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Scritti su Beethoven
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E-book194 pagine3 ore

Scritti su Beethoven

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Richard Wagner non è stato solo una delle rivelazioni cardine del Secondo Ottocento, è stato anche un pensatore e saggista di livello europeo, rappresentante convinto della Kultur, espressione di una lotta per l’egemonia della musica tedesca, e la sua opera didattico-profetica ha trovato i suoi più accorati accenti negli scritti che il musicista ha dedicato a un altro gigante della storia della musica: Beethoven. Sono scritti che raccolgono impressioni, ingenuità, velleità di colui che si professa allievo e continuatore dell’autore della Nona Sinfonia, e si estendono per circa un trentennio, dal 1840 al 1870. La loro riproposizione — in una nuova traduzione, che fa giustizia degli arcaismi e delle imprecisioni tecnico-musicali che penalizzavano le precedenti edizioni italiane — può essere altamente significativa anche oggi, soprattutto in una prospettiva storicistica, laddove è importante sottoporre a verifica il processo di fagocitante appropriazione alla quale Wagner sottopone l’estetica musicale beethoveniana.
LinguaItaliano
Data di uscita16 ott 2020
ISBN9791220208253
Scritti su Beethoven
Autore

Richard Wagner

Richard Wagner is the former editor of Ad Astra, the journal of the National Space Society. He lives in Northhampton, Massachusetts.

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    Anteprima del libro

    Scritti su Beethoven - Richard Wagner

    testo

    Prefazione: Lodovico e Riccardo, ossia un maestro e un profeta

    Intellettuale, letterato, poeta, musicista, drammaturgo, storico, filosofo, esteta: bontà e capacità sua, Wagner fu tutto questo, ma non si può sostenere che alla vertigine della sua drammaturgia musicale corrispondesse altrettanta virtù storiografica. Per un bel po’, nella sua adolescenza e prima gioventù pendette ora dall’una e ora dall’altre parti dell’impegno culturale che s’era assunto, dal teatro alla critica, dalla musica ad una scrittura largamente intesa, avido lettore di ogni materia e artista nato qual era. E a lungo, nella piena gioventù e prima maturità, fu ritenuto un buon poeta che s’era messo in testa di fare il musicista e il rivoluzionatore della musica. Opera e dramma, avrebbe pensato e pubblicato, scorrendo la folta, invero troppo italiana storia del genere, per decidere che era tutto convenzione, falsità, soldo vilissimo fino all’avvento di un’opera non più opera, di un teatro d’opera piuttosto, di un musikdrama nuovissimo, senza paragoni (con la tragedia greca, magari). Ma quando volle scrivere su Beethoven, e lo fece in più riprese fra gli anni Quaranta e il 1870, quei polemici panni storiografici fece presto a svestirli e piuttosto indossò soltanto l’abito semplicissimo del filosofo e dell’esteta, disinteressato persino a una storia delle idee e dei gusti: in breve, scrisse su Beethoven, accennò appena a Mozart e Haydn, su Händel e Bach tacque tranquillamente (per fermare il discorso oltralpe).

    E quale Beethoven? Quello che l’aveva colpito, aggredito, quasi ferito, addirittura fatto cader malato quando, da ragazzo, ne ascoltò primieramente le sinfonie, e quindi, con buona pace di sonate e quartetti, della bagatella Per Elisa e del trio dell’Arciduca , quello sinfonico, che dalle sinfonie passava anodino alle Ouvertures e poi tornava indietro, concentrandosi soprattutto sull’ineffabile Nona (a discapito, anche, della Missa solemnis , coeva e altrettanto vocale). Magnifico il saggio sul capolavoro per soli, coro e orchestra: Wagner, guardandosi bene dal citare una Jupiter di Wolfgang Amadeus o una Passion di Johann Sebastian, la commenta e descrive tutta senza una menzione a tonalità o modulazioni, riducendo al minimo gli andirivieni e gli intrecci contrappuntistici, timbrici, dinamici, agogici; e come guida, novello Dante bisognoso di un suo Virgilio, sceglie Goethe, il massimo poeta tedesco e un ben moderato estimatore di Beethoven (Sua Eccellenza Wolfgang von Goethe, nato nel 1749, idoleggiava il suo omonimo nato nel 1756). Diverse citazioni goethiane presiedono ad altrettanti movimenti o passi della sinfonia, che ne esce vieppiù trionfante: giusto, perché la vulgata la definisce Corale (e non esattamente perché non tutta tale), ma il povero autore parlava piuttosto di Deutsche Symphonie . Sotto tanta egida, la titanica Sinfonia n. 9 in re min. op. 125 appare in una luce nuova, scrive Wagner, rispetto ai tanti fraintendimenti patiti a suo tempo, e diventa un dionisiaco orgasmo poetico e sonoro, un che di inimmaginabile anche solo pochi anni prima.

    A corollario stanno i saggi sull’Eroica e sul Coriolano: l’una, la Sinfonia n. 3 in Mi bem. magg., è un poema musicale impostato non sopra un fantomatico eroe militare (o Napoleone imperatore che dir si voglia) ma sopra un normale uomo completo, che sa di dover combattere e di poter vincere; nemmeno l’altro, personaggio storico titolare della tellurica Ouverture op. 62, è un uomo politico, ma un uomo ancora una volta normale o meglio, via, un uomo capace di eroismo, che è preda dello spirito di vendetta ma nella sua primigenia virilità si arrende allorché viene avvicinato dalla supplicante femminilità della madre e della moglie. E allora, a fianco di ragionamenti e definizioni riguardanti forme come la sinfonia da concerto e la sinfonia d’opera, stili musicali e fenomeni drammatici come danza e suicidio, finalmente spiccia dalle parole che Wagner dedica a Beethoven l’eterno femminino, la donna in funzione catartica, l’altro elemento dell’unione di senso e di sesso.

    Con la Nona, nella cultura di Wagner, anche il Coriolano fu una sorta di tormentone, ed era destinato a ricomparire nel grande e lungo saggio definito filosofico e dettato molti anni dopo, nel 1870, centenario della nascita di Beethoven. Si tratta di un saggio beethoveniano solo nella seconda metà, tuttavia, perché nella prima quel Wagner che stava mettendo in scena Die Walküre (tanti anni dopo l’effettiva composizione) si sentì in dovere si riassumere tutto il suo pensiero: su cultura, poesia, arte e filosofia tedesca fra Goethe, Schiller e Schopenhauer, sforando persino verso la pittura fiamminga e il belcanto italiano, verso Napoleone (che in fondo con l’Eroica ha ben poco da spartire), verso il teatro spagnolo, verso l’amatissimo Shakespeare. Nel suo accanito realismo Shakespeare scolpì uomini veri, come l’uomo vero avrebbe forgiato Beethoven con il suo sinfonismo e in particolare con un dramma intitolato Sinfonia n. 9. E come avvicinare e comprendere Beethoven? Con le sue lettere giammai, ma soltanto con quella musica suprema e quel supremo melodismo che erano inconfrontabili con la musica precedente. Fosse anche la musica di Haydn (che produsse i capolavori solo tardi, e saranno gli oratori) e Mozart (maltrattato dall’imperatore a Vienna ma chissà come beneficiato dal re di Prussia): quella era musica bella, e molto, ma in fondo decadente; invece questa è una musica che rappresenta tutto, il mondo, il fenomenico, lo spirito, la volontà, il divino, il demonico. Al punto che finalmente l’esclusivo drammaturgo musicale si degna di trattare e mettere sotto analisi una musica da camera, il Quartetto in do diesis min. op. 131; e quando perviene alla Missa solemnis la avvalora anche perché le voci vi si muovono più che altro come strumenti. E magari come una voce il violino principale che distilla un Benedictus da capogiro.

    In coda a questo discorsetto introduttivo ma in testa alla raccolta sta non un saggio ma un racconto, relativo a una visita immaginaria che il giovane Richard avrebbe fatto al vecchio Ludwig, a un idolo e anzi l’unico idolo che potesse dare forma definitiva alla sua musicalità. Il racconto è simpatico, come il viaggio è pieno di fatica e tenacia, di personaggi e accidenti, di miserie (materiali, ché l’artista è sempre povero) e asserzioni. Lunga la via dalla Sassonia a Vienna, quanto mai da Wanderer il percorso fra locande e mense d’infimo grado, proprio antipatico quell’inglese messosi anch’egli a ricerca del genio; ma breve, chiaro, immediato rimane il messaggio. Malconcio e solitario (come ogni vero artista), Beethoven parla e dice due o tre cosette fondamentali: che la musica da ballo o comunque da intrattenimento è robaccia, che la musica della tradizione è volgare e convenzionale, che la musica grande e nuova vuole tutta d’un fiato senza pezzi chiusi in sé, che gli strumenti dell’orchestra danno corpo al fenomeno del caos sul quale però fiorirà il canto al fine di dare ordine e significato a tutto. Non è già, questo, un bell’annuncio del Wort–Ton–Drama ? Per bocca di un profeta come Beethoven, poi: anche Rossini era andato a casa di Beethoven e dopo un’accoglienza bruschetta s’era sentito dire che andasse pure avanti con l’opera comica, nella quale brillava tanto. E anche Rossini, forse, s’era inventato tutto.

    Piero Mioli

    Scritti su Beethoven

    Una visita a Beethoven (1840)

    Oh Povertà, unica dea di un compositore tedesco (a meno che costui non sia anche direttore d’orchestra in un Teatro di Corte)! Oh Povertà, dea dell’affanno, io ti invoco nell’accingermi a scrivere queste mie memorie! Lascia che ti canti, guida costante della mia vita! Tu sei sempre stata la mia fedele compagna. Da me hai allontanato col tuo braccio potente le insidie di un’ingannevole fortuna. Con le tue ombre nere e fredde, mi hai sempre nascosto i vani beni di questa terra. Ti ringrazio per il tuo instancabile amore, ma ora non potresti rivolgere i tuoi favori a qualcun altro, visto che io vorrei finalmente sapere come si sta senza di te? Rivolgiti per esempio ai nostri uomini politici, questi folli che vogliono caparbiamente unire la Germania sotto un unico scettro (per cui vi sarebbe un solo Teatro di Corte e il posto per un solo direttore d’orchestra!) Che avverrebbe, in tal caso, delle mie ambizioni, delle mie speranze, che già pallide e vaghe mi ondeggiano davanti anche adesso che vi sono tanti teatri di Corte? Diventerei uno scellerato, in tal caso!

    Perdonami, dea austera, perdona il desiderio temerario che ho espresso! Ma tu conosci a fondo il mio cuore, e sai come io ti sia devoto anche se in Germania ci fossero mille teatri. Amen!

    Non intraprendo mai nulla, prima di aver recitato questa quotidiana preghiera, e tantomeno prima di narrare di una visita a Beethoven. Ah, nel caso che questo importante documento venga pubblicato dopo la mia morte, credo necessario dire qualcosa di me, poiché senza un minimo di autobiografia molto di ciò che racconto potrebbe apparire incomprensibile. E questo non lo dimentichino gli eventuali esecutori testamentari!

    Dunque: sono nato in una piccola città della Germania centrale. Non so esattamente a cosa mi destinasse la vita; ricordo solo che una sera ascoltai eseguire una Sinfonia di Beethoven, che mi venne la febbre, che mi ammalai, e che dopo essere guarito decisi di comporre musica. Forse deriverà da questa circostanza il fatto che, pur avendo col tempo conosciuta tanta musica, fu sempre e solo Beethoven che io venerai e idolatrai, al punto che la gioia più intensa che provai fu di consustanziarmi con questo genio fino a identificarmi con lui, fino a diventare un frammento di quel raro e meraviglioso spirito. Cominciai allora a sentirmi attratto verso altezze sempre più rarefatte, sempre più sublimi: in breve, divenni ciò che i benpensanti definiscono un pazzo; pazzia tuttavia di natura molto tranquilla e inoffensiva.

    Ma, cari esecutori testamentari, è duro stare a pane e acqua e dare lezioni di musica, quietamente pazzo!

    Da lungo tempo vivevo dunque nella mia soffitta, quando un giorno realizzai che l’uomo le cui creazioni io veneravo era ancora in vita, e feci non poca fatica a spiegarmi perché questo fatto non mi fosse stato da subito chiaro. Forse perché non avevo mai saputo raffigurarmi un Beethoven reale che mangia e respira come un qualsiasi mortale. Tuttavia questo Beethoven viveva davvero a Vienna e pure lui non era che un povero compositore tedesco! Da allora non ebbi più pace, e tutti i miei pensieri e i miei desideri confluirono verso un solo punto: vedere Beethoven.

    Mai un mussulmano desiderò tanto pregare sulla tomba di Maometto quanto io di conoscere Beethoven nella sua modesta dimora! Ma come fare? Era lunga la strada per Vienna, e non avevo i soldi per il viaggio: povero com’ero faticavo addirittura a mettere d’accordo il pranzo con la cena! Per procurarmi il denaro ricorsi allora a espedienti eccezionali. Avevo composto alcune Sonate per Pianoforte proprio sul modello di quelle di Beethoven, e le proposi a un editore, il quale, con poche parole, mi dimostrò che le mie Sonate erano proprio quelle di un pazzo, e mi consigliò, se volevo cavare qualche soldo, di farmi un nome con un po’ di musica da ballo e da intrattenimento. Impallidii, ma l’idea di vedere Beethoven ebbe la meglio: per cui mi misi a buttare giù quella robaccia, non senza provare una tale vergogna che durante tutto quel tempo non osai nemmeno guardare le partiture del Maestro: mi sarebbe parso di profanarle.

    Per colmo di disgrazia, questo sacrificio della mia giovinezza non mi fu nemmeno remunerato. Quel bravo editore pretese infatti, affinché mi facessi un nome, che quei miei lavori fossero ceduti gratuitamente. Mi chiusi nella disperazione. Tuttavia, sotto il pungolo di quella stessa disperazione produssi, quasi per reazione, una travolgente musica da intrattenimento che stavolta mi fu pagata, al punto che credetti di essere diventato tanto ricco da poter realizzare il mio sogno.

    Due anni intanto erano trascorsi, e in quel periodo avevo spesso temuto che Beethoven potesse morire, ma grazie a Dio egli era sopravissuto alla mia gloria! Oh divino Beethoven, perdonami quelle note che scrissi solo per poterti conoscere! Ma che gioia provai nell’aver raggiunto quello scopo! Chi mai poteva essere più di felice me, ora che potevo indossare il saio del pellegrino e recarmi dal Maestro?

    Una specie di sacro timore mi colse però quando varcai la porta della città per dirigermi verso sud. Avrei volentieri preso posto in una diligenza, non tanto per evitare le fatiche di un viaggio a piedi — cosa non avrei sopportato pur di giungere alla meta? —, ma perché sarei arrivato prima a Vienna. Ma la mia fama di compositore di danze non mi permetteva ancora di poter viaggiare in vettura, perciò mi rassegnai a sopportare tutti i disagi del cammino, pago della felicità di essere sulla via in fondo alla quale c’era Beethoven!

    Che beati sogni, che deliziose fantasie lungo la strada! Nessun innamorato, in cammino verso colei che ama, avrebbe potuto provare emozioni più forti delle mie!

    Entrai così nella splendida Boemia, nella terra dei suonatori d’arpa e dei cantori nomadi. In un piccolo borgo incontrai uno di questi gruppi di musicanti girovaghi, piccole orchestre composte da due violini, due corni, un flauto, un clarinetto, un contrabbasso, un’arpa e due graziose voci. Eseguono danze e ballate in pubblico, e dopo aver fatto qualche soldo si rimettono in cammino. Un giorno incontrai di nuovo quei musicanti, accampati su un fazzoletto d’ombra prossimo alla via maestra, mentre stavano mangiando. Mi avvicinai loro, dicendo che ero uno del mestiere, e diventammo amici. Visto che avevano in repertorio ballate e danze, chiesi loro se per caso conoscessero anche quei pezzi che avevo appena scritto. Grazie a Dio non ne avevano mai sentito parlare. Gli chiesi allora se suonassero altra musica aldilà di quella ballabile. « Certo », mi risposero, « ma soltanto per noi, non per il pubblico ». Fu allora che aprirono un pacco di spartiti nel quale vidi che c’era il Settimino di Beethoven. Sorpreso, domandai se lo eseguivano. « Perché no? » rispose il più anziano. « Se Joseph non avesse una mano fuori posto e potesse suonare la parte di secondo violino, lo faremmo con gran piacere ». In un trasporto d’entusiasmo presi allora il violino di Joseph, assicurando di poterlo sostituire, e in tal modo attaccammo subito il Settimino. Che gioia! Là, in Boemia, sul margine di una carrozzabile, sotto il cielo aperto, il Settimino di Beethoven eseguito da poveri musicisti girovaghi con una purezza, una precisione, una profondità di sentimento tali che ben di rado è dato trovare nei più celebri virtuosi! Grande Beethoven, fu veramente un rito degno del tuo genio!

    Eravamo giunti al termine dell’esecuzione quando un’elegante vettura postale si avvicinò silenziosamente e si fermò davanti a noi, proprio in quel punto in cui la via piegava salendo. Un gentiluomo di corporatura straordinariamente slanciata e di un biondo non meno straordinario era disteso sui cuscini e ascoltava con grande attenzione i nostri ultimi accordi. Quando ebbimo terminato si tolse di tasca un taccuino, prese qualche appunto, lasciò cadere davanti a noi una moneta d’oro; poi continuò la propria via, rivolgendo al domestico alcune parole in lingua inglese.

    Chissà perché questo incontro ci infastidì non poco. Meno male il Settimino era finito. Abbracciai allora i miei nuovi amici e mi disposi ad accompagnarli, ma loro dissero che presto avrebbero lasciato la strada carrozzabile per prendere un sentiero che li avrebbe riportati a casa. Peccato, li avrei di certo seguiti se lo scopo del mio viaggio non fosse

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