato come investimento per il figlio per 175.000 dollari. Era una specie di ranch con tre camere da letto e una piscina sul retro costrui­to nel 1947. Il periodo di massimo splendore del quartiere si era esaurito molto prima che i Greenstein comprassero. A un certo punto, sull’altro lato della strada era vissuto anche un magnate del gioco d’azzardo. Jason aveva in programma di ristrutturare la casa da cima a fondo, o almeno questo era quello che diceva di voler fare.

    Il rapporto con la spogliarellista era strettamente platonico, e a Jason andava benissimo cosí. Del resto, lui aveva giá Beth.

    Il venerdí successivo, cinque giorni dopo, non era ancora riuscito a sbarazzarsi dei sintomi. «Ho fatto quello che la maggior parte della gente avrebbe fatto» mi avrebbe raccontato con una risata. «Sono uscito venerdí sera tardi, mi sono comprato una cassa di birra e mi sono ubriacato per provare a togliermi il freddo che mi sentivo addosso.»

    Jason si sveglió la mattina seguente sentendosi peggio. «Ho provato a bere per farmela passare, ma non ha funzionato molto bene.»

    Chiamó Beth, e lei gli disse: «Dovresti andare dal dottore». Jason andó, gli fecero un prelievo e notarono un linfonodo ingrossato sul collo. Il medico pensó che avesse la mononucleosi e gli prescrisse un antibiotico. Ma le medicine non funzionarono.

    «Non sono servite a niente.»

    Ogni estate, Jason tornava con sua madre a New York per trovare i parenti. Lei odiava volare. Lei e Jason avevano un rapporto di dipendenza e affetto reciproco che era facile prendere per un incontro di lotta libera, almeno di tipo verbale. Litigavano spesso, alzando ogni volta la voce come attori consumati.

    «Ma’, mi stai ascoltando? Non mi sento bene.»

    «Jason, se non ti senti bene, va’ a letto!»

    «Sto bene, ma’. Ti accompagno a New York.»

    «Bene, Jason. È carino da parte tua.»

    Jason guidó fino in Colorado, prese la madre e insieme si diressero a est. Mi sento debole, pensó. Quando arrivarono a Bayside, nel Queens, per il viaggio che annualmente li riportava nel luogo di origine della loro famiglia, era la metá di giugno. Giunto a casa di sua zia Rose, Jason non riu­sciva a scendere dal divano.

    «Mi sembrava di essere come mio padre quando si era ammalato. Non gli era mai successo prima» ricorda Jason.

    Jason non aveva un medico. In realtá, non aveva nemmeno un’assicurazione sanitaria decente.

    «Avevo appena comprato online un’assicurazione sanitaria che era un bidone. Era una specie di polizza di emergenza. Il cancro non era previsto. Mi copriva le spese solo fino a mille dollari. Ma era cosí che vivevo… Era come se avessi scommesso una bottiglia di Captain Morgan

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