Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Brave, il coraggio di parlare
Brave, il coraggio di parlare
Brave, il coraggio di parlare
E-book230 pagine5 ore

Brave, il coraggio di parlare

Valutazione: 4 su 5 stelle

4/5

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Rose McGowan è cresciuta in una setta religiosa, e da adulta è entrata a far parte di un'altra setta, molto più visibile: Hollywood.
Nata e cresciuta nel ramo italiano dei Bambini di Dio, dal quale è fuggita di notte con la famiglia attraverso i campi di grano, si è trasferita negli Stati Uniti e a tredici anni è scappata di casa. Per un periodo ha vissuto per strada come una punk, finché non è stata "scoperta" a Los Angeles e nel giro di una notte è diventata una delle attrici più desiderate di Hollywood.
In quello strano mondo in cui era continuamente in mostra, esposta al giudizio del pubblico, vista come un oggetto sessuale, ben presto la fama si è trasformata in un incubo. Rose si è rifugiata allora nello spazio privato della propria mente, come era solita fare da piccola, e in relazioni di reale valore. Ogni dettaglio della sua vita personale è diventato pubblico, e la realtà di un'industria fortemente sessista è emersa in ogni copione, ruolo, apparizione pubblica e copertina. La macchina di Hollywood l'ha confezionata come un sex-symbol, si è appropriata della sua immagine e della sua identità e l'ha commercializzata per trarne profitto.
Hollywood si aspettava che Rose sarebbe rimasta in silenzio, che avrebbe collaborato e avrebbe continuato sulla stessa strada di sempre. Lei invece si è ribellata, ha affermato la propria identità e fatto sentire la propria voce. Una voce spontanea, coraggiosa, vittoriosa, arrabbiata, intelligente, feroce, sfacciata, controversa e soprattutto autentica.
A metà tra un memoir e un manifesto, BRAVE è un libro crudo, onesto e intenso, che racconta senza remore e senza esclusione di colpi l'ascesa di un'icona dei millennials: attivista intrepida e forza inarrestabile verso il cambiamento, Rose McGowan ha scelto di rivelare la verità sul mondo dello spettacolo, smantellare il concetto di notorietà e mettere sotto i riflettori un mondo multimilionario costruito sulla misoginia, per dare a tutte le persone in ogni parte del mondo la possibilità di aprire gli occhi ed essere coraggiose.
Un libro rivelatore e rivoluzionario, un memoir che è un manifesto di vita e una voce per le generazioni future.
LinguaItaliano
Data di uscita15 feb 2018
ISBN9788858983072
Brave, il coraggio di parlare
Autore

Rose Mcgowan

Rose McGowan Scrittrice, regista, cantante, icona, imprenditrice, femminista convinta, ha acceso i riflettori sulle ingiustizie e le ineguaglianze nell'industria dell'intrattenimento e non solo. Leader di un movimento che si propone di rompere il silenzio, ha dato voce alla lotta per smantellare lo statu quo. E grazie alla piattaforma che ha creato, #ROSEARMY, ha fatto sapere al mondo che è arrivato il momento di cambiare modo di pensare e diventare migliori. Rose si è affermata sul grande schermo grazie al ruolo di protagonista in film come Doom Generation, Scream, Amiche cattive e Grindhouse. Ha recitato in Streghe, una delle più longeve serie con protagoniste esclusivamente femminili nella storia della televisione, e Dawn, il cortometraggio con cui ha esordito nei panni di regista, ha ricevuto una nomination per il Gran premio della giuria al Sundance Film Festival.

Correlato a Brave, il coraggio di parlare

Ebook correlati

Biografie e memorie per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Brave, il coraggio di parlare

Valutazione: 4 su 5 stelle
4/5

1 valutazione0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Brave, il coraggio di parlare - Rose Mcgowan

    sopravvissute

    Prefazione

    «Ti sei lasciata con qualcuno?»

    All’inizio la domanda mi faceva arrabbiare. Alle mie orecchie suonava sessista, stereotipata, scoraggiante. Nessuna relazione finita poteva suscitare in me un desiderio di libertà tanto forte da spingermi a cambiare radicalmente il mio aspetto. Più sentivo quella domanda, più riflettevo sulle mie ragioni, e a un certo punto ho capito che in effetti mi ero lasciata con qualcuno: con voi. Con il voi collettivo, con il voi che identifica la società. Avevo chiuso con l’ideale hollywoodiano che avevo contribuito ad alimentare, con l’immagine della donna perfetta che tutte le protagoniste di pubblicità di shampoo vogliono vendervi sussurrando: «Ecco il segreto della seduzione, il segreto per attrarre gli uomini». Capelli lunghissimi e lucenti, degni di una Kardashian, che gridano: «Prendimi e scopami, ragazzone». Come a dire che la nostra identità si riduce a questo, ai capelli. Come se non potessimo essere nulla di diverso. È per questo che vi ho lasciati, anche se l’intero processo ha richiesto anni; ci è voluto parecchio tempo per risvegliarmi dal torpore, per liberarmi dal lavaggio del cervello.

    I capelli lunghi mi hanno sempre messa a disagio, facevano sì che il mio vero io scomparisse sotto lo sguardo degli uomini. Li usavo per coprirmi il viso, per tenermi sotto controllo, per dormire. E la vera Rose ha dormito davvero, mentre quella finta conduceva una strana vita alternativa in cui interpretava il ruolo di una donna che interpretava altri ruoli.

    Ho quasi sempre avuto i capelli corti, li preferivo: le vecchie star del cinema e le punk che ammiravo di più li portavano così. Mi piaceva essere un individuo, avere un aspetto androgino, a metà strada tra il maschile e il femminile. I due periodi in cui ho avuto i capelli lunghi sono stati i più difficili della mia vita, quelli in cui mi sono sentita più distante dalla mia vera identità: da adolescente, quando ho sofferto di un grave disturbo alimentare, e più avanti, quando ho sofferto di un disturbo psicologico chiamato Hollywood. Il secondo è durato molto più del primo, ma entrambi dipendevano dal fatto che non ero presente a me stessa e sono stati causati dalla principale macchina della propaganda al mondo… Hollywood, per l’appunto.

    Mi era stato detto che, se avessi avuto i capelli corti, gli uomini che scritturavano le attrici non avrebbero voluto scoparmi e quindi non mi avrebbero scelta. Il consiglio proveniva dalla mia manager, una donna, ed era tragico sotto molti punti di vista, crudele e profondamente triste: crudele perché arrivava da una donna più matura di me che conosceva bene le richieste di Hollywood, triste perché aveva ragione. Questo messaggio prima o poi arriva a ogni donna e ragazza («Se non hai i capelli lunghi non puoi essere sexy»), ma io lo scoprii in modo diretto, una comunicazione inequivocabile su cosa volessero gli uomini.

    Be’, vaffanculo a Hollywood, al messaggio, alla propaganda, agli stereotipi.

    Le Jennifer Lawrence, le adorate e adorabili ragazze della porta accanto, hanno semplici capelli biondi; le donne problematiche ce li hanno neri, lunghi e appariscenti. Questo impone la regola, ed è meglio non infrangerla. I miei capelli lunghi erano bellissimi, da reginetta di bellezza. I miei parrucchieri erano uomini gay che mi vedevano – o almeno così dicevano – come una Barbie in carne e ossa. A me sembrava più che altro di assomigliare a una bambola gonfiabile, di quelle con un buco al posto della bocca. La macchina di Hollywood mi aveva trasformata nel sex toy definitivo. Gli uomini e le donne pagati per trasformarmi in quella fantasia facevano un ottimo lavoro, eppure dentro mi sentivo morire e mi vergognavo del mio aspetto. Nella mia vita, però, c’erano così tante cose che non funzionavano che non sapevo da dove cominciare per cambiarle.

    Ho conosciuto un sacco di donne e ragazze che consideravano i propri capelli uno strumento di conforto e qualcosa dietro cui nascondersi. È una situazione straziante in cui mi riconosco. Se lo desideriamo, naturalmente, siamo libere di portare i capelli lunghi, ma bisogna riflettere sulle ragioni che ci spingono a volerlo. In che misura la società ci dice quale aspetto dovremmo avere? In che misura la società ci mostra come dovremmo essere? Se ci nascondiamo dietro ai nostri capelli, chiediamoci perché lo facciamo, da cosa fuggiamo.

    Rasarmi a zero non è stato solo un grido di battaglia; ha anche risposto alla domanda che mi dava tanto sui nervi.

    Mi ero lasciata con qualcuno?

    Sì, con il mondo.

    E chiunque può farlo.

    Mi chiamo Rose McGowan e ho il coraggio di parlare.

    Introduzione

    C’era una volta una famosa attrice di nome Frances Farmer, che odiava ogni aspetto della vita posticcia che conduceva e desiderava essere libera. Cercò di sfuggire alla fama e all’ambiente tossico e dominato dagli uomini di Hollywood, ma i produttori la tenevano in pugno e la fecero internare in un ospedale psichiatrico. Non aveva alcun problema mentale, voleva soltanto non essere famosa. Implorò e supplicò che la sua vita fosse risparmiata, e non venne ascoltata. Fu legata a un lettino e sottoposta all’elettroshock. Una scarica, un’altra, un’altra ancora. L’autorità in carica a Hollywood, composta esclusivamente da uomini, voleva che Frances diventasse e rimanesse una brava bambina obbediente. Alla fine, della donna che era stata rimase solo un guscio vuoto, un involucro. Frances non fu più la stessa, e soltanto perché aveva rifiutato di essere venduta come un prodotto di intrattenimento.

    Sono pochissimi i sex symbol che riescono a fuggire da Hollywood conservando intatta la sanità mentale, ammesso che riescano a sopravvivere: le strade di Hollywood sorgono sui cadaveri dei deboli, di chi ha avuto la peggio, di chi ha ascoltato solo bugie, di chi è stato ferito. Lo so perché ho rischiato di essere una di loro. Se credete che ciò che accade a Hollywood non vi riguardi, vi sbagliate di grosso. Chi pensate che organizzi la vostra realtà, miei cari? Chi vi mostra chi e cosa volete essere?

    Intendo parlare apertamente di una malattia interiore che in pochi, pochissimi, affrontano: quella che colpisce chi si guarda nello specchio distorto creato da Holly­wood, che influenza la vostra vita in modi che neppure sospettate. Di fronte a questo specchio usate i vostri occhi, ma non la vostra mente.

    Nel periodo in cui anch’io sono stata venduta come un prodotto qualsiasi, ho contribuito a modellare il vostro cervello. Mi sono insinuata nella vostra mente come una professionista. Ero la sigaretta di cui, secondo i pubblicitari, non potevate fare a meno. E sono stata pure dall’altra parte della barricata; vi ho osservati, studiati, impersonati, come fanno tutti coloro che lavorano a Hollywood, nel campo dei media e della comunicazione. Dovete sapere che siamo bravissimi, perché conosciamo il modo migliore per venderci, per convincervi a comprarci; per trasmettere ciò che noi vogliamo ai vostri cervelli, pensieri e portafogli. E funziona: alla fine acquistate una realtà falsa pagando il prezzo ridicolo di un biglietto del cinema.

    Gli uomini che erano convinti di possedere me sono convinti di possedere voi. Sono gli eredi di una lunga dinastia di venditori di miti, dagli uomini che hanno diffuso la Bibbia ai moderni creatori di contenuti: persone egomaniacali e assurdamente piene di sé che abusano del proprio potere. E in questo momento storico sono più pericolose che mai. A Hollywood in pochissimi si sono ribellati, e tra questi non ci sono attrici donne: è un organismo che adotta comportamenti mafiosi per proteggere la propria famiglia, soprattutto se è composta da uomini bianchi e ricchi. Forse sembrano parole troppo forti, ma sono vere. Mio malgrado, la situazione è questa.

    Raccontando la mia storia personale voglio fare chiarezza, dire a coloro che pensano che Hollywood non vada presa sul serio che si sbagliano. È un giro d’affari in piena regola, un’industria che ama vincere a ogni costo. Forse credete che la questione si limiti ai soldi che spendete per un biglietto del cinema o per l’abbonamento alla tv via cavo, ma l’intrattenimento che cercate ha un prezzo molto più alto: la vostra mente, i vostri atteggiamenti, i vostri comportamenti, ovvero cose che non dovrebbero avere un prezzo. Nella nostra società, in cui la tv è onnipresente, ciò che guardiamo e consumiamo fin dalla nascita ci forma, di continuo. Anche chi ha deciso di prendere le distanze da questa falsa realtà deve restare all’erta per non cadere nelle bugie veicolate da messaggi incredibilmente potenti e dannosi, insidiosi e diffusissimi.

    Come scoprirete leggendo, la mia vita mi ha condotta da una pericolosa setta all’altra, fino alla più nociva di tutti: Hollywood, dotata di una capacità di distruzione paragonabile a quella di una bomba atomica. Il libro che avete tra le mani racconta la mia battaglia per uscire da queste sette e riprendere il controllo della mia esistenza. Voglio aiutarvi a fare lo stesso.

    Potete dire basta.

    Potete diventare persone più libere.

    Potete svincolarvi dalle trappole che vi vengono tese, perché credetemi: esistono.

    Ho scritto questo libro perché voglio intavolare una discussione concreta con il pubblico, con voi. Sapere che le mie parole entreranno nella vostra consapevolezza e coscienza, che i miei pensieri occuperanno la vostra mente è un onore e una responsabilità che prendo molto sul serio.

    In un certo senso, questo libro è un servizio che voglio rendere alla società.

    Hollywood è un mondo corrotto che diffonde corruzione.

    Brave non svela degli oscuri segreti; racconta le cose come stanno.

    PARTE PRIMA

    I Bambini di Dio

    Personalmente, vedo sette dappertutto.

    Se siete appassionati alle vicende delle Kardashian, fate parte di una setta. Se dopo aver guardato la vostra serie tv preferita entrate in chat o postate su un forum per parlarne con altri fan sfegatati, analizzando nel dettaglio ogni singolo episodio, fate parte di una setta. Se vi affidate principalmente a una fonte di notizie – soprattutto se è imparziale ed equilibrata – fate parte di una setta, state delegando la vostra vita a qualcun altro. Se votate alla cieca per qualcuno, fate parte di una setta. Se siete immersi nella macchina della propaganda del vostro paese, fate parte di una setta. Guardatevi intorno: le sette sono ovunque, ne siamo circondati. Il pensiero e la mentalità di gruppo sono onnipresenti, e quindi tutti facciamo parte di una setta.

    Il primo passo per liberarsi dai condizionamenti di una setta è ammettere di farne parte. Lo so bene, dato che sono fuggita da due delle sette più iconiche della storia.

    Se mi avete conosciuta come attrice, devo avvisarvi che quella non ero davvero io: ero semplicemente una persona che interpretava un’attrice. Ero intrappolata dai rigidi ideali della società e dalle aspettative di genere che mi erano stati imposti da persone che non avrebbero dovuto nemmeno avvicinarsi a me (né a voi). Mi avevano riempito la testa di stronzate. In passato avevo rifiutato il lavaggio del cervello, ma la setta del pensiero di Hollywood riuscì a soggiogarmi.

    La mia esistenza cambiò per sempre il giorno in cui diventai un pixel, trasmesso a un satellite in orbita nello spazio e ritrasmesso sulla Terra, dove riempivo salotti, camere da letto, vite. Il mio compito era distrarvi almeno per un po’ dalle vostre preoccupazioni, farvi provare empatia, farvi provare qualcosa, e prendevo quel compito molto seriamente. Come però accade in tante sette, in quanto donna ero considerata un oggetto da possedere, venivo venduta per il piacere del pubblico. Uomini (e donne) profondamente influenzati e condizionati si sono arricchiti vendendo il mio seno, la mia pelle, i miei capelli, le mie emozioni, la mia salute, me stessa. Gran parte della società e la setta di Hollywood, pervasa dal complesso madonna-puttana, non mi rispettavano né stimavano.

    Immaginate che l’azienda per cui lavorate misuri il vostro valore in base alla quantità di sperma che riuscite a ottenere da perfetti sconosciuti: se degli uomini si masturbano guardando i vostri film, avrete pure un qualche valore, giusto? Se vi sembra la descrizione di una prostituta, sappiate che avete visto giusto.

    Immaginate che tutte le parole che avete pronunciato per diciassette anni, ogni giorno di ogni mese, in ogni scena girata, siano battute scritte per voi da un uomo dalla mentalità più che ristretta. È una situazione paradossale e anormale.

    Ho impiegato molto tempo a capire di essere finita nell’ennesima setta, perché ero troppo occupata a interpretare altre persone, anziché essere me stessa. Raccontare la storia della mia vita significa riappropriarmene.

    Partiamo dall’inizio.

    Sono venuta al mondo in una stalla in pietra che sorgeva nel paesino di Certaldo, immerso nella campagna fiorentina, grazie a una levatrice cieca. C’è un modo di dire che recita: «Chiudi quella porta! Sei forse nato in una stalla?!», quindi immagino di non essere tenuta a chiudere nessuna porta a meno che non voglia farlo. È un mio diritto di nascita, come quello di essere votata alla stranezza.

    La stalla si trovava sulla proprietà del duca di Zoagli, meglio conosciuto come duca Emanuele. Dopo essersi unito alla setta dei Bambini di Dio, donò alla comunità i propri terreni e la propria tenuta; lì viveva la sorella Rosa Arianna, che però disprezzava i membri della setta. I miei genitori mi chiamarono Rose in suo onore, forse per entrare nelle sue grazie. Non funzionò.

    Il panorama, con le colline dai profili dolci, i cipressi verde scuro e gli ulivi dalle foglie argentee, era splendido. C’erano vigneti, frutteti, enormi e antichi vasi di terracotta pieni di gerani rossi. Insomma, un posto niente male per una setta.

    In realtà era davvero incredibile: già da bambina mi rendevo conto di quanto fosse straordinariamente bello e fuori dal comune. La natura era il luogo in cui mi rifugiavo per sfuggire alla situazione in cui mi trovavo. Da allora sono sempre stata attratta dalle forme, dai colori e dalla luce, e la campagna italiana mi ha sempre ossessionata (in senso positivo).

    Ricordo che, fin da piccola, sentivo parlare moltissimo di un uomo vecchio e spaventoso, David Berg, conosciuto anche come Mosè David, l’intrepido leader dei Bambini di Dio. Comunicava le sue direttive in un pamphlet a fumetti intitolato Le lettere di Mo e, qualsiasi cosa scrivesse, i seguaci obbedivano. Ogni volta che arrivava una nuova lettera sembrava che fosse stato il sovrano dell’universo (un po’ come il capo di una casa di produzione hollywoodiana) a parlare. Oltre a definirsi un profeta, Mosè David era anche il re dei viscidi, ma non tutti lo sapevano e alcuni non l’avrebbero mai scoperto.

    Ricordo gambe pelose, maschili e femminili, come la bambina di un cartone animato che dalla sua prospettiva vede solo quella parte del corpo degli adulti. Ricordo che cantavamo, pregavamo, battevamo le mani e schioccavamo le dita. Avete letto bene: dovevo stare seduta per tutto il giorno e imparare a schioccare le dita, altrimenti Dio non mi avrebbe insegnato a guidare quando avessi compiuto sedici anni. Quei discorsi per me non avevano alcun senso, ma già a quell’età intuivo che era assurdo pensare che schioccare le dita alla perfezione fosse la chiave del successo.

    Una sera, una donna dall’aspetto spettrale che indossava una vestaglia bianca entrò nella stanza in cui mi trovavo. Sembrava un’ombra con una candela in mano (non avevamo l’elettricità). C’era un temporale e ricordo le persiane di legno che sbattevano contro la vecchia finestra; avevo paura che il vetro si rompesse, ma di colpo quel timore passò in secondo piano: ero completamente concentrata sulla signora in bianco seduta ai miei piedi. Il vento fischiava tra le pietre della casa e faticavo a sentire cosa dicesse la donna. Quando le raffiche si calmarono, lei mi guardò dritto negli occhi e chiese: «Hai fatto entrare Dio nel tuo cuore?».

    Raddrizzai le spalle, la fissai, ci pensai bene e scossi la testa.

    La donna mi pizzicò un piede, torcendo la pelle. Sapendo che la sua intenzione era di farmi piangere, decisi di non cedere. A quel rifiuto corrispondeva un castigo, una punizione corporea, schiaffi e sculacciate, per evitare che crescessimo viziati. Aumentò la stretta e mi morsi il labbro inferiore per resistere. Continuai a fissarla, sfidandola in silenzio.

    La donna mi rivolse di nuovo la stessa domanda, ma in tedesco: «Hast du Gott in dein Herz gelassen?».

    Ci pensai ancora e risposi: «No, oggi no. Magari domani».

    Mi diede uno schiaffo in faccia, forte.

    Ero solo una bambina ma sentivo che, se avessi fatto ciò che gli adulti volevano, avrei lasciato entrare il loro Dio nel mio cuore; non sarebbe più stato il mio, verso il quale mi sentivo molto protettiva. Il loro Dio era crudele, non capivo ciò che predicavano, le loro azioni non corrispondevano alle parole che pronunciavano. Non volevo appartenere a quella realtà.

    In seguito mia sorella Daisy mi supplicò di dire di sì per semplificarmi la vita, tuttavia continuai a cercare e accettare la punizione. Coerente con il mio nome ero ricoperta di spine, mentre lei era una ragazzina dolce dai capelli color dell’oro. La fissavo, chiedendomi come fosse diventata così e perché non riuscisse a vedere ciò che stava accadendo. Era strano crescere in quell’ambiente e sentirmi ripetere che non appartenevo al mondo esterno… sapendo che non appartenevo neppure al mondo racchiuso tra quelle mura.

    Quando nelle sere seguenti quella donna (o un’altra, oppure un uomo) tornò, diedi sempre la stessa risposta: «No, non ho fatto entrare Dio nel mio cuore».

    Schiaffo.

    Una sera udii i sussurri in tedesco e i passi attutiti della donna, ed ebbi la certezza che mi avrebbe fatto di nuovo male.

    «No.»

    Schiaffo.

    Quando se ne andò vidi che aveva lasciato una Bibbia sul materassino su cui dormivo (noi bambini non avevamo letti, ma sottili materassi di plastica arancio o azzurri), e la nascosi dietro un armadio. Ogni giorno ne strappavo una pagina e la facevo a pezzettini che tenevo in bocca fino a trasformarli in un ammasso molliccio con cui plasmavo minuscoli animali. Nascondevo anche quelli dietro l’armadio e, non appena ne avevo il tempo, andavo a trovarli: erano i miei giochi, fatti di saliva e Gesù. Pensavo che, mangiando (nel vero senso della parola) il loro Dio, avrei finalmente potuto dire di averlo fatto entrare dentro di me; magari avrebbero smesso di picchiarmi.

    I colpi, gli schiaffi e le spinte rafforzavano il messaggio della setta: non c’era spazio per l’imperfezione. A quattro anni mi venne una verruca sul pollice. Un giorno stavo camminando in un lungo corridoio quando all’improvviso si aprì una porta. Ricordo la luce e le particelle di polvere che si muovevano nell’aria. Un uomo

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1