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L'inferno degli ipocriti
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E-book226 pagine2 ore

L'inferno degli ipocriti

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Info su questo ebook

Milano, autunno 2019. Manuela Caselli, ispettrice della Squadra Mobile, riceve una telefonata a notte fonda. Lo spietato killer di una indagine archiviata ha ripreso a uccidere. Inizia un viaggio nell'orrore e una corsa contro il tempo per salvare la prossima vittima dall'assassino. Aiutata dai suoi alleati e ostacolata dai suoi detrattori, l’ispettrice deve sbrogliare la matassa e svelare il mistero all'origine dei crudeli omicidi.
LinguaItaliano
Data di uscita19 ago 2020
ISBN9788835881230
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    Anteprima del libro

    L'inferno degli ipocriti - Sofia Raveno

    dell’editore

    Capitolo 1 - Il capannone

    Il buio è quasi totale, inghiotte ogni cosa.

    Il silenzio assordante è rotto solo dall’incessante frinire dei grilli e da una lieve brezza che si insinua tra le erbacce alte.

    All’improvviso un urlo. Lungo, straziante e amplificato dall’eco prodotta dalla struttura stessa che, investita da quel penoso lamento, all’improvviso si delinea chiaramente.

    Un capannone abbandonato da anni, tranne dalla natura che lo accoglie tra le sue braccia che si allungano inesorabili: cespugli e fogliame sparsi ovunque, una prepotente pianta rampicante che si appropria delle pareti ridotte ormai a esili lamiere e il pavimento, una volta di grigio e robusto cemento, trasformato in un dissestato letto di muschio umido che s’insinua attraverso le crepe.

    Un altro interminabile grido.

    Procedendo tra le alte colonne in acciaio, ormai corrose dal tempo, non si vede nulla a eccezione di una fredda luce, intensa e ben direzionata verso il protagonista di questo macabro spettacolo.

    «Chi sei? Perché lo stai facendo? Ti ho detto tutto, lasciami andare» dice con voce supplicante. È un uomo sulla sessantina con radi e sottili capelli grigi che gli cadono sulla fronte sudata. Nudo e legato fino ai piedi a una sedia con delle catene arrugginite, sotto alla quale si estende un lago di sangue e urina.

    Difficile dire da quanto tempo sia incatenato lì, ma di sicuro abbastanza da aver collezionato un considerevole numero di ferite, alcune delle quali inspiegabilmente suturate e medicate con cura.

    «Perché non mi lasci andare? Ti ho detto quello che so, non è colpa mia» dice di nuovo singhiozzando senza ritegno, ma senza ottenere alcuna risposta dalle tenebre che lo circondano. «Vuoi sfinirmi, vero? Vuoi logorarmi e farmi supplicare, razza di verme codardo. Non hai nemmeno il coraggio di farti vedere. Esci fuori bastardo e affrontami come un vero uomo!»

    Oscillando tra impeti d’ira e patetiche suppliche, l’uomo tremante è allo stremo delle forze, quando all’improvviso un rumore di passi che creano un rimbombo spettrale attirano la sua attenzione.

    Alza la testa lentamente e con un filo di voce dice: «Ti sei deciso a venir fuori, maledetto».

    Un profilo filiforme si muove nell’ombra e, senza dire una parola, si avvicina con lentezza snervante.

    È completamente vestito di nero e non si può scorgere nemmeno un millimetro della sua pelle. Indossa un maglione di cashmere a collo alto, senza nessun segno particolare, ma abbastanza aderente da far intuire la sua fisicità. Una corporatura prestante, dalle movenze fluide e armoniose con le quali procede senza alcun indugio verso il suo ostaggio.

    È composto e pacato. I pantaloni perfettamente stirati gli cadono lungo le gambe slanciate. Ai piedi eleganti scarpe di vernice che male si abbinano a quella squallida circostanza.

    Ma ciò che più sconvolge è il volto, coperto da una sinistra maschera scura raffigurante un teschio demoniaco con corna arricciate in una spirale ben stretta e aguzzi denti sporgenti. Finemente intagliata, sembra prendere vita ogni volta che la luce la colpisce.

    Anche le mani sono ben coperte da aderenti guanti di pelle nera nuovi di zecca e dalla sinistra pende un oggetto: un tubo metallico, di grosso diametro.

    A esasperare ancora di più l’agonia della vittima, la sua andatura flemmatica e il suono che produce facendo strisciare la punta del tubo contro il suolo disconnesso.

    Il malcapitato a tratti piange e invoca aiuto, a tratti lo insulta e lo sfida, ma quel tetro diavolo non sembra nemmeno sentirlo.

    Nonostante sia esausto e del tutto immobilizzato, il suo cuore batte sempre più velocemente, facendo aumentare ritmicamente la quantità di sangue che sgorga da un’incisione nello spazio tra la quinta e la sesta costa; la ferita si dilata e si richiude a ogni suo affannoso respiro.

    L’occhio destro è così tumefatto da non distinguersi più dallo zigomo, mentre dal sinistro, visibilmente stanco e arrossato, scendono copiose le lacrime che si fanno strada sulle guance orrendamente deturpate e ricoperte da un’inquietante quantità di sangue rappreso.

    Anche tutto il resto del flaccido corpo è martoriato, ma nella remota speranza di salvarsi strilla con tutto il fiato che gli rimane in corpo: «Non hai nemmeno il coraggio di farti vedere in faccia, codardo!».

    «Ah, ma tu mi conosci. Mi conosci bene, non hai bisogno di vedere il mio volto. Sapevi che prima o poi sarei arrivato» risponde inaspettatamente una voce nel buio.

    Il prigioniero, che al suono di queste parole sembra ritrovare un ultimo guizzo di energia, si dimena nel tentativo di liberarsi e risponde: «Io non ho la più pallida idea di chi tu sia, squilibrato psicopatico. Lasciami andare o io…».

    «O tu cosa?» risponde facendo intuire un sorriso derisorio da sotto la maschera «Dimmi, esattamente cosa vorresti fare? Fuggire? Aggredirmi?»

    Una lunga risata, quasi forzata. Di nuovo silenzio.

    «No, questa volta non te la caverai così facilmente» sentenzia mentre si avvicina sempre di più alla sua preda, lentamente ma senza esitazione.

    La mano che stringe il tubo di metallo tradisce una certa impazienza; impercettibili movimenti delle dita rendono sempre più decisa la stretta attorno all’impugnatura. «Davvero non hai ancora capito chi io sia? Beh in tal caso allora dovrò spiegartelo: sono la mano che avrebbe dovuto punirti tanto tempo fa. Ho atteso con pazienza per farti assistere allo spettacolo del cerchio che ti si stringeva intorno. Volevo che ti sentissi un topo in trappola. Il lurido insignificante ratto che sei.»

    «Ma di cosa stai blaterando? Le tue parole non hanno senso. Qua l’unico ratto sei te.»

    L’uomo in nero avanza lento fino a fermarsi di fronte a un carrello operatorio sopra il quale sono disposti degli attrezzi chirurgici, perfettamente organizzati con ordine maniacale.

    All’impeccabile posizionamento degli strumenti, si contrappone la grande quantità di sangue di cui sono intrisi. Non sono tutte macchie fresche, al contrario presentano diversi gradi di ossidazione, eccezion fatta per un grosso bisturi da cui gocciola un rivolo di sangue rosso vivo che scivola lungo il freddo acciaio del carrello, fino ad arrivare a una delle ruote e quindi al pavimento, impregnando una venatura di morbido muschio.

    L’uomo legato alla sedia piange, sempre più forte.

    «Hai visto cosa mi hai fatto fare? Tutto questo, vedi, non è colpa mia, ma solo tua» sussurra l’aguzzino, fermandosi a osservare il carrello.

    «Tu farnetichi pazzo psicopatico».

    «Assolutamente no» replica stupito l’uomo in nero. «Se siamo qui è solo per colpa tua e delle tue scelte. Vedi, la vita si compone delle decisioni che prendiamo, le quali portano inevitabilmente a delle conseguenze e queste conseguenze bisogna saperle accettare.»

    «Ma io…» prova a ribattere l’altro ormai esausto, ma viene interrotto dal suo interlocutore che non sembra nemmeno sentirlo. «Dovresti essermi grato, sai? Ti ho dato la possibilità di ripulirti la coscienza, non tutti godono di questo privilegio». Mentre lo dice ruota leggermente il busto e con ciò che tiene in mano indica una telecamera poco dietro di lui, posta su un cavalletto, che punta direttamente al prigioniero.

    «Io non ho nessun bisogno di ripulirmi la coscienza. Quello che ho detto mi hai costretto tu a confessarlo» urla il vecchio guardando la telecamera, come se qualcuno potesse ascoltarlo. «Io non ho fatto niente!»

    L’aguzzino fa ancora qualche passo in avanti senza cambiare andatura. Ora è abbastanza vicino da proiettare la sua ombra sulle ginocchia fracassate della sua vittima, che piagnucola, cercando di darsi comunque un certo contegno. «Cosa vuoi fare? Sei venuto a finire il lavoro, vero?»

    «Il lavoro? No, certo che no. Non è un lavoro tutto questo» risponde indispettito l’uomo in nero. «Non lavorerei mai in un posto tanto squallido. Questo va bene per te, sudicio assassino» e mentre lo dice allarga le braccia a indicare tutto ciò che gli sta intorno.

    «Ah sarei io l’assassino? Quello nudo, legato a una sedia e torturato senza pietà.»

    L’uomo in nero si avvicina ancora un paio di passi. È così vicino da sfiorare le gambe del suo prigioniero, incurante delle macchie di sangue che si allargano sui suoi ormai non più perfetti pantaloni. Si china verso di lui fino a raggiungere l’orecchio destro e bisbiglia: «Fino a prova contraria non ti ho ancora ucciso…». Si rimette di nuovo in piedi e inclina la testa guardando la sua vittima attraverso la raccapricciante maschera.

    Porta quindi la mazza dietro il collo e vi appoggia entrambe le braccia, assumendo una posa rilassata.

    Dopo qualche secondo di silenzio, essendo ormai certo di essere spacciato, l’ostaggio dice: «E allora? Cosa stai aspettando? Fallo e facciamola finita».

    «E chi ti dà il diritto di pretendere tanta misericordia?» tuona l’aguzzino avvicinandosi all’uomo che istintivamente reclina la testa di lato strizzando forte l’unico occhio ancora in grado di muoversi. «Ah già tu sei migliore di tutti. "Er mejo", come diresti tu. Sei così tanto speciale che ti permetti di dare ordini anche mentre sguazzi nudo nel tuo stesso piscio. Ora che ci penso è tanto patetico quanto esilarante» e non riesce nemmeno a terminare la frase che scoppia in una fragorosa risata.

    Leggermente piegato in avanti, mentre ride fino quasi a non riuscire più a respirare, viene improvvisamente interrotto da una domanda. «E allora, se non vuoi uccidermi, cosa vuoi fare?»

    In una frazione di secondo, torna serio, afferra la mazza anche con la mano destra, la porta con vigore sopra la spalla sinistra, si ferma un attimo e risponde con tono lapidario: «Ristabilire l’equilibrio».

    «No, no no! Ti pre...» gli urla il malcapitato in un ultimo disperato tentativo di fermare il suo aggressore, ma prima che possa rendersene conto tutto l’ambiente circostante si riempie dell’assordante fragore di ossa frantumate.

    Colpito sul lato destro della testa con indicibile violenza, cade sul fianco opposto portandosi dietro anche la sedia a cui è ancorato. Rimane lì, immobile con gli occhi sbarrati e una pozza di sangue si allarga lenta intorno a lui.

    Un macabro quadro compare davanti agli occhi dell’assassino: al centro di questa tela il cranio dell’uomo, vistosamente deturpato da un profondo solco che si estende dall’osso parietale, fino a quello zigomatico.

    Emette alcuni versi agonizzanti e poi più nulla.

    Si avvicina accovacciandosi di fianco al cadavere e lo squadra per qualche secondo.

    Di colpo si rialza, porta l’arma sopra la testa e inizia a colpirlo con una foga del tutto estranea alla fredda compostezza dimostrata fino a quel momento.

    Urla, versi animaleschi, imprecazioni e a tratti risa tanto compiaciute, quanto isteriche.

    Passano i minuti. Improvvisamente di nuovo la quiete.

    Il pavimento, ormai del tutto ricoperto da sangue, schegge d’osso e tessuti molli è un tutt’uno con il cranio martoriato della vittima.

    Da sotto il maglione, il petto ansimante si alza e si abbassa per l’enorme sforzo, ma anche per l’eccitazione che lo pervade.

    La sua scura divisa di boia, fino a pochi minuti prima senza alcun difetto, è ora completamente ricoperta dai resti del vecchio.

    Il tubo deformato cade a terra, rimbalza un paio di volte, rotola e si ferma di fianco al cadavere.

    E’ finita.

    Con una surreale calma gradualmente ritrovata, inimmaginabile considerando quanto appena avvenuto, si toglie la maschera con un gesto placido e fluido, mostrando un inquietante sorriso che si allarga sulle sue labbra sottili.

    Capitolo 2 - L’Ispettrice Caselli

    La suoneria del telefono squilla sempre più forte accompagnata dal fastidioso ronzio della vibrazione.

    «Che cazzo… arrivo» dice una voce biascicante.

    Capelli biondi spettinati le coprono il viso e un imbarazzante rivolo di saliva le bagna l’angolo destro della bocca.

    Senza nemmeno aprire gli occhi, inizia a tastare con foga il divano su cui si era addormentata. Un terribile divano giallo, tanto brutto quanto scomodo; pieno di cartacce di merendine, briciole e persino una bruciatura di sigaretta nella parte esterna del bracciolo sinistro. Brutto, irrimediabilmente brutto. Chi mai avrebbe comprato un divano giallo canarino?

    Forse la proprietaria di un posacenere a forma di fenicottero fucsia che troneggia fiero su un tavolino color turchese brillante.

    Il resto dell’arredamento non è da meno: un insopportabile tripudio di kitsch.

    Nonostante i pochi oggetti presenti nella stanza, l’impatto visivo dato dai colori sgargianti e mobilia scadente è davvero impressionante.

    Alle pareti alcuni poster di famosi piloti di motociclette di varie epoche e subito sotto, un mobile su cui sono appoggiate un paio di foto (le uniche presenti in tutto l’appartamento), un peluche di un deforme unicorno rosa e una montagnola di libri e fumetti di Tex Willer accatastati a casaccio.

    Di fronte al divano la regina della stanza: una televisione da sessantacinque pollici ad alta risoluzione accesa su un canale che trasmette cartoni animati.

    La stanza è tutta lì, un divano, un tavolino, una TV e un mobile: posizionati come se non avessero alcun senso estetico, eppure, allo stesso tempo, capaci di dare la sensazione che sia tutto esattamente dove dovrebbe essere.

    Il telefono continua a suonare.

    «Ci sono» ripete asciugandosi la bava con il dorso della mano e scostandosi malamente una ciocca di capelli, mentre con l’altra tasta grossolanamente il tavolino turchese.

    «Ah cazzo» ringhia ritraendo la mano destra e strappandosi l’unghia che si è appena spezzata e rovinando parte dello smalto nero che la ricopre.

    «Poi mi chiedono perché sono sempre incazzata» bofonchia mentre riprende la spasmodica ricerca.

    «Oh eccoti bastardo» esclama alla vista del telefono. Si scosta meglio i capelli dal viso e all’improvviso compare una bella donna sui trentacinque anni.

    Il trucco nero sbavato le crea degli aloni che sottolineano le sue già scure occhiaie.

    Le labbra chiare e un po’ secche fanno da cornice a degli splendidi denti dritti e ordinati. Zigomi scolpiti e lineamenti affusolati fanno risaltare i grandi occhi azzurro ghiaccio.

    «Benelli è quasi mezzanotte, che vuoi?» risponde ributtandosi in maniera scomposta sull’orrido divano. Una maglietta aderente a maniche lunghe color ottanio e dei jeans neri attillati sono ciò che compare dopo che la donna scosta con un gesto seccato la pesante coperta in pile rosso vermiglio in cui era avvolta.

    «Che cazzo dici?» esclama mentre si risolleva dal divano come se fosse stata attraversata da una scarica di corrente. «Nessuno deve toccare niente! Luca è arrivato? Ok, in quindici minuti sono lì.»

    Lancia il cellulare su un cuscino afferra con foga gli anfibi abbandonati poco più in là, li allaccia stretti, si alza di scatto e con una fluidità che poco si addice alla condizione in cui versava solo pochi secondi prima, afferra le chiavi, la pistola e una pesante giacca di pelle.

    Si fionda fuori di casa sbattendo la porta dietro di sé.

    La pace e il silenzio tornano sovrani nell’appartamento.

    Pochi istanti dopo si spalanca con furia la porta e imprecando mentre già tiene in bocca una sigaretta, si lancia verso il divano dal quale afferra prima il telecomando per spegnere la televisione e subito dopo il cellulare per uscire di nuovo sbattendo la porta ancora più forte di quanto non avesse fatto in precedenza.

    Capitolo 3 - Il cassonetto

    «Benelli guarda che se mi hai detto una stronzata ti faccio trasferire in una delle sette ridenti frazioni di Zibido San Giacomo. A Vigonzino ti mando, te lo giuro.»

    Mentre sbraita minacce tutt’altro che velate, un

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