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Come nuvole innamorate
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Come nuvole innamorate
E-book201 pagine2 ore

Come nuvole innamorate

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Info su questo ebook

Storie appassionanti di animali, tutte vere, vissute dalla veterinaria e raccontate dalla scrittrice, alternate a papere e aneddoti. Dalle parole dell’autrice, che sa cogliere le sfumature che danno significato al vissuto, traspare l’affetto per i suoi pazienti e l’impegno nello stare dalla loro parte.

Ci fanno sorridere, a volte piangere, arrabbiare e sciogliere di tenerezza. Nessuno riesce a farlo così bene come loro.

Enrica Mambretti, medico veterinario per trent’anni, all’esercizio della professione ha sempre affiancato il piacere della scrittura. 
Nel 2015 esce In cammino verso Santiago, che ha per tematica il viaggio, come anche Paso Doble, del 2017, che coglie gli aspetti più profondi dell’animo, editi da Bellavite. Il viaggio è un’esperienza di formazione come lo è il singolare percorso di maturazione di un adolescente, raccontato nel romanzo Limpida è la sera, pubblicato nel 2019 e vincitore, tra gli altri, del Concorso Nazionale Alfieri ad Asti, del Concorso Internazionale di narrativa La Baia dell’Arte e del Premio Letterario Internazionale Bo-Descalzo in Liguria, e del Premio Nazionale Letterario Caffè delle Arti a Roma.
Numerosi suoi racconti sono stati pubblicati in volumi e antologie.
LinguaItaliano
Data di uscita31 ago 2020
ISBN9788830625945
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    Come nuvole innamorate - Enrica Mambretti

    Enrica Mambretti

    Come nuvole innamorate

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2020 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-2594-5

    I edizione elettronica agosto 2020

    Agli animali che ho amato e che con la loro presenza

    hanno donato calore e colore alla mia vita.

    Ad Atena, sempre acciambellata di fianco al computer,

    che con le fusa e il picchiettare della coda,

    ha tenuto il ritmo del mio battere sulla tastiera.

    BUONGIORNO, CANI, CIAO

    di Dino Buzzati (1906-1972)

    Buongiorno, cani, ciao

    cagnolini cagnoloni cagnazzi

    misterioso dono della natura

    a noi carogne. Perché?

    Incantevoli compagni di viaggio

    che ci fissate negli occhi

    con esagerata aspettativa.

    Belli come boschi come il vento

    girano su e giù per la casa

    come fiumi come rupi

    come nuvole innamorate.

    Belli quando ronfate

    fate bave spazzate immondizie.

    Egoisti, sporchi, noiosi

    rompiscatole, puzzolenti, ingordi,

    sudicioni, petulanti, tangheri,

    Dio vi benedica.

    Le storie che ho raccontato sono tutte vere. Ho camuffato le circostanze, ho cambiato i nomi delle persone e degli animali, ma se qualcuno si riconoscerà spero non me ne voglia e scelga di dare un credito alle mie buone intenzioni.

    PRIMA DI INIZIARE

    Nel corso degli anni della mia professione di veterinaria, avevo preso l’abitudine di annotare su una vecchia agenda frasi ed episodi curiosi, teneri e divertenti, ai quali assistevo di persona o che mi venivano riferiti da colleghi.

    Per la maggior parte delle volte chi si rendeva comico era il proprietario dell’animale che, nel tentativo di spiegare al medico il malessere del proprio cane o gatto, interpretava bizzarre scenette, si lanciava nell’uso di termini medici non ben conosciuti, magari miscelandoli al proprio dialetto e ravvivandoli con pennellate di simpatia.

    La tensione o l’emozione a volte giocavano brutti scherzi e un malinteso, un lapsus, uno strafalcione potevano diventare buffi e, facendo scaturire un sorriso, aiutavano ad alleggerire una circostanza difficile.

    Qualche volta capitava che fossero gli stessi dottori – e anch’io mi metto in gioco – a commettere gaffe veramente spassose.

    Curare cani e gatti, anche se avevo a che fare con malattie, sofferenza e un impegno carico di responsabilità, mi ha dato tante gioie e soddisfazioni.

    Ogni giorno, in ogni momento, avrei potuto scegliere se soffermarmi sullo sguardo innamorato del signor Molteni che con un sorriso accarezzava il suo cane malato o sul cipiglio del signor Rizzi, scocciato perché il suo gatto, pur salvato da morte e ora in salute, era rimasto con un orecchio storto.

    Ero io a decidere quale stato d’animo prendere a braccetto e mai mi sono pentita di aver preferito la contentezza, la speranza, la parte solare della vita.

    Gli animali, nostri compagni di viaggio, hanno una vita breve e ci affiancano solo per un tratto. Ma se questo tratto è denso di avventure ed emozioni, può bastare a colmarci il cuore.

    Col trascorrere del tempo le pagine di quell’agenda sono state riempite e ora ho deciso di condividerne il contenuto. E nello scrivere, rivivendo certi avvenimenti a distanza – affrancata dallo stress e dall’apprensione – mi sono ancor più divertita.

    Spero succeda anche a voi.

    DAL CIUCCIO AL BISTURI

    Faccio parte di una famiglia numerosa e sono venuta al mondo in coda ad altri tre fratelli, una femmina e due maschi.

    I primi anni della mia infanzia sono un ricordo nebuloso dal quale emergono alcuni particolari che sono forse più legati ai racconti che ho sentito che a una mia reale memoria.

    Rammento però con chiarezza che i beni per me più preziosi erano la mamma e il mio ciuccio.

    A differenza dei pantaloncini azzurri di lana smessi da uno dei miei fratelli o della gonna a righe gialle che mi infilarono quando non entrò più a mia sorella, il ciuccio era esclusivamente mio. Comprato per me. Usato solo da me.

    Era gommoso e resistente, a volte dolce perché veniva zuccherato. Lo tenevo in bocca o in mano e non me ne separavo mai.

    Poi, un giorno, comparve un gatto.

    Si infilò tra le sbarre verdi del cancello di ferro e venne a sedersi in mezzo al cortile dove stavo giocando, rimanendo a fissarmi con occhi gialli e un po’ beffardi. Era grosso, di colore bianco e nero.

    Mi avvicinai incuriosita e dopo averlo guardato a lungo, allungai una mano e lo sfiorai.

    Scoprii la morbidezza del suo pelo, più soffice di qualunque cosa avessi mai toccato. Cominciai ad accarezzarlo e lui allungò le zampe davanti, stiracchiandosi, completamente a suo agio.

    Aveva un buon odore e faceva un rumore simile a quello del papà quando si addormentava sul divano, ma più delicato e rilassante. Aveva il naso umido e la lingua ruvida che, quando mi leccava le mani e le guance, faceva il solletico.

    Ne fui ammaliata e decisi di includerlo, col ciuccio, nella cerchia delle mie esclusive proprietà terrene.

    Per me quel gattone fu una scoperta strabiliante e mi intrigava talmente che un pomeriggio, quando dalla finestra lo vidi nel cortile, corsi fuori, lasciando per la prima volta il mio ciuccio incustodito su una sedia della cucina.

    Quell’avvenimento rappresentò una sorta di boa nella mia vita: le attrattive del mondo si facevano più complesse e le mie priorità stavano iniziando a cambiare.

    Scoprii in me una grande passione per gli animali, di qualunque tipo, e questo significava volere stare sempre con loro. Non mi interessava giocare con le bambole, trovavo quegli esseri viventi smisuratamente più interessanti.

    Avvicinavo uccellini e topolini, acchiappavo le lucertole sui muri per accarezzarle, giocavo con i lombrichi che si attorcigliavano tra loro in gomitoli e, nelle sere estive, infilavo le lucciole in un barattolo, tenendovele qualche minuto, così da guardarle accendersi e spegnersi.

    Ero mingherlina e silenziosa, ma nel corso dell’infanzia – a causa di queste mie attività naturalistiche – feci impazzire mia madre che, oltre a doversi occupare di noi bambini, delle faccende di casa e dei fornelli, lavorava nell’azienda di papà. Pur rispettando gli animali, lei non provava attrattiva nei loro confronti e, anzi, di alcuni aveva anche un po’ ribrezzo.

    Se trovava una lucertola sotto il tappeto, i cassetti bassi della cucina con dentro i coleotteri, le tasche dei miei vestiti piene di terra e maggiolini, un topolino o un orbettino dietro un armadio, le sue grida riecheggiavano per tutte le stanze.

    Vivevamo in un paese di provincia e la nostra grande casa era circondata da prati e boschi, quindi le occasioni di incontrare piccoli animali non mancavano mai e la mia caparbietà nel volerli accasare era un continuo attentato al suo stato emotivo.

    Divenuta più grande, quando trovavo un cane o un gatto randagio lo adottavo… almeno finché non interveniva mio padre – autorità universale indiscussa – che lo portava via.

    In quegli anni, solamente Felpi, un cane meticcio bianco e marrone, ebbe la fortuna di condividere ufficialmente uno spazio nella nostra famiglia. Era stato regalato ai miei genitori e questo fatto, se non altro per rispetto verso il donatore, gli fece guadagnare la cittadinanza. Aveva il pelo lungo e io, che pesavo come una piuma, salendogli in groppa mi facevo portare in giro per il giardino.

    Per il resto, a parte un paio di pastori tedeschi, arruolati per fare la guardia all’edificio dell’azienda paterna – una tipografia –, gli altri animali che portavo a casa furono tutti clandestini, fino a quando venivano scoperti e allontanati.

    Nonostante queste dolorose separazioni, io non demordevo, affinando le mie strategie.

    Già all’asilo avevo dato del filo da torcere alle suore.

    Pur sapendo – come lo può sapere una bambina di quattro anni – che si sarebbero arrabbiate, non potevo evitare di farlo: mi rendevo invisibile e quando si erano abituate alla mia assenza, scappavo.

    Uscivo dall’edificio, attraversavo il cortile contornato da gelsi, spingevo con tutte le mie forze un’anta del grosso cancello nero di ferro battuto, tanto quanto bastava per passare, e raggiungevo il giardino della casa di fianco all’asilo. Andavo nell’angolo dove c’era una grossa cuccia di cemento grigio e un cane legato alla catena, un molossoide color ruggine con la mandibola squadrata e gli occhi languidi, che appena mi vedeva, per quei pochi passi che il suo cappio di ferro gli permetteva, mi veniva incontro scodinzolando.

    Aveva il pelo corto, la pelle morbida e calda, e cercando di stare attenta che il grembiule rosa non si sporcasse, dopo che si era accucciato, mi sedevo sopra di lui così da non appoggiare le gambe nude sul cemento freddo.

    Gli raccontavo delle lunghe storie e lui si dimostrò il miglior ascoltatore che io avessi mai avuto. Oltre che l’unico.

    Avrei voluto che quei momenti non finissero mai.

    Invece, a un certo punto compariva suor Carla e urlando mi riportava all’ovile.

    Qualche volta arrivava un’altra suora più simpatica, che si chiamava Giannina, bassa, cicciottella e con le guance sempre arrossate.

    Prima di prendermi per mano e di incamminarci verso l’asilo – lei non aveva bisogno di trascinarmi –, dava qualche carezza a Buccia. Avevo chiamato così quel cane perché nella sua ciotola c’erano spesso delle bucce di mela, che evidentemente non erano di suo gradimento.

    Suor Giannina era di servizio in cucina. Ai bambini non era permesso entrare in quel locale e io rimanevo sulla soglia a guardarla mentre preparava i piatti.

    Quando nel refettorio si finiva di mangiare, lei metteva gli avanzi di cibo in un secchio e, con il permesso dei proprietari della casa vicina, li portava a Buccia che divorava qualunque cosa, a parte il rivestimento delle mele.

    Feci una corte serrata a quella suora finché ottenni di accompagnarla nella sua missione quotidiana. In quel modo evitavo anche il sonnellino obbligatorio dopo il pasto, sulle brandine di tela blu del salone al primo piano, che odiavo fermamente.

    La mia vita cominciava a girare per il verso giusto.

    Quando poi, all’ultimo anno di asilo, suor Giannina affidò a me il compito di portare il cibo a Buccia, fu l’apoteosi.

    Ai tempi delle scuole medie, in un giorno invernale con il cielo plumbeo e l’aria gelida, camminando verso casa, incontrai un grosso cane col pelo lungo bianco, grigio e rossiccio, che vagava senza meta. Assomigliava a Lassie, il famoso collie della serie televisiva di quegli anni, e lo chiamai come lui.

    Era magrissimo e aveva gli occhi arrossati. Si lasciò toccare senza mostrare paura e mentre lo stavo accarezzando iniziò a nevicare. Dovetti avviarmi per rientrare e lui mi volle seguire, ma era talmente debole che procedeva adagio, costringendomi a fare molte soste. Tagliando per i campi, dovevamo percorrere circa un chilometro e per tutto il tragitto continuai a parlargli per incoraggiarlo.

    A casa, con pianti e promettendo bei voti a scuola, riuscii a ottenere dai miei genitori il permesso di portarlo sul grande terrazzo della cucina e di lasciargli trascorrere la notte nell’angolo più riparato, sopra dei cartoni.

    Mia madre ne ebbe pena e in una vecchia pentola di alluminio tutta ammaccata e senza manici – che poi divenne la ciotola di Lassie – scaldò del latte, aggiunse dei pezzi di pane e gliela mise davanti.

    Da gran signore, invece che avventarsi sul cibo, lui come prima cosa cercò di leccarle le mani; mamma indietreggiò infastidita e tuttavia piacevolmente sorpresa da quella manifestazione di gratitudine. Rientrata in casa, mentre si insaponava al lavabo, mi disse che avrei potuto tenerlo per qualche giorno.

    Pane e latte, a ogni modo, non sarebbero bastatati a rimettere in sesto il mio nuovo amico. Sapendo che mio padre non aveva alcuna intenzione di sfamare altre bocche, cominciai a fare la posta alla dispensa, rubacchiando qualche vivanda. Anche a tavola, nascondevo pezzi di cibo sotto la maglietta o nelle tasche dei pantaloni.

    Ero la più minuta dei figli e mia madre, ogni mattina a colazione, nella mia tazza sbatteva un uovo con lo zucchero, convinta che mi avrebbe irrobustita. Nel suo gran daffare – doveva prepararci per la scuola e poi correre in ufficio – mai si accorse che il suo ricostituente finiva immancabilmente nelle fauci del quattrozampe sulla terrazza. Vedendo la tazza vuota e ben pulita, era contenta per aver finalmente trovato qualcosa che mangiassi volentieri.

    Lassie recuperò ben presto vigore e anch’io, pur senza la colazione bombata, mi sviluppai come le altre ragazzine.

    La mia amica Sandra fece molto di più.

    Quando era bambina, la sua famiglia aveva un cane di nome Bric che, com’era d’uso a quei tempi, viveva legato a una catena in un angolo del giardino. Di taglia piccola, la sua cuccia di legno sgangherata, probabilmente appartenuta a un precedente cane molto più grosso, era per lui decisamente sproporzionata. Come la catena, d’altronde.

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