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Sudeste
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E-book218 pagine3 ore

Sudeste

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Pubblicato per la prima volta in Italia (con la splendida traduzione di Marino Magliani), "Sudeste" è considerato un classico della narrativa argentina contemporanea (premio Fabril), un vero e proprio capolavoro. Haroldo Conti, poco conosciuto in Italia ma di grande fama nel suo paese, fu considerato da Gabriel García Márquez il miglior narratore della sua generazione.
Sudeste è il vento che scuote la foce del fiume Paraná e la direzione da cui soffia quel vento solleva e spinge il mare nel Delta. Ma la foce del Paraná non è tanto il riferimento a un luogo definito, bensì il centro dell’universo che l’autore ci vuole narrare.
Il Boga, un tagliatore di giunchi con gli «occhi da pesce moribondo», che conduce una vita sedentaria e monotona, decide dopo la morte del Viejo di avventurarsi sul fiume con una piccola barca sgangherata. Sono l’acqua, il vento, l’andirivieni tra i canneti a scandire le stagioni; il suo vagare silenzioso e solitario lo porta a sentire «quella specie di rumore che nasce nei luoghi da lungo tempo disabitati» e a scoprire un’umanità remota e sospesa. Il fiume «a conti fatti, sembra diabolicamente astuto e torvo, e perfino crudele», una specie di demone arbitrario che governa i destini di esseri duri e taciturni che vivono pescando e raccogliendo giunchi. Gente che mangia gallette rafferme e pesce che sa di fango e ama più i cani che gli uomini.
Il Boga giorno dopo giorno perde interesse per qualsiasi altra cosa che non sia questo vagare seguendo i suoi pesci. Quello che accade sembra niente ma è il tutto, il dipanarsi di una vita: fatti minimi che riempiono i giorni e incontri violenti con personaggi oscuri in mezzo a isole dal profilo illusorio, sopra un fiume che somiglia all’eternità. «Se ne stava lì, schiacciato contro il tavolato, ansimando. Mise la mano destra sul braccio ferito e sentì che si inumidiva, e poi vide il sangue, denso e scuro […]».
LinguaItaliano
Data di uscita11 set 2020
ISBN9788831461047
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    Sudeste - Haroldo Conti

    quisiscrivemale

    SUDESTE

    Haroldo Conti

    Sudeste

    di Haroldo Conti

    Collana quisiscrivemale

    © 2018 - Edizioni Exòrma

    Via Fabrizio Luscino 73 - Roma

    Tutti i diritti riservati

    www.exormaedizioni.com

    Progetto editoriale Orfeo Pagnani

    Traduzione Marino Magliani

    Impaginazione omgrafica, roma

    Revisione della traduzione Riccardo Ferrazzi

    ISBN 978-88-31461-04-7

    Edizione originale Sudeste, Compañía General Fabril Editora (1962)

    Opera pubblicata nell’ambito del Programma Sur di supporto alle traduzioni del Ministero degli Affari Esteri, del Commercio Internazionale e del Culto della Repubblica Argentina.

    Obra editada en el marco del Programa Sur de Apoyo a las Traducciones del Ministerio de Relaciones Exteriores e Culto de la República Argentina.

    SUDESTE

    Nella zona compresa fra il Pajarito e il Rio de la Plata, piegando bruscamente verso nord, fino a metà del suo corso sempre più stretto e in seguito distendendosi e tracciando lente curve fino alla foce, il rio Anguilas serpeggia, nascosto dalle prime isole.

    Passata l’ultima ansa, il grande fiume appare all’improvviso, increspato dal vento. È immenso, sebbene le acque in quel punto non siano affatto profonde: dalla foce del San Antonio a quella del Luján è tutto un unico banco. L’Anguilas sfocia al centro di quel bassofondo, in una pianura coperta di canneti. Comunque la si guardi, la zona appare desolata e nei giorni grigi, con molto vento, impressiona chiunque.

    A sinistra, molto distante, si affaccia l’isola Santa Mónica, scura e silenziosa come un bastimento. A destra, la costa si perde in una lontananza bluastra. Nei giorni chiari, guardando a sud, come quinte teatrali perennemente oppresse da una nuvola ferrigna, si possono scorgere i profili bianchi e grigi degli edifici più alti di Buenos Aires.

    Quando il fiume cala di livello fa emergere una parte del banco, e quando la secca è al punto più basso sembra che la terraferma si sia estesa, simulando nuovi ruscelli che attraversano la pianura coperta di canne. Qualche pescatore si arrischia su questa terra umida e desolata ma, se non ci stende sopra il graticcio che fa da pavimento alla barca, affonda fino ai ginocchi.

    Sulle carte più recenti, alla foce dell’Anguilas c’è il disegnino di un pesce per segnalare che lì la pesca è abbondante, ma la cosa è piuttosto aleatoria. Del resto, bisogna essere ingenui per prendere sul serio queste indicazioni. Durante la settimana, di notte, i pescatori gettano le reti attraverso la foce perché nei giorni feriali la zona è poco frequentata. Hanno preso questo brutto vizio e si sentono padroni del posto. Uno che non lo sa, se passa sopra la rete, rischia che gli affondino la barca a schioppettate. Una volta il Polo dovette aprirsi la strada sparando verso i canneti su tutte e due le rive con il suo vecchio fucile inglese di marca Purdey, del 1903, con le canne d’acciaio segate, che teneva proprio per questo tipo di occasioni. Approfittando del riflusso trascinò le reti lungo il bassofondo e quando fu in mezzo al fiume le issò a bordo. Qualche tempo dopo le vendette a San Fernando. Ma questa è storia vecchia. Il Polo è sparito da tanto tempo. Invece quei tipi sono sempre lì e nelle notti dei giorni feriali stendono ancora le reti attraverso la foce.

    Il Boga lavorò insieme al vecchio fin quasi in primavera. Erano nove anni che il vecchio viveva sull’Anguilas e da sette sbarcava il lunario con i giunchi. Nel ’48 era venuto giù dal Romero dove, dal ’34 fino ad allora, aveva trafficato con le mele. Nel ’47 affondò la Elbita, una chiatta di sei tonnellate per il trasporto della frutta, e l’unico figlio che era rimasto con loro morì affogato. Così nel ’48, già vecchio, anche troppo, scese all’Anguilas con la lancia dell’Elbita. Fece due viaggi. Uno con le masserizie, l’altro con la vecchia e Urbano (il cane), e due o tre galline. Andarono a sistemarsi in una delle tre capanne vuote, la più vicina alla foce, nel punto dove l’Anguilas si raccorda con quel fiumiciattolo cieco che si interra un po’ più avanti e chi non conosce la zona lo prende per un ramo dell’Anguilas. Si era sbagliato anche lui, quando era arrivato lì nel ’48.

    La capanna aveva due stanze, o meglio: una sola, ma divisa in due da un tramezzo di fango. Con gli anni, il vecchio aggiunse altre due stanze e una latrina, sistemata sul retro. Il tempo rese uniforme il complesso facendone un’unica massa scura e ingombrante, con due o tre ingressi anche più scuri. La base era piuttosto alta e abbastanza sconnessa, con alcune travi imputridite. A poco a poco prese a cedere da un lato, il più debole, dimodoché la capanna finì per inclinarsi mollemente da quella parte.

    In quel punto il fiumiciattolo era troppo stretto per farci stare un attracco. Del resto, c’è da dubitare che il vecchio l’avrebbe fatto. Incassò nella riva una scaletta di salice e ormeggiò la lancia dell’Elbita a uno dei pioli.

    Tutti sanno che i giunchi più si tagliano più ricrescono. Ma quando sono in tanti a tagliare e qualcuno taglia troppo, il prezzo crolla e nessuno paga granché per un deposito pieno zeppo di canne. Non esiste un lavoro più maledetto e miserabile. Per colmo di sventura, sembra che la gente che vive in queste isole non sappia fare altro.

    Due anni prima era successo qualcosa del genere, e così l’anno successivo, cioè l’anno scorso, nessuno tagliò i giunchi; o perlomeno nessuno provò a venderli.

    Anche il vecchio non li tagliò, e quasi morì di fame. Ma resistette dignitosamente, cibandosi per lo più di pesci gatto o, in inverno, di pesci re, che lui chiamava latterini o lattarini, e che dopo tutto sono una prelibatezza.

    E così l’anno dopo, che fu l’ultimo del vecchio, i giunchi tornarono a crescere.

    Appena fu il momento di tagliare si rifece vivo il Boga, e lavorarono insieme fino a poco fa, quando arrivò la primavera.

    Nell’anno morto, cioè l’anno prima, il vecchio aveva completato la costruzione di un rifugio di salice e paglia. L’aveva iniziato tre anni prima, quando era morto l’Urbano. Era piuttosto basso e senza pareti, sistemato in un punto in cui il terreno era più elevato, vicino a un ceibo solitario. Il vecchio scavò il pavimento a mezzo metro di profondità e in uno degli angoli fece una specie di focolare. A mezzogiorno, o quando si scatenava il maltempo, andavano a mettersi lì. Mangiavano pane e un pezzo di lardo, e bevevano il mate. Qualche volta il Boga arrostiva i pesci gatto che avevano abboccato alla lenza, anche se di solito preferiva portarseli a casa. Poi dormivano un po’. Il vecchio dormiva seduto, con la testa sulle ginocchia e le braccia intorno alle gambe.

    Il vecchio e il Boga non parlavano mai più dello stretto necessario. Però si intendevano a meraviglia. Ogni mattina tutti e due sprofondavano in quella solitudine verde e rumorosa che si agita docilmente a ogni raffica di vento. Ognuno si apriva la strada per conto suo, con i piedi nell’acqua. A volte l’acqua saliva fin sopra ai ginocchi, ma loro sembrava che non ci facessero caso. Oltre la barriera verde, in direzione del grande fiume, ascoltavano il mormorio dell’acqua che scorreva instancabile sui bassi fondali. Il grido lontano e lamentoso di un aramo. Lo strepito soffocato di una lancia che si allontanava sempre più. Le pulsazioni regolari del motore diesel dei cavatori di sabbia che navigavano nel canale. I Gloster che rombavano nelle nubi e attraversavano il cielo con un salto, inseguiti dal loro rumore.

    Nonostante l’età il vecchio era molto abile. Quando raccoglieva i giunchi più esterni fra quelli stesi a seccare intorno al rifugio, aveva un’incredibile rapidità e perfino una certa eleganza. Li raccoglieva con una manata e in un colpo solo li scrollava e ne faceva mannelli, per poi finire il gesto legando ogni mannello con un singolo giunco. Il Boga non era così abile: pareva che disdegnasse di concentrarsi su una faccenda che non meritava di diventare un’arte. Semmai ne era un po’ annoiato, anche se la sua pazienza – o meglio: la sua indifferenza – era inesauribile. Di tutto il lavoro, la cosa che più gli dava piacere era stare nel rifugio a contemplare il tappeto di giunchi pazientemente steso da lui e dal vecchio, che esponeva al sole il suo oscuro splendore e dava a quei dintorni desolati l’aspetto di un’isola tropicale.

    A tempo debito, il vecchio lasciava i giunchi e si dedicava ad altri arbusti come la tifa e la sala. La paglia stesa a terra non faceva effetto come i giunchi, ma era ugualmente utile.

    A volte portavano con loro il cane baio, ma il vecchio preferiva lasciarlo a casa perché andava a cacciarsi nel canneto e abbaiava di continuo, e lo metteva di malumore. In ogni modo, prima o poi durante il giorno il cane si faceva vivo e cominciava ad abbaiare. Il vecchio sopportava per un bel po’, come se non ci facesse caso. Poi scattava come una molla, sparava una parolaccia che sembrava colpire il bersaglio, e nel canneto si sentiva un rumore affrettato che si allontanava verso casa. Il vecchio non apprezzava granché il cane baio, anche se gli tornava utile. La vecchia, invece, preferiva il baio all’Urbano.

    Quando il Boga gli chiese in prestito il fucile che fin dal primo giorno aveva visto appeso vicino alla testata del letto, il vecchio lo guardò negli occhi e non disse niente. Due mesi dopo, quando c’era da pensare che avesse dimenticato l’argomento, andò a prendere il fucile e lo portò nella veranda, lo appoggiò contro il muro, di fianco al Boga, che si era accoccolato lì a fumare una delle sue cicche. Da quel giorno il Boga andò in barca col fucile e quando remava lo teneva fra i piedi, sul pavimento. Lavorava nel canneto col fucile sempre a portata di mano, appeso a un paletto biforcuto che piantava nel fango. Quando un carau o qualunque altro uccello che valesse la pena si posava da quelle parti, gli bastava allungare il braccio per prendere il fucile. Il colpo risuonava rauco e lamentoso, come se qualcuno avesse percosso quell’immensità, e rotolava sulla pianura ondulata e poi sulle acque e poi sulle isole più vicine. Tornato a casa, il Boga se ne stava sul pavimento del ballatoio e si dedicava a pulire e smontare il fucile con una meticolosità estenuante. Era un fucile belga, Pirlott e Fresart, per cartucce calibro 12, da 65 mm. Avrebbe dato qualunque cosa per quel fucile, ma si rendeva conto che il vecchio ci teneva quanto lui. Ciò che un giorno magari si sarebbe azzardato a chiedergli era il coltello Sheffield, quello con cui, oltre al resto, spuntava i sigari.

    Il vecchio lavorava scalzo, con un paio di pantaloni logori tagliati poco sotto il ginocchio, e due vesti corte, una sopra l’altra, chiuse con una corda di sisal. Lui invece usava una maglia col collo alto e un paio di mutande con la patta cucita. Era un lavoro sporco e duro, che li abbrutiva poco a poco. Quasi tutti i giorni il vento non smetteva di ronzare intorno alla testa come uno sciame di vespe, stordiva e raschiava la pelle del volto.

    Quando cadeva la sera, il Boga recuperava le lenze e tornavano a casa, morti di sonno e di noia. Lui, così come stava, si infilava un paio di pantaloni sopra le mutande e si accoccolava in un angolo della veranda. Invece il vecchio non la finiva più di lavarsi, indossava una camicia pulita di felpa senza colletto, un paio di pantaloni lunghi e gli stivali Pirelli. Poi si sedeva nel ballatoio, col coltello Sheffield tagliava in due un sigaro Avanti e fumava con calma fino all’ora di cena, con il cane baio steso vicino a lui, osservando il fiume, osservando il cielo, osservando il silenzioso arrivo della notte. La vecchia accendeva una lanterna.

    Il vecchio si alzava prima del Boga, al primo spuntare dell’alba. Lui lo sentiva girare per casa (era l’unica circostanza in cui apparisse realmente vecchio) finché il rumore dei suoi passi lenti e pesanti cresceva avvicinandosi alla sua stanza. Dava un calcetto alla porta, si girava e se ne andava via. Questo era l’unico modo in cui esprimeva la sua autorità di padrone di casa e il Boga la prendeva appunto così, perché in qualunque altro senso sarebbe stata perfettamente inutile. Lo sapevano tutti e due. Lui era sveglio da molto prima e vedeva crescere la luce attraverso gli spiragli della porta e c’era un punto in cui coincidevano la luce e il calcio.

    Ma quella mattina, non molto prima che arrivasse la primavera, la luce oltrepassò quel punto senza che si udisse il calcio, e nemmeno i passi lenti e pesanti del vecchio che diventavano più forti man mano che si avvicinavano alla stanza. Il Boga aveva sentito i passi, molto soffocati, ma soltanto all’alba. E adesso non era più sicuro di averli sentiti. Poi erano cessati e aveva soltanto visto crescere la luce. Ormai era giorno. Poteva vedere il contorno indistinto dei suoi piedi aperti a formare una V. Ma restava ancora disteso, con gli orecchi all’erta suo malgrado, fissando un piccolo buco nel tetto che brillava come una moneta.

    Sentì l’aereo delle sette e mezza, che veniva dal sud, come se rotolasse sopra il tetto, e si alzò. Rimase in piedi nella penombra. Percepiva il silenzio che saliva dal pavimento e affogava la stanza. Allora uscì nella veranda, lisciandosi i capelli con le mani.

    Il vecchio se ne stava lì, in fondo alla veranda, seduto sulla sedia di vimini, con una coperta sulle gambe. Guardava verso il fiume.

    Dalla soglia il Boga lo contemplò con gli occhi socchiusi, senza mostrarsi sorpreso. Il cane baio era sdraiato vicino al vecchio e alzò gli orecchi quando lo sentì avvicinarsi. Sempre al buio, entrò nella cucina dalle pareti coperte di successive cappe di fuliggine che esalavano un rancido odore di fumo; ebbe la sensazione che la vecchia stesse lì in un angolo a osservare lui, il vecchio e, più in là, il fiume. Il chiarore rossastro che sbocciava dal focolare faceva sì che le ombre oscillassero con un dondolìo irregolare.

    La vecchia aveva lasciato la caffettiera sulla cucina economica, non proprio sul fornello ma un po’ scostata per fare in modo che l’acqua non bollisse, e il mate era già preparato sul coperchio della caffettiera rivolto all’insù. Lo faceva ogni giorno. Il Boga prese una galletta dalla borsa appesa al muro e la mise sotto la maglia. Poi uscì nella veranda con la caffettiera e il mate, e si accomodò sul pavimento.

    Osservò il volto del vecchio, fiacco e smagrito, con la barba un po’ lunga, come se pendesse dal bordo di una grondaia.

    Gettò un po’ di pane al cane baio, ma lui lo fiutò e riprese a dormire.

    – Quei giunchi ormai devono essere secchi – disse il vecchio. – Si possono raccogliere oggi, in quel che resta della giornata.

    Lì, nella veranda, si sentiva il rumore sordo del fuoco alimentato dal tiraggio del camino.

    – Va bene…

    – Si può raccoglierli oggi e portarli domani a San Fernando.

    – Va bene…

    – E già che ci sei, puoi procurare un po’ di cose che servono.

    – Va bene…

    Sentirono una lancia in lontananza.

    – Sono le nove.

    – Merda!

    – Meglio che vai.

    Il Boga si alzò.

    – Cosa le succede, vecchio?

    – Io non vengo… no… – fece un gesto seccato. – Meglio che vai.

    – Va bene…

    Mentre scendeva la scala si voltò per un attimo e fece schioccare le dita. Il cane baio si alzò e, passando immediatamente dalla quiete assoluta al movimento totale, saltò nella barca prima di lui.

    Raccolse i giunchi, uccise due beccacce vicino al banco e rientrò verso sera.

    Il vecchio era sempre lì, nella veranda, con la coperta sulle gambe, e aveva sentito il cane che abbaiava in lontananza per la maggior parte del tempo, finché erano risuonati gli spari.

    Il Boga passò davanti a lui, diretto alla cucina, e disse:

    – Oggi c’erano in giro quegli stronzi della rete.

    – Maledetti!

    – E il vecchio Bastos.

    – Cos’ha detto quando non mi ha visto?

    – Non ha detto niente.

    Il vecchio ci pensò su. Il Boga entrò nella cucina e allungò le beccacce verso l’angolo dove doveva stare la vecchia.

    – E i giunchi? – domandò il vecchio.

    – Fatto.

    Il vecchio tornò a immergersi nei suoi pensieri. Tra le altre cose si tormentava per ciò che avrebbe potuto dire quel pidocchioso di Bastos.

    La vecchia era uscita dall’ombra e stava curva sulla cucina economica. Il Boga le toccò una spalla e quando lei si volse le indicò il vecchio con un gesto.

    – Dice che deve morire – disse la vecchia stringendosi nelle spalle.

    Il Boga corrugò la fronte.

    – È quello che dice.

    Il Boga si strinse nelle spalle anche lui e uscì nella veranda. Sembrava che la cosa lo divertisse assai.

    – Vecchio, la pianti

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