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Io, la chitarra e altri incontri: Memorie di un artista
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E-book287 pagine5 ore

Io, la chitarra e altri incontri: Memorie di un artista

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Info su questo ebook

Un anziano, riservato musicista, conosciuto in tutto il mondo per la sua opera di compositore, storico e didatta della chitarra, abbandona per una volta il pentagramma e si regala una vacanza da scrittore.
In quattordici lettere indirizzate a persone che sono state importanti nella sua vita, ripercorre la propria storia, dalle origini rurali tra le risaie del vercellese all'elaborazione di un'arte raffinata sino alla trascendenza. 
Non si tratta soltanto di un libro di memorie musicali, ma soprattutto del racconto - alla portata di tutti - di un uomo che è riuscito a trasferire il proprio mondo di immagini in quello reale, e che guarda al proprio passato ritrovandovi, in chiave mitica, i segni di un destino al quale ha obbedito con religiosa fedeltà e inesauribile passione.

Angelo Gilardino (Vercelli, 1941) è una delle figure di rilievo mondiale della chitarra classica e della musica colta. Oltre alla sua opera musicale, per la quale nel 2009 la Guitar Foundation of America lo ha insignito del prestigioso Artistic Achievement Award - Hall of Fame, definendo "monumentale" il suo contributo artistico, ha al suo attivo numerosi saggi e pubblicazioni didattiche. Per Edizioni Curci ha scritto la biografia "Andrés Segovia, l'uomo, l'artista" e il volume "La chitarra - Guida all'ascolto del repertorio da concerto".
LinguaItaliano
Data di uscita13 mag 2022
ISBN9788863953947
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    Anteprima del libro

    Io, la chitarra e altri incontri - Angelo Gilardino

    Al lettore

    (come un prologo)

    Sono un anziano musicista e ho scritto un libro di memorie. Durante tutta la mia carriera, dapprima come interprete, poi come compositore e studioso, ho fatto spesso ricorso alla scrittura, ma soltanto per il mio lavoro: ho scritto manuali di tecnica strumentale e volumi di storia, saggi, articoli e, in tempi recenti, persino una biografia del grande chitarrista Andrés Segovia, ma non mi sono mai considerato uno scrittore. Devo farlo oggi, nel momento in cui prendo commiato dalla mia autobiografia appena terminata e mi presento a te, lettore?

    Ti confesso di non saper rispondere a questa – pur inevitabile – domanda. In queste pagine, ho parlato molto di musica, ma non ho mai pensato di rivolgermi soltanto, o principalmente, ai musicisti, anzi, immaginandoti intento a leggermi, e attribuendoti molti, diversi profili, non ho mai creduto che tu debba necessariamente essere un virtuoso, un compositore, un professore d’orchestra o del conservatorio, o anche soltanto un allievo che sta imparando il setticlavio: non occorre essere esperti di baleneria per immergersi nelle pagine di Moby Dick. Ho invece pensato che tu ami la lettura, ma il presumere che il mio libro possa meritare l’impegno e il tempo che gli dedicherai non basta a farmi sentire uno scrittore: io credo di aver voluto vivere l’esperienza della scrittura diversamente dal consueto, cioè al di fuori della mia sfera professionale, libero dal senso del dovere – come per farmi un regalo o per prendermi una vacanza; non per questo ritengo di potermi introdurre nella cerchia degli scrittori che ho ammirato fin dagli anni della scuola elementare (l’elenco dei loro nomi è sterminato).

    Pur scrivendo, in sostanza, un libro di memorie, non ho adottato una forma lineare e cronologica, e ho sparso il mio racconto a delta in una serie di epistole. A dettarmi questa scelta è stato il mio non voler ricordare nulla del mare di fango che ho dovuto attraversare. Serbo sì – ben presente – la conoscenza del male di questo mondo, che non mi ha risparmiato, ma constato di non averne subìto gli effetti al di là delle tribolazioni che mi ha causato: sono invecchiato rimanendo quello che ero a dieci anni, prima di entrare nei gironi infernali della vita, e se, scrivendo, ho dovuto evocare tragedie, credo di averlo fatto senza formulare accuse e senza irrogare condanne. Ho dunque scritto le mie lettere a persone che mi hanno aiutato a vivere, o che, sebbene lontane e mai incontrate, mi hanno ispirato devozione, affetto, gratitudine, stima, simpatia. Non ho scritto nulla, invece, di tutti gli altri: c’è qualcosa di più triste e deludente, per un lettore, del cahier des doléances di un vecchio che macera la propria anima nel tormento delle accuse e delle recriminazioni? E c’è vittoria più limpida di quella di chi non deve nemmeno impegnarsi nel perdono, perché su di sé porta soltanto le cicatrici delle ferite che si è inferto da solo?

    Ho scritto le mie lettere a destinatari che, nelle storie, appaiono ben individuati e caratterizzati, e ad altri che invece sono convocati per categorie: i primi, agiscono e parlano, i secondi sono degli ascoltatori silenti – come il Marco Aurelio delle Memorie di Adriano o l’innominato vossignoria di Grande Sertão – e il rivolgermi a loro adoperando prevalentemente la seconda persona mi è sembrato consono al mio proposito di conversare senza vestire i panni dello scrittore, nei quali non avrei onestamente potuto riconoscermi.

    L’unica fonte di questo libro è stata la mia memoria: ho raccontato i fatti come li ho vissuti o come ho potuto ricostruirli attraverso ricerche, testimonianze, deduzioni logiche. Non ho cercato di inventare nulla, e ho solo modificato i nomi di alcuni personaggi di sfondo. Può darsi che, nel tempo, alcuni eventi si siano, nel mio ricordo, un poco trasformati rispetto a quella che fu la realtà, ma sono convinto di non essermi mai separato dal vero (che sta al di sopra del reale).

    Non oso concludere salutandoti con l’esortazione che Domenico Scarlatti rivolse al lettore delle sue Sonate («Vivi felice!»), ma sappi che mi piacerebbe aiutarti a distogliere lo sguardo dallo spettacolo che il mondo oggi ci mostra. Arrivo perciò a dirti: leggi con speranza e senza pregiudizio, e alla fine, forse, constaterai di non avere speso invano il tuo tempo.

    Al Pierìn d’Asjàn

    Mi sembra giusto indirizzarti questa lettera adoperando il nome con il quale eri conosciuto nel tuo mondo, senza chiamarti padre. Così facendo, sento di potermi assestare, nei tuoi confronti, nella condizione più adatta al nostro stato attuale di mittente e destinatario: moristi quando avevi poco più di quarantadue anni mentre, ora che ti scrivo, io ne ho quasi settantaquattro, perciò mi riesce impossibile pensare a te come genitore. Inoltre, tutto quello che ti dirò in questa lettera è frutto della ricerca che ho svolto e delle riflessioni che ho elaborato dopo la tua morte, e, come vedrai, non si tratta delle fantasie di un adolescente – qual ero quando tu te ne andasti – ma dei pensieri di un uomo che ha voluto scavare nel passato.

    Nel tuo mestiere – commerciante di cavalli da lavoro nelle terre vercellesi del riso – nessuno era conosciuto con le sue generalità anagrafiche: che tu ti chiamavi Pietro Gilardino, lo sapevano solo due o tre dei tuoi colleghi, per esempio il Marino Braga da Casale Monferrato, che, invece di incontrarti nelle piazze dei mercati o nei cortili delle cascine, in cui non amava avventurarsi, preferiva, per mandarti le sue istruzioni, scriverti con la finissima calligrafia di cui era maestro, e grazie alla quale riscuoteva, nella tua categoria, un riverente rispetto. Tutti ti conoscevano come Pierìn d’Asjàn, e tu, del resto, non sapevi come si chiamassero il Manu da Gnan-a, il Cichìn ‘d San Germàn, il Pinu ‘d Carsantìn, tuoi compari e talvolta rivali nella compravendita dei miti bestioni che trainavano i carri da lavoro, carichi di fieno e di covoni, tra le risaie e le cascine. Come i monaci e i capitani di ventura, venivate identificati con un nomignolo – in genere un diminutivo o vezzeggiativo di quello con cui eravate stati battezzati – e il vostro cognome era sostituito da un toponimo, il paese o la cascina dove abitavate: nel tuo caso, Asigliano Vercellese (Asjàn), una fiorente (allora) borgata risicola a pochi chilometri da Vercelli, la prima che s’incontrava prendendo la strada per Casale Monferrato.

    Il popolo degli agricoltori – grandi e piccoli proprietari, affittuari, mezzadri, con la loro servitù di braccianti e addetti alle stalle – era fiancheggiato da figure indispensabili, alle quali però si stentava a riconoscere lo stato di lavoratori, giacché lavoro vero e proprio, nelle risaie, era considerato soltanto quello dei campi, e alle altre occupazioni era concessa una valutazione minore: sebbene indispensabili, i fabbri che ferravano i cavalli, i sellai che confezionavano e riparavano i finimenti, i falegnami, i muratori, gli acquaioli, erano considerati, da chi versava il proprio sudore nella terra, come lavoratori impropri, mentre risultavano del tutto ancillari – e guardate con ironica commiserazione – figure come quelle dei sarti-barbieri o dei pollivendoli ambulanti (pulaiat). I negozianti di alimentari, i macellai e i fornai erano tollerati perché indispensabili, ma non benvoluti e, per ogni altra fornitura, si andava a Vercelli, intimoriti nella propria condizione di bacàn (paesani), a spendere malvolentieri i propri denari, nel perenne sospetto di venirne derubati.

    Voialtri, i commercianti di cavalli, incarnavate – per inalienabile condanna – l’inganno e la profittazione: vi chiamavano, insieme ai mediatori di immobili, trüciòn, cioè truffatori, e ogni contatto con voi, da parte dei coltivatori del riso, era segnato dalla torva convinzione di essere sempre e comunque vittime dei vostri raggiri. Solo molto più tardi capii qual era il motivo che ti induceva, nelle visite ai clienti di riguardo nelle loro cascine, a portarmi con te: la presenza del bambino serviva a presentarti in una luce meno sospetta di padre vulnerabile agli affetti, e a farti apparire a tua volta come un lavoratore con una famiglia a cui badare. Dovevo godere davvero di protezioni celesti quando, davanti ai muti patriarchi, affermavi di vendere i tuoi cavalli a prezzi inferiori al loro costo, e non esitavi a offrirmi come pegno dei tuoi spergiuri: «Dio mi è testimone, e che questo bambino possa essere incenerito qui e adesso se non vi dico la verità!». Seduto in disparte su un panchetto, assistevo a quelle scene con lo stesso grado di comprensione e di interesse che potevo riservare la domenica mattina alla celebrazione della Santa Messa.

    Venivate, voi Gilardino, da Balzola, paese di risaia, ma dalla parte di Casale Monferrato, dunque vicino alle colline del vino. Tu non sapesti mai nulla dei tuoi antenati – tuo padre Roberto era un loro diseredato – ma io ho poi scoperto che, nell’Ottocento, i Gilardino erano stati, a Balzola, personaggi di grande rilievo: tra di loro, spiccava quel Giacomo Gilardino, organista e compositore di musica sacra, che era nato nello stesso mese e nello stesso giorno in cui, esattamente novantanove anni più tardi, sarei nato io. Del resto, anche tu, a stento capace di leggere, scrivere e far di conto, mostravi interesse per la musica, se è vero che, nei tempi della tua ricchezza – negli anni Quaranta – ti eri permesso il lusso di comprarti un grammofono a tromba e avevi accumulato una collezione di dischi che ascoltavi al tuo ritorno dai giri in motocicletta per le cascine, e che offrivi all’ascolto dei tuoi compaesani sabato sera, nel cortile di casa, dove si improvvisavano feste danzanti. Lo stavi facendo risuonare a tutto volume anche un mattino di fine aprile del 1945, quando, dalla torretta del carro armato americano che si era fermato all’ingresso del nostro cortile, fece capolino il tenente Fred, subito sedotto dai suoni rutilanti della Mazurka variata di Augusto Migliavacca, un brano che tu sapevi imitare alla perfezione, zufolando come un flauto.

    Come foste approdati ad Asigliano, da Balzola, non l’ho mai potuto appurare. So che non eravate contadini. Tuopadre Roberto (per me Nonu Bertu) era stato in gioventù un trasportatore di merci con carri trainati dai cavalli – o, secondo le insinuazioni di sua moglie, la Nona Bibiana – un camminante, cioè un vagabondo senza fissa dimora che, abbandonata l’onorata famiglia di origine, si era dato ai traffici più svariati, quasi sempre illegali. Anche lei era nata bene, in una casata di agricoltori, i Foglizzo, la cui vasta cascina (da me mai identificata) era nota come Milec (mille letti) per la quantità di manodopera stagionale (mondariso) che accoglieva. La Bibiana doveva essere fuggita con il Bertu in preda a una passione improvvisa e divorante, tanto che lui, contagiato, smise di vagabondare e si stabilì ad Asigliano, iniziandovi un multiforme commercio come straccivendolo, robivecchi e ricettatore. Tarchiato, baffuto e tatuato (con fregi che rivelavano un qualche transito per le patrie galere), occupava un enorme stanzone in un caseggiato marginale, accanto al quale scorreva una roggia il cui corso egli aveva in qualche modo allargato fino a fagli lambire la soglia del suo magazzino-negozio-laboratorio, dove riceveva, tra montagne di eterogenee mercanzie e cianfrusaglie, clienti e venditori, vedove in gramaglie, meretrici, ladri e anche i carabinieri stanziati nella caserma della vicina Desana, ai quali dosava informazioni e dispensava consigli («No, non è ancora maturo, lasciatelo stare, vi dirò io quando sarà ora di metterlo dentro»). Tu fosti il terzo dei suoi quattro figli – due maschi e due femmine. Appena lasciate le scuole elementari (non so nemmeno se le terminasti, ma di certo non vi avevi brillato), lui ti mise a star fuori, locuzione che designava il barbaro costume di mandare i figli giovinetti a fare i servitorelli degli agricoltori facoltosi in cambio di vitto e alloggio nella stalla. Tu smettesti di parlargli, rinchiudendoti in un silenzio che nemmeno tua madre e i tuoi fratelli riuscirono a infrangere. Del resto, a casa non ci tornasti più. Di padrone in padrone, arrivasti all’età della visita di leva, in cui fosti dichiarato inabile al servizio militare a causa della tua vista cortissima. Il medico condotto di Asigliano ottenne una sovvenzione del municipio per farti sottoporre a una visita specialistica e per dotarti di un paio di occhiali che, in infinite repliche (ti prese la mania di cambiarli come i calzini), entrarono a far parte inseparabile del tuo aspetto: non ricordo di averti mai visto senza quelle lenti spesse e quelle vistose montature in tartaruga alle quali ti affidavi come a un amuleto portafortuna.

    Dall’età del soldato, gli eventi ti spinsero a metterti in proprio. Nelle cascine in cui avevi fatto da servitore – lavorando soprattutto nelle stalle – avevi dimostrato di possedere occhio per i cavalli e di disprezzare le mucche. Il tuo ultimo padrone se ne accorse, e ti chiamò ad accompagnarlo al mercato di Chivasso, dove acquistò ben sei capi, fidandosi delle tue indicazioni. Quando la sua attenzione cadde su un roano che gli sembrava bello e possente, tu gli mormorasti all’orecchio di non comperarlo, perché secondo te aveva una malattia agli zoccoli che l’avrebbe reso inabile al lavoro in poco tempo. Il tuo signore, sorpreso, fece chiamare il veterinario e, quando la tua diagnosi fu confermata, si sparse la voce del tuo talento, e in pochi mesi ti ritrovasti, senza avere mosso un dito, a dover rispondere alle chiamate di compratori dubbiosi che volevano essere guidati e di venditori pronti a farti lavorare per loro. Il tuo mestiere di venditore di cavalli ti chiamò e ti assunse prima ancora che tu scoprissi di volertici impegnare: correva l’anno 1934, avevi vent’anni, ed ebbe inizio allora il tuo momento d’oro, che durò all’incirca fino al 1949.

    Il commercio dei cavalli da lavoro nel vercellese si svolgeva sui binari di una rete capillare non ufficialmente istituita, ma efficientissima: i puledri venivano importati dagli allevamenti esteri – principalmente dal Belgio, dalla Polonia e dall’Ungheria – cresciuti nelle stalle degli importatori, e venduti agli agricoltori non appena raggiunta la capacità lavorativa. Dopo il servizio reso per parecchi anni nelle risaie e nei campi, i cavalli vecchi venivano ricomperati – bolsi o sfiniti – dagli stessi commercianti che li avevano venduti e passati – non senza un ulteriore profitto – alle sbrigative competenze delle macellerie equine che, in quei tempi, a Vercelli e dintorni, erano assai più prospere e numerose delle macellerie bovine. I grandi importatori non erano molti: quattro o cinque in tutta la zona del riso. Andavano negli allevamenti al nord e all’est d’Europa, acquistavano i capi a centinaia, li facevano trasportare con i vagoni ferroviari a Vercelli e a Novara, e li smistavano nelle stalle che possedevano presso varie cascine. Non erano i signori come il raffinato calligrafo casalese Marino Braga, a vendere direttamente i cavalli agli agricoltori: a lavorare sul campo, per loro, erano i tipi come te, che non solo sapevano valutare in pochi istanti l’età, lo stato di salute e la forza di un animale, ma erano anche introdotti nelle cascine, dove lo stato di necessità obbligava i coltivatori di riso – che tu conoscevi a uno a uno – a scendere a patti con l’invisa categoria dei trüciòn, immergendosi in estenuanti trattative prima di giungere alla stipulazione dei contratti. Mai scritti, questi, e sempre suggellati dalle fragorose manate che compratore e venditore si scambiavano e che, nell’etica della gente di risaia, valevano molto più di una scrittura notarile. Tu eri uno degli assi di questo commercio: il Braga – o un suo pari – ti dava mandato di vendergli cento cavalli e, nel giro di due o tre settimane, tu glieli facevi fuori, collocandoli nelle stalle, pronti a essere attaccati ai carri e fatti scendere nel fango delle risaie, ad arrancare sotto carichi immani. Senza i venditori come te, gli importatori sarebbero naufragati, ma tu e i tuoi colleghi-rivali non sareste stati capaci di recarvi nei lontani allevamenti esteri a comperare i puledri, né di organizzare i viaggi perigliosi con cui, dai luoghi d’origine, le bestie venivano trasportate nel vercellese e nel novarese.

    I venditori appartenevano a diversi livelli di prestigio, suggellati dai tipi di mezzi che adoperavano per spostarsi tra le cascine: i più quotati giravano in auto, gli intermedi con le motociclette e i novellini – o i meno fortunati – in bicicletta. Tu iniziasti subito dalla moto, ma – pur non potendo guidare l’auto a causa dei tuoi problemi di vista – comprasti ugualmente la Balilla che, nel caso di visite a patriarchi molto stimati, facevi guidare da tale Secondino, tuo autista occasionale e tua guida esperta nelle visite ai bordelli, dov’era di casa non meno di quanto fossi tu nelle cascine.

    I profitti erano alti e ti arricchisti in breve. Fu allora, intorno al 1937, che il Pignetti, mediatore poco fortunato, che esercitava per ripiego anche da sensale di matrimoni, incominciò a far suonare alle tue orecchie il ritornello del ti devi sistemare, offrendosi di cercarti moglie. Qualcosa frullava, al riguardo, anche nella tua mente: da anni, frequentavi, nella tua Asigliano, la Teresina (Tirisìn in asiglianese), figlia unica di una coppia di particellari che stentavano a campare con poche giornate di risaia e che, in mancanza dei mezzi per acquistare un cavallo, si servivano di una tarda mucca, che dava loro anche il latte. Vivevano in una casetta con orticello accanto alla casa che tu ti eri presa solo per te. La Tirisìn, maestra elementare mancata, era bruttina, ma forse proprio per questo a te sembrava adatta a governare una casa: incarnava il contrario delle donne da osteria con le quali avevi che fare ogni giorno nel tuo lavoro, procaci e dipinte come pappagalli, la cui compagnia ti era diventata abituale, ma che non avresti mai portato in casa. Lei ti avrebbe preparato la cena al tuo rientro dal quotidiano giro delle cascine, ti avrebbe lavato e stirato le camicie, avrebbe tenuto la casa in ordine, e – fattore da te considerato prestigioso – avrebbe potuto rispondere da pari a pari, a nome tuo, alle missive del divino Braga, ribattendo maiuscola su maiuscola, occhiello su occhiello, svolazzo su svolazzo, con un corsivo da lasciare ammirato anche quell’ineguagliabile destinatario. Che la Tirisìn non potesse esercitare su di te la minima attrazione fisica, non importava: nel tuo mondo si dava per scontato che con la moglie si facevano i figli, e le altre cose si facevano invece nelle stanze a ore delle locande o al bordello.

    Il Pignetti non approvava la candidatura della Tirisìn perché, ove fosse andata a buon fine, non gli avrebbe procurato alcun profitto, e ribadiva insistente che la sposa doveva essere una bela mata, neh!, degna del marito. Una tua fotografia del 1938 mostra infatti un giovane dall’aspetto un po’ grave e vagamente risentito, energico e frustrato allo stesso tempo: capelli neri con ondulazione fitta, ovale del volto perfetto, fronte ampia, sopracciglia folte e labbra sottili – al disopra delle quali, a destra, si nota una piccola cicatrice obliqua. Il fotografo doveva averti convinto a sostituire, per quella posa, i tuoi occhiali con altri dalle lenti meno spesse: gli occhi sembrano carichi di una vitalità repressa, mortificata, alla quale la montatura (ben più discreta di quella che abitualmente portavi) aggiunge un tono, se non da intellettuale, da medico di campagna. Non eri un contadino, e volevi qualcosa che non ti si era rivelato: lo cercavi nel riscatto economico e nelle donne, mete che, purtroppo, si sarebbero rivelate, nel tuo caso, effimere o fallaci.

    La Sandra – Alessandra Boninsegna – era del 1920, di sei anni più giovane di te. Era venuta dalla bassa bresciana (Barbariga) insieme alla famiglia della sorella, di ventidue anni maggiore di lei. Era nata tardivamente, quando i suoi genitori credevano di non essere più atti a procreare. Rimasta orfana di madre a quattro anni e di padre a dodici, fu sballottata tra le famiglie delle due sorelle per alcuni anni, fino a che il Gino Marconcini, marito della sorella maggiore, decise di trasferirsi in Piemonte portando con sé, insieme alla sua già numerosa prole, la giovanissima cognata, che si ritrovava zia di nipoti quasi suoi coetanei. Si stabilirono in una cascina situata tra Olcenengo e Casanova Elvo, chiamata La Cascinetta, dove il Gino aveva trovato lavoro come addetto alle stalle. Alla Sandra non occorrevano, per rendersi utile, esortazioni o comandi: abilissima in ogni genere di lavoro casalingo, dalla cucina al bucato, dal cucito alle pulizie, affiancava energicamente la sorella nel duro impegno di accudire la famiglia e, diversamente da te, che non avevi mai letto un libro, nel tempo libero si immergeva nelle pagine de La Stampa, quotidiano piemontese che il conte, proprietario del fondo, le passava regolarmente, anche se con un giorno di ritardo. Educata come giovane italiana, e cresciuta nel culto del duce, eccelleva nelle varie discipline della ginnastica e aveva gran cura del proprio corpo. Con buoni motivi: la sua bellezza fece presto nascere, nei cascinali della zona, una sorta di leggenda, e i giovanotti inventavano pretesti per farsi mandare dai loro padroni a fare qualche commissione alla Cascinetta, dove speravano di sbirciare la Sandra al lavoro nell’orto o intenta a stendere i panni al sole, mentre il parroco di Casanova Elvo dovette stupirsi nel constatare la crescita del numero dei giovani fedeli di sesso maschile che, la domenica mattina, assistevano alla celebrazione della Messa, alla quale la devotissima signora Marconcini trascinava tutti i familiari, anche se riluttanti o febbrili, con le ragazze – la Sandra in particolare – severamente velate.

    Passando per la Cascinetta, il Pignetti la vide, le si avvicinò, le rivolse qualche domanda, e giunse all’inevitabile conclusione: quella era la moglie giusta per te, il Pierìn d’Asjàn, giovane commerciante di cavalli in fase di arricchimento e bisognoso di mettersi a posto, tanto più che, dal modo con cui aveva risposto alle sue domande, il sensale aveva constatato che la ragazza, oltre a essere di abbagliante bellezza, era pure sveglia e simpatica. Pedalando come Binda, ti raggiunse la sera stessa ad Asigliano, e ti mise al corrente della sua scoperta. Tu non gli prestasti attenzione, e lo mettesti alla porta dicendogli che avevi altro per la testa: forse, il Braga ti aveva appena investito del compito di vendergli non cento, ma duecento cavalli. Era comunque d’obbligo, per te, far visita, prima a poi, al conte della Cascinetta. Fu lui a mandarti a chiamare, perché gli occorrevano nuovi cavalli, e per l’occasione mobilitasti il Secondino e ti presentasti con il vestito buono. Il grand’uomo, con la sua chiamata, fu involontario foriero di una svolta cruciale nella tua vita, perché, appena dopo essere sceso dalla Balilla e aver messo piede nel cortile, ti imbattesti nella Sandra che, in bicicletta, ti passò sotto il naso, lasciandoti di sasso.

    Credo che tu vivessi da almeno dieci anni nell’inconsapevole attesa di far convergere su una donna tutto ciò che di vitale, di frustrato, di irrisolto, di ambizioso, di vagamente folle, covava dentro di te, e che non poteva trovare realizzazione né conforto nei successi del tuo lavoro né, ancor meno, nei tuoi fugaci, rabbiosi incontri con le donne da osteria. La coercizione che ti avrebbe fatto sposare la Tirisìn per poterti ancorare alla tranquillità e all’ordine al prezzo di accontentarti di una presenza scialba e incolore nella tua vita, andò in frantumi in un istante, e di colpo ti si parò dinanzi la prospettiva di poter trovare tutto, proprio tutto, in una sola donna, e per la prima (e ultima) volta in vita tua ti balenò in mente il significato della parola felicità, il cui senso fino ad allora ti era del tutto ignoto.

    La trattativa dei cavalli con il conte fu rapida e priva di ostacoli: non vedevi l’ora di precipitarti in cortile, di incontrare qualcuno e domandargli della ragazza. Non c’era nessuno, e il giorno dopo tu commettesti il primo di una infinita serie di errori che avrebbero fatto di te dapprima il meno gradito dei pretendenti e poi il più detestato dei mariti. Invece di presentarti semplicemente in famiglia, e di chiedere ai tutori, il Gino e la moglie, di incontrare la Sandra e di dichiararti, corresti a cercare il lugubre, fetido Pignetti, incaricandolo di combinare

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