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I'll be there for you. Dietro le quinte di Friends
I'll be there for you. Dietro le quinte di Friends
I'll be there for you. Dietro le quinte di Friends
E-book362 pagine5 ore

I'll be there for you. Dietro le quinte di Friends

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Info su questo ebook

Oggi, il telefilm Friends è ricordato come un’icona della commedia degli anni ‘90 e il Must See della TV per anni. Ma quando la serie ha debuttato nel 1994, nessuno aveva idea del fenomeno che sarebbe diventata. Dalla prima ondata di Friendsmania al contraccolpo e alla rinascita che seguirono, lo show mantenne una misteriosa connessione con il suo pubblico, che lo vide sia come riflesso della propria vita sia come una fuga aspirazionale dalla realtà. Negli anni successivi, Friends si è evoluto dal megahit in prima serata a una serializzazione nostalgica e infine al classico certificato. Ross, Rachel, Monica, Chandler, Joey e Phoebe sono entrati nel pantheon dei grandi personaggi televisivi, e le loro storie rimangono ancora rilevanti.
I’ll Be There for You è un tuffo nella storia e nella tradizione di Friends, ed esplora tutti gli aspetti dello show, dalle sue origini improbabili alle condizioni sociali che ne hanno amplificato il successo.
La giornalista e esperta di cultura pop Kelsey Miller rivive i momenti più importanti dello spettacolo, fa luce sui suoi elementi a volte datati e problematici ed esamina le tendenze mondiali che Friends ha catalizzato, dalla contemporanea cultura del caffè al taglio di capelli alla Rachel, super popolare negli anni ‘90. Portando i lettori dietro le quinte, Miller traccia l’ascesa del cast alla fama e districa la complessa relazione tra gli attori e i loro personaggi. Unendo interviste rivelatorie e storie personali, indaga il ruolo della celebrità, degli eventi che cambiano il mondo e degli albori dell’era digitale, tutti fattori che hanno influenzato sia la serie che i suoi spettatori. I’ll Be There for You è la retrospettiva definitiva di Friends, non solo per i fan della serie, ma per chiunque si sia mai chiesto che cosa ci sia in questo show e nella commedia televisiva che risuona in modo così potente.
LinguaItaliano
Data di uscita2 mag 2019
ISBN9788858997048
I'll be there for you. Dietro le quinte di Friends
Autore

Kelsey Miller

Kelsey Miller Giornalista e scrittrice. I suoi lavori sono apparsi su Glamour, Allure, The New York Times, Teen Vogue, Salon, People, Good Housekeeping, Entertainment Weekly, Women’s Health e altre testate. Vive a Brooklyn.

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    I'll be there for you. Dietro le quinte di Friends - Kelsey Miller

    Kelsey Miller - I’ll be there for you. Dietro le quinte di 'Friends' - HarperCollins ItaliaKelsey Miller - I’ll be there for you. Dietro le quinte di 'Friends' - HarperCollins Italia

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    I’ll Be There for You: The One about Friends

    Hanover Square Press

    © 2018 Kelsey Miller

    Traduzione di Enrico Rotelli

    Realizzazione editoriale: Studio Noesis - Milano

    Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto

    di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma.

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    © 2019 HarperCollins Italia S.p.A., Milano

    eBook ISBN: 978-88-5899-704-8

    Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile.

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    Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.

    Ai miei amici

    Introduzione

    L’ATTIMO FELICE

    Pochi mesi fa sono andata in palestra, sono salita sul solito macchinario e ho premuto il piccolo pulsante consumato accanto allo schermo fino al canale 46. Era tardo pomeriggio, un orario quasi magico per la palestra. Il posto era gremito, ma stranamente silenzioso, tranne per il ronzio delle ruote delle cyclette e il battito ritmico delle scarpe da ginnastica sul tapis roulant. Si dice che le palestre di New York incutano timore, piene di atleti prodigio e di esseri mitologici che non sudano e si lanciano occhiate mentre, con nonchalance, sollevano pesi da svariate tonnellate e fanno piroette di fronte allo specchio. In generale, è una reputazione meritata, ma non alle 17.30: a quell’ora tutti sono rilassati e nessuno fa caso a te. Le tv sono sintonizzate sui canali principali e i newyorchesi sono occupati a scaricare la tensione con un po’ di cardio mentre guardano qualche replica. Quel giorno sono entrata e ho visto le solite persone, schierate sui loro macchinari high-tech: qualcuno guardava Grey’s Anatomy, altri Law & Order, altri addirittura I Griffin. Io invece andavo diretta al canale 46, dove tutti i pomeriggi la TBS trasmetteva Friends.

    Era la mia piccola routine quotidiana. Da qualche anno avevo preso ad allenarmi regolarmente: andavo verso i trenta, e il mio rapporto con la ginnastica era del tipo in modo ossessivo o nulla. Come molte giovani donne (almeno quelle che conoscevo io), consideravo l’allenamento un modo per provare ad apparire più bella o per cancellare la fetta di pizza da un dollaro mangiata per strada con gli amici, dopo cinque bicchieri di vino disgustoso. Poi, però, sono entrata in una nuova fase dell’età adulta: ordinavo ottime pizze che io e il mio ragazzo mangiavamo comodamente a casa, e non troppo a ridosso dell’ora in cui saremmo andati a dormire, altrimenti entrambi avremmo avuto bisogno di uno Zantac. Mi allenavo per motivi di salute, proprio come gli adulti. Era noioso e ripetitivo, e, a dire la verità, mi piaceva. Erano altri gli aspetti della maturità che non mi piacevano (per esempio dover avere sempre in casa uno Zantac), ma la palestra non era tra questi, anzi: era la scusa per guardare Friends e fare un breve salto nel passato tutte le sere.

    Il canale 46 era diventato la mia piccola e nostalgica via di fuga al termine di una lunga giornata di lavoro. Avrei pedalato di buona lena in sella all’Arc Trainer, guardando l’episodio in cui Monica esce per sbaglio con un teenager, o quello in cui Chandler resta intrappolato all’ingresso di una banca con Jill Goodacre. A essere sincera, quasi non avevo idea di chi fosse Jill Goodacre: sapevo solo che negli anni ’90 era una modella di Victoria’s Secret e ogni volta che guardavo quell’episodio venivo catapultata in un’epoca in cui lei e Victoria’s Secret erano riferimenti importanti della cultura pop.

    Non mi sono mai considerata un fan sfegatata di Friends, anche se naturalmente seguivo la serie: nel 1994, quando ha fatto il suo debutto, io avevo 10 anni, e quando è finita ero al college. All’epoca era un programma-cult della televisione – direi un vero e proprio evento – con un enorme impatto sulla cultura giovanile. Ho avuto il taglio alla Rachel alle medie, ho guardato l’ultima puntata con un gruppo di amiche in lacrime e, con un po’ di impegno, sono quasi certa di ricordare tutte le parole di Gatto rognoso. Ma questa è una conoscenza base di Friends, che, francamente, era difficile non avere. Il programma era sempre lì, in un modo o nell’altro: lo trovavo in tv di notte nelle camere d’albergo oppure sentivo la sigla al supermercato e poi per giorni non riuscivo a togliermela dalla testa. Friends era diventato un argomento di conversazione: «Sai Adam Goldberg di La vita è un sogno, il coinquilino inquietante di Chandler che aveva il pesce rosso? Sì, quello lì!». Non ho mai comprato i dvd, eppure in qualche modo mi ci imbattevo sempre, o perché qualche ex coinquilino li aveva dimenticati o perché quelli nuovi li avevano portati a loro volta. Il giorno di capodanno del 2015, quando il programma è arrivato su Netflix dopo mesi di attesa, mi ci sono sintonizzata per riguardarlo con i postumi della sbornia. Il giorno dopo, al lavoro, ho scoperto che tutti i miei colleghi avevano fatto lo stesso. Addirittura gli adepti del culto di Friends avevano iniziato la maratona subito dopo la mezzanotte ed erano rimasti incollati alla tv fino all’alba. Personalmente, mi piaceva riguardare gli episodi ogni tanto, ma ritengo di essere stata una fan di Friends come tanti altri.

    All’inizio, le repliche in palestra erano un modo per aggiungere un pizzico di divertimento al mio allenamento cardio e il fatto di guardarle alla vecchia maniera, su un televisore vero e proprio, era parte di quel divertimento. Mi piaceva quella scomodità a cui non siamo più abituati, perfino la pubblicità. Mi piaceva non avere la possibilità di scegliere l’episodio. Un giorno trasmettevano Torta a sorpresa e io ho pensato: Oh, no, l’ho appena visto. Tuttavia, persino quel fastidio era un confortante ritorno al passato.

    Presto, mi sono ritrovata a sincronizzare il mio allenamento con l’orario delle repliche. Conoscevo il palinsesto TBS a memoria e, in base alla distanza tra il lavoro e la palestra, avevo calcolato l’orario esatto in cui sarei dovuta uscire dall’ufficio per arrivare puntale. Qualche anno dopo ero una libera professionista a tempo pieno, lavoravo da casa e non dovevo fare altro che svegliarmi presto in modo da concludere il lavoro per le 17 o giù di lì e arrivare in palestra in orario per La rabbia di Ross. Adesso posso confessarlo: le 17.30 per me erano diventate la prima serata e Friends era di nuovo un must della tv.

    ***

    Permettetemi di essere chiara: facevo anche dell’altro. Ero felice della mia vita. Ero una scrittrice e vivevo a New York in un appartamento carino (non carino come quello di Monica, ma chi ce l’aveva?) che condividevo con il mio ragazzo molto carino, che presto sarebbe diventato il mio fidanzato molto carino. Avevo le mie difficoltà, come tutti, ma a conti fatti le cose per cui essere grata erano molte di più. Non sarei tornata ai miei vent’anni per niente al mondo. Allora perché a ridosso dei trenta all’improvviso mi veniva voglia di stare appiccicata a un programma vecchio di vent’anni su gente di vent’anni?

    Non me ne ero resa conto davvero fino a quando, pochi mesi prima, ero andata in palestra, avevo cercato Friends e… non l’avevo trovato. Era successo qualcosa: il canale 46 non era più della TBS, ma di qualche maledetta emittente sportiva. Passavo da un canale all’altro in modo frenetico, abbozzando mentalmente una email alla direzione della palestra sul grande errore che avevano commesso a cambiare la tv via cavo.

    Ho dato un’occhiata ai miei compagni di repliche tv aspettandomi di vedere sui loro volti un’espressione risentita, addirittura oltraggiata!, ma niente. Forse mi ero sbagliata sul gruppo delle 17.30 e sulla passione un po’ imbarazzante che credevo condividessimo. Ero io la nerd della palestra? Dopo dieci minuti ero ancora lì immobile sull’Arc Trainer a premere i pulsanti con lo sguardo fisso nel vuoto. (Sì, non c’è dubbio: la nerd ero proprio io).

    In quel momento ho pensato a tutte le volte che avevo fatto affidamento sulle repliche di Friends: i giorni in cui ero malata, quelli in cui ero stata rifiutata da [inserite un lavoro e/o una prospettiva romantica], le notti insonni in camere di alberghi impersonali… Friends era il balsamo per le giornate no. Ma mi ero rifugiata nel programma anche nei periodi di tristezza e di ansia profonda: mentre aspettavo i risultati di una biopsia o in seguito alla morte i miei nonni. In quei momenti Friends non era una scusa o una giustificazione per la mia pigrizia, ma una parentesi di conforto e calore. Facevo affidamento sulle battute familiari e sulla sincerità disarmante dei personaggi. E a quanto pare non ero l’unica: nelle settimane successive al mio piccolo crollo mentale in palestra mi è capitato di parlare con altre persone che dicevano la stessa cosa. Di solito la conversazione cominciava con una mia confessione piena di vergogna: «Ehm, ho appena capito di avere una dipendenza emotiva da una sit-com! Tu come te la passi?».

    Alcuni miei colleghi rispondevano con i racconti delle proprie fasi Friends. Qualcuno aveva cominciato a guardarlo dopo l’11 settembre, altri in seguito alle elezioni del 2016 o alla sparatoria di Las Vegas. Friends era il programma in cui si rifugiavano quando non riuscivano più a reggere le brutte notizie. Per altri, quelli cresciuti con la serie, rappresentava il ricordo di un’epoca della loro vita felice e spensierata. Avevo scoperto che tantissime persone guardavano il programma in periodi di forte stress: alla fine di una relazione, dopo aver perso il lavoro, nei mesi insonni dopo la nascita di un bambino. Okay ma… perché proprio Friends? Forse perché toccava tutti questi argomenti ma con ottimismo? Le persone cercavano quel richiamo emotivo? «Oh no» mi dicevano. «È solo un programma divertente, un momento di svago.»

    Sono gli stessi che usano il termine comfort food quando parlano di Friends. Fanno riferimento alla sua leggerezza, al suo essere così distante dalla realtà; lo guardano proprio perché non possono mettercisi in relazione: sei adulti senza un capello fuori posto che chiacchierano in un caffè nel bel mezzo della giornata. Friends, per molte persone, era pura evasione dalla realtà.

    Per altri, invece, è tutta un’altra storia. Quando ho iniziato a scrivere questo libro, ho parlato con molte persone in ogni parte degli Stati Uniti e del mondo a proposito del loro rapporto con Friends. E la cosa interessante è che chiunque sembrava averne uno, anche se non era mai stato fan, anche se non aveva mai visto un episodio intero. La mia amica Chrissy è una di questi: cresciuta con doppia cittadinanza, svizzera e americana, mi ha spiegato che la serie era famosissima in entrambi i Paesi, nonostante le differenze culturali. «Per gli europei che non erano mai stati negli Stati Uniti, Friends era l’America» mi ha detto. Pensavo si riferisse a cose tipo andare in giro con i pantaloni della tuta e non potersi permettere l’assistenza sanitaria o altri aspetti della vita americana insoliti per un europeo, mi sbagliavo. «È la cordialità» mi ha detto. «Gli americani ti sorridono quando li incontri. Ti parlano come se vi conosceste da tempo.» Gli svizzeri, ha spiegato, si imbattevano nei turisti americani come se fossero degli alieni sospettosamente simpatici. Friends, con i suoi personaggi brillanti e divertenti, ha contribuito a dare un senso a questo aspetto. Forse gli americani non sono altro che un popolo estremamente amichevole. O forse lo sono solo i newyorchesi.

    Mi è capitato di parlare con la style editor Elana Fishman, una fan sfegatata di Friends, e anche lei, originaria della California, ha dato un senso alla sua vita a New York grazie al programma. Ha trascorso gli anni delle superiori a guardare i dvd con sua sorella e, nonostante fosse consapevole che Friends era una finzione, sentiva che c’era un fondo di verità. Ricordo che mi disse: «A volte pensavo: Certo, questa non è la realtà… ma potrebbe esserlo almeno in parte?». Da ragazzina, Fishman sognava di andare al college a New York e poi di iniziare lì una carriera nel giornalismo. Friends le dava entusiasmo e speranza; non era una fuga dalla realtà, ma uno sguardo verso il futuro. Sapeva che la sua vita non sarebbe stata esattamente come quella di un telefilm, ma magari ci sarebbe andata vicina. «Pensavo: Potrei trasferirmi a New York, farmi una migliore amica con un appartamento ad affitto bloccato nel Greenwich Village e andare a vivere là! Sarebbe meraviglioso! E i nostri migliori amici sarebbero i ragazzi nell’appartamento di fronte al nostro.» In fondo sono cose che succedono. Sarebbe un caso fortuito che accadano tutte insieme, ma non è impossibile. In realtà, era uno l’aspetto davvero importante per Fishman. «Alle superiori non avevo molti amici» aveva aggiunto sottovoce, con una risatina. «Così, guardare Friends era un doppio conforto per me: mi dava l’impressione di essere a New York e di far parte di quel gruppo di amici.» Un’altra risatina. «Lo so, è triste!»

    Personalmente, non credo sia triste. Anzi credo che Fishman abbia centrato il punto e individuato la ragione principale per cui Friends è ancora uno dei programmi televisivi più popolari. Sedici milioni di americani guardano le repliche ogni settimana, il che significa uno share maggiore di quanto alcuni episodi abbiano raggiunto durante la prima messa in onda. E stiamo parlando solo delle persone che l’hanno seguito e lo seguono in tv. Nel 2015 Netflix si è accaparrata i diritti di streaming e, dopo il popolare debutto della serie negli Stati Uniti, la compagnia l’ha resa accessibile a più di 118 milioni di iscritti in tutto il mondo. In generale, esiste uno zoccolo duro di fan di Friends e in alcuni Paesi stanno addirittura aumentando. Nel 2016, gli indici di ascolto sono saliti del 10 per cento nel Regno Unito, dove le repliche sono trasmesse su Comedy Central, un canale la cui fascia d’età di elezione va dai 16 ai 34 anni. Moltissimi teenagers – che non erano neanche nati quando Friends ha smesso di andare in onda – guardano le repliche dopo la scuola. Giovani adulti rincasano tardi la notte nei loro piccoli appartamenti condivisi, si mettono a letto col computer sulle gambe e si addormentano guardando un episodio. E poi ci sono adulti non-così-giovani, come me, che guardano le repliche in palestra, mentre corrono sul tapis roulant.

    Friends è riuscito a trascendere le età, le nazionalità, le barriere culturali e anche le lacune personali perché, sotto sotto, parla di una cosa universale: l’amicizia. È un programma sul periodo transitorio alla prima età adulta, quando si è senza legami e vincoli familiari e allo stesso tempo entusiasti e incerti nei confronti del futuro. L’unica cosa certa sono gli amici e l’affidamento che potete fare l’uno sull’altro.

    La critica culturale Martha Bayles l’ha definito l’attimo felice: un fugace periodo di enorme libertà e responsabilità soverchianti in cui gli amici passano tutto il tempo assieme e, di fatto, creano una famiglia. Nella maggior parte dei Paesi, i giovani non hanno né le risorse, né l’approvazione degli adulti per poter sperimentare l’attimo felice, scrive Bayles nel suo libro Through a Screen Darkly. Eppure Friends è molto popolare tra loro. Scrive ancora Bayles: È un modo per vivere indirettamente quell’attimo felice. E bisogna ammettere che, persino per chi di noi l’ha vissuto, l’attimo felice non è mai stato così felice come per i protagonisti di Friends. I nostri problemi non si risolvevano mai così velocemente, i nostri capelli non erano mai così a posto e soprattutto nessuno aveva un appartamento del genere. La verità è che nemmeno le nostre amicizie erano tanto perfette. Persino in quel periodo alcuni di noi si sentivano soli e c’erano famiglie disfunzionali anche tra quelle che ci eravamo scelti con cura. Per altri la felicità è arrivata più tardi. Tuttavia, quello che tutti noi potevamo riconoscere – quello che in Friends si riconosce chiaramente – è che l’amore inconfondibile, quello che ti cambia la vita, esiste solo tra amici. L’amicizia è la rete che ti salva quando la famiglia ti delude o cade a pezzi. È il contrappeso che puoi stringere tra le braccia quando le relazioni vacillano. Gli amici camminano insieme decisi, mano nella mano, lungo i sentieri più accidentati. E poi accade: la vostra presa si allenta, il percorso comune giunge a un bivio e, un giorno, ti guardi attorno e ti ritrovi a camminare da solo fuori dall’attimo felice e incontro al resto della tua vita.

    È questo quello che ho capito quel giorno in palestra. Avevo trentatré anni, ero fidanzata – senza certezze granitiche sul futuro ma non più spaesata come prima. Ero ormai uscita da quella fase della mia vita; nel corso degli ultimi anni gli amici intimi si erano sposati o trasferiti per lavoro. Avevano figli e mutui e carriere da scalare. Io avevo un’iscrizione in palestra che, per fortuna, sfruttavo con regolarità. Nessuna di queste cose era brutta o sbagliata, anzi. La nuova fase della vita che mi si prospettava era entusiasmante, ma entrarvi significava lasciarne un’altra, come le relazioni che avevo. Non le persone; quelle ci sarebbero sempre state, ma in modo diverso. Non saremmo più stati gli amici di quando avevamo vent’anni: niente più campeggi estivi o pomeriggi di ozio (e poi: l’avremmo davvero voluto?). La vita accade, l’amicizia cambia – e il cambiamento è la cosa peggiore. Quindi, non c’è da stupirsi se si desidera qualcosa di familiare. Friends era un modo di rivivere un’epoca della mia vita che stava sfumando in ricordo, con lentezza ma inesorabilmente.

    Sì, è vero, è solo una vecchia sit-com. E sì, per molti aspetti non aveva niente a che vedere con me, tranne che per uno, quello più importante: era un programma sull’amicizia. E come i vecchi amici, non se ne era mai andato davvero.

    PRIMA PARTE

    1

    QUELLO CHE PER POCO

    NON COMINCIAVA

    Il 22 settembre 1994 la NBC ha mandato in onda l’episodio pilota di una nuova sit-com, Friends. Era tutto già chiaro a cominciare dal titolo, Amici, con cinque ventenni che chiacchierano del più e del meno in un caffè. Per i primi tre minuti non sappiamo nemmeno come si chiamano. Poi Rachel Green irrompe al Central Perk con il vestito da sposa bagnato fradicio e dei capelli insignificanti. Si presenta al gruppo e poi presenta il gruppo agli spettatori. La storia è cominciata!

    Si è trattato di un inizio piuttosto infausto. Come spesso accade, l’episodio pilota non era nemmeno lontanamente all’altezza di quelli che sarebbero venuti dopo. Matrimonio mancato è più o meno così: Rachel arriva in città dopo essere scappata dal suo matrimonio e incontra Monica, un’amica delle superiori che non vedeva da tempo. Perché?, vi chiederete. Dove, come? Non è importante, non preoccupatevi. Monica la invita a stare da lei, dato che ha un appartamento enorme nel cuore di Manhattan e una camera da letto in più. Lasciate perdere anche questi dettagli. Il pilota di Friends ci chiede chiaramente di non far caso a un mucchio di incongruenze e assurdità – cosa abbastanza tipica delle sit-com di quel periodo. Bisogna ammettere che sullo schermo l’insieme risulta abbastanza goffo: la recitazione è discontinua e le risate assai più fragorose e divertite di quanto le battute meriterebbero. Riguardandolo adesso, si nota chiaramente il seme della commedia brillante e spumeggiante che ne sarebbe derivata. Ma è altrettanto chiaro quanto tutto avrebbe potuto dissolversi in una bolla di sapone.

    I protagonisti sono dei ventenni, che passano tutto il tempo insieme; sono spontanei e sopra le righe e alcune volte anche divertenti scriveva il New York Times nella prima tiepida critica al programma. Ma vorreste uscire con loro? Come con tutte le serie con un cast corale, dipende da come si svilupperanno i personaggi. A ogni modo concludeva l’articolo, è più che altro un programma sugli studi demografici.

    Non era esattamente una buona accoglienza in vista dei giochi del palinsesto autunnale, ma aveva centrato il punto: era un programma sulla demografia – su un aspetto in particolare. Friends parlava di sei ragazzi della cosiddetta Generazione X che vivevano a Manhattan, non proprio il gruppo sociale in cui la maggioranza degli americani poteva riconoscersi. Questa era una delle tante ragioni per cui la serie avrebbe potuto fallire molto facilmente. Oggi ci sembra impossibile immaginare un panorama televisivo senza Friends, tale è stata la sua influenza sul pubblico. Ma perché quella singola puntata pilota appena appena gradevole potesse andare in onda molte cose erano dovute succedere. All’origine c’è un mix casuale di tempistica, fortuna e improvvisazione – e un buon accordo dietro le quinte tra i pezzi grossi della NBC, della Fox e della CBS. Dopo di che, ci sarebbe voluto ancora del tempo perché il programma dimostrasse di essere qualcosa di più della versione spumeggiante di Seinfeld.

    Alla fine il New York Times aveva ragione su Friends, ma per i motivi sbagliati. Non era un programma sulle tribolazioni quotidiane di un particolare gruppo di amici. Al contrario: il soggetto era così vasto e generico da riuscire a spingere i limiti dei concetti di base, pur non essendo per nulla concettuale. Per dirla come gli stessi autori, Friends parlava di «quel periodo della vita in cui gli amici sono la tua famiglia». O, perlomeno, ne avrebbe parlato.

    ***

    In un piovoso mercoledì pomeriggio del 1985, Marta Kauffman aspettava a una fermata dell’autobus a Lower Manhattan. Era bagnata e triste e sentiva di dover prendere una decisione. «Continuavo a ripetermi che avevo un bisogno disperato di un segnale, perché non sapevo cosa fare» racconterà in seguito. Dopo venti minuti l’autobus non era ancora passato. Tipico. Poi accadde una cosa per niente tipica di New York: un taxi si fermò proprio di fronte a lei. Marta non ci pensò due volte; saltò su, diede le indicazioni all’autista e si rilassò contro lo schienale. All’improvviso, l’illuminazione. Si tirò su, ed eccolo lì, proprio davanti a lei: un segnale. Sapeva esattamente cosa fare.

    Marta Kauffman e David Crane si incontrarono alla Brandeis University, a Waltham, nel 1975. Nel 2010, Kauffman e Crane rilasciarono un’intervista alla Television Academy Foundation; la loro storia sarebbe diventata un punto di riferimento per le future generazioni di creativi e sociologi. All’epoca gli ideatori di Friends avevano messo fine già da un po’ al programma e anche alla loro relazione professionale. Tuttavia, la sintonia tra loro non era mai venuta meno, tanto che erano soliti completare l’uno le battute dell’altra. Fin dai primi tempi a Hollywood, la coppia era famosa per il feeling che li univa, per le scaramucce comiche. In quell’intervista del 2010, quando venne loro chiesto di raccontare come si fossero conosciuti, Kauffman rispose: «Dunque, lui era un teppista…», e senza perdere un colpo, Crane concluse: «E Marta era una zoccola».

    All’epoca entrambi erano studenti di recitazione ed erano stati scritturati per una messa in scena del dramma di Tennessee Williams Camino Real. Sarebbe bello leggere questo loro primo incontro attraverso la lente del destino, con i giovani Kauffman e Crane che riconoscono di essere anime affini al primo sguardo. La realtà, però, è molto più prosaica ed è simile a quella di tante altre storie vissute nei college teatrali: si sono incontrati, hanno recitato insieme, e poi si sono persi di vista per un paio d’anni.

    Kauffman frequentò il terzo anno di corsi all’estero e quando tornò alla Brandeis University decise di provare a lavorare nel dietro le quinte. Consapevole di non avere la stoffa dell’attore, si iscrisse a un corso di regia, che seguiva anche Crane. Kauffman ancora non lo sapeva, quindi quando fu incaricata di dirigere una messa in scena di Godspell, chiese al suo vecchio amico e collega di entrare a far parte del cast. Al che lui rispose: «No, ma potrei dirigerlo insieme a te!». Due registi per uno spettacolo possono diventare due galli in un pollaio, soprattutto quando i galli sono due studenti di teatro giovani e ambiziosi. Scelte registiche contrastanti ed ego in conflitto rischiano di mandare a monte lo spettacolo e di trasformare i due registi in acerrimi nemici. Ma, a quanto raccontano Kauffman e Crane, la loro prima collaborazione fu esattamente l’opposto: semplice e, soprattutto, divertente. Il loro fu da subito un rapporto affiatato e privo di complicazioni: sembravano due produttori abituati a lavorare insieme da una vita. «Ho realizzato praticamente all’istante che sarebbe stato uno spasso» dice Kauffman. E infatti si divertirono talmente tanto a co-dirigere Godspell che decisero di realizzare un’altra commedia, e poi un’altra e un’altra ancora. Non c’era un accordo formale, ma entrambi si erano accorti che amavano produrre spettacoli teatrali, più che esibirsi – e si divertivano ancora di più quando lo facevano insieme.

    A un certo punto, uno di loro propose quasi per capriccio di scrivere qualcosa. «Non so nemmeno chi di noi l’ha detto» ricorda Crane. Ma la decisione di diventare co-sceneggiatori, è stata più o meno: «Dai, scriviamo qualcosa! Facciamo un musical, che ne dici?! Sì!».

    Non avevano mai scritto un’opera teatrale, men che meno un musical, perciò hanno fatto quello che si dovrebbe fare al college: hanno sperimentato. Hanno prenotato una sala di teatro e hanno chiesto a due compagni di corso, Seth Friedman e Billy Dreskin¹, di dar loro una mano.

    Lo spettacolo sarebbe diventata la prima produzione Kauffman-Crane, intitolata Waiting for the Feeling. (Secondo Kauffman, era esattamente quello che sembra: «Una commedia universitaria guidata dall’angoscia» su quanto sia difficile essere uno studente universitario.) L’esperienza confermò ciò che i due avevano già capito mentre dirigevano Godspell: erano in sintonia, ed erano bravi autori (seppur ancora acerbi). Si capivano al primo sguardo e inoltre si completavano a vicenda. Crane era analitico, e concentrava la sua attenzione sul testo. Kauffman invece era più portata per la parte creativa ed era perfettamente in grado di trasferire una storia dalla sceneggiatura al palcoscenico e, più avanti, allo schermo. Sul set di Friends, Crane preferiva rimanere nella stanza degli autori, aggiustare le battute e raffinare il racconto, mentre Kauffman seguiva la gran parte degli aspetti creativi, controllava i costumi, aggiustava l’inquadratura delle telecamere e rivedeva le scene con gli attori.

    Se Kauffman e Crane formavano una squadra così forte era grazie al fatto che riuscivano a creare qualcosa con uno sforzo comune, per poi fare un passo indietro e portare il lavoro, ciascuno nel suo ruolo. Avevano talento, dinamismo e un’etica

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