Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Talon (Versione italiana)
Talon (Versione italiana)
Talon (Versione italiana)
E-book459 pagine6 ore

Talon (Versione italiana)

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Ci fu un tempo in cui i draghi furono cacciati fino quasi all'estinzione dai cavalieri dell'Ordine di San Giorgio. Da allora, nascosti sotto sembianze umane, i draghi di Talon sopravvissuti al massacro si sono moltiplicati e hanno acquisito maggiore forza e astuzia nel corso dei secoli: non manca molto a quando saranno pronti a diventare i padroni del mondo, senza che gli esseri umani nemmeno se lo immaginino. Ember e Dante Hill sono gli unici esemplari di draghi fratello e sorella, addestrati per infiltrarsi nella società degli uomini. Ember non vede l'ora di vivere come una teenager qualunque e godersi quell'unica estate di libertà che le sarà concessa, prima di ricoprire il ruolo a lei destinato dentro il regno di Talon. Ma l'Ordine è sulle loro tracce per terminare quanto non era stato fatto nel passato: annientarli tutti. Il cacciatore di draghi Garret Xavier Sebastian, però, non può uccidere, a meno che non sia sicuro di aver trovato la propria preda. E niente è certo quando si tratta di Ember Hill.

LinguaItaliano
Data di uscita6 ott 2015
ISBN9788858940648
Talon (Versione italiana)
Autore

Julie Kagawa

Born in Sacramento, CA, Julie Kagawa moved to Hawaii at the age of nine. There she learned many things; how to bodyboard, that teachers scream when you put centipedes in their desks, and that writing stories in math class is a great way to kill time. Her teachers were glad to see her graduate. Julie now lives is Louisville, KY with her husband and furkids. She is the international and NYT bestselling author of The Iron Fey series. Visit her at juliekagawa.com.

Autori correlati

Correlato a Talon (Versione italiana)

Titoli di questa serie (4)

Visualizza altri

Ebook correlati

Young Adult per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Talon (Versione italiana)

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Talon (Versione italiana) - Julie Kagawa

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    Talon

    Harlequin Teen

    © 2014 Julie Kagawa

    Traduzione di Roberta Maresca

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    © 2015 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-5894-064-8

    www.harlequinmondadori.it

    Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.

    Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.

    A Laurie e Tashya,

    per aver sognato i draghi con me.

    UNITI DOMINIAMO

    PARTE PRIMA

    Osservare.

    Socializzare.

    Integrarsi.

    1

    Ember

    «Ember, quando sono morti i tuoi genitori? E in che modo?»

    Soffocai un borbottio e staccai lo sguardo dal finestrino, mentre la vivace e assolata cittadina di Crescent Beach brillava oltre il vetro fumé. L’aria nella berlina nera era fredda e stantia e, cosa irritante, l’autista aveva attivato il blocco di sicurezza per i bambini, quindi non potevo abbassare il finestrino. Eravamo chiusi in macchina da ore ed ero ansiosa di trovarmi alla luce del sole, fuori da quella prigione ambulante. Al di là del vetro la strada era fiancheggiata dalle palme e lungo il marciapiede si alternavano graziose villette e malconci chioschi grigi che offrivano cibo, magliette, cera per tavole da surf e altro. Subito dopo il manto stradale, oltre una striscia di sabbia bianca scintillante, l’oceano Pacifico risplendeva come un enorme turchese, allettandomi con le sue onde spumose e la miriade di bagnanti che sguazzavano nelle sue acque lucenti.

    «Ember? Mi hai sentito? Rispondi, per favore.»

    Sospirai e appoggiai la schiena alla pelle fredda del sedile. «Joseph e Kate Hill sono rimasti uccisi in un incidente d’auto quando noi avevamo sette anni» recitai a pappagallo, e notai gli occhi impassibili dell’autista che mi fissavano dallo specchietto retrovisore. Accanto a lui, il signor Ramsey annuiva soddisfatto con la sua testa scura.

    «Continua.»

    Mi dimenai sotto la cintura di sicurezza. «Erano andati a vedere un musical a Broadway, West Side Story» ripresi «e sono stati travolti da un ubriaco al volante mentre tornavano a casa. Io e mio fratello siamo andati a vivere con i nostri nonni, finché a nonno Bill non è venuto il cancro ai polmoni e non si è più potuto occupare di noi. Così ci siamo trasferiti qui con gli zii.» Sbirciai di nuovo smaniosa fuori dal finestrino e vidi due umani scivolare sulle onde con le tavole da surf. La mia curiosità salì alle stelle. Non avevo mai fatto surf in vita mia, impossibile nel polveroso angolino di deserto da cui provenivo. Sembrava divertente quasi quanto volare, anche se dubitavo che al mondo esistesse qualcosa di paragonabile al librarsi fra le correnti d’aria con il vento che ti sferzava la faccia e le ali. Chissà come avrei fatto a superare l’estate da comune mortale. Mentre l’auto procedeva spedita e i surfisti scomparivano dalla mia vista, pensai che gli umani erano fortunati. Non avevano idea di cosa si perdevano.

    «Bene» borbottò il signor Ramsey in tono distratto. Di sicuro stava dando un’occhiata ai nostri dossier e ai nostri profili sul suo onnipresente tablet. «Dante, qual è il vostro vero obiettivo qui a Crescent Beach?»

    Il mio gemello si tolse gli auricolari con calma e premette il tasto Pausa dell’iPhone. Aveva la straordinaria capacità di estraniarsi del tutto quando ascoltava la musica o guardava la televisione ma di sapere sempre esattamente cosa succedeva intorno a lui. Io non possedevo quel talento. I professori dovevano prendermi a scapaccioni per richiamare la mia attenzione se nei paraggi c’era qualcosa che poteva anche vagamente distrarmi. «Osservare e socializzare» rispose con la solita voce fredda e pacata. «Imparare a relazionarci con gli umani, a essere umani. Integrarci nel loro tessuto sociale e convincerli che siamo come loro.»

    Alzai gli occhi al cielo. Lui incrociò il mio sguardo e fece spallucce. Io e Dante non eravamo realmente gemelli, non nel vero senso della parola. Certo, avevamo la stessa età. Ci assomigliavamo anche molto; avevamo entrambi gli occhi verdi e i capelli di un rosso assurdo. E, da che avevo memoria, eravamo sempre stati insieme. Ma non venivamo dallo stesso utero. In realtà non venivamo affatto da un utero. Io e Dante appartenevamo alla stessa covata, il che era comunque insolito dal momento che la nostra specie di norma non depositava più di un uovo alla volta. Questo ci rendeva strani, persino fra i nostri simili. Ma io e Dante eravamo venuti al mondo insieme ed eravamo stati allevati insieme, per tutti lui era il mio fratello gemello e il mio unico amico.

    «Mmm.» Soddisfatto che non avessimo dimenticato la versione dei fatti concordata, così impressa nella mia mente che avrei potuto recitarla anche nel sonno, il signor Ramsey riprese a consultare il suo tablet e io tornai a guardare fuori dal finestrino.

    L’oceano si allontanò, l’orizzonte scintillante sparì dalla vista quando lasciammo la via principale ed entrammo in un complesso residenziale con le strade fiancheggiate da imponenti ville bianche e rosa, circondate da prati curatissimi e palme. Alcune erano davvero enormi, e mi lasciarono a bocca aperta. Non avevo mai visto case tanto grandi se non in televisione o nei documentari che gli insegnanti ci avevano mostrato anni prima, quando avevamo iniziato a studiare gli esseri umani. Dove vivevano, cosa facevano, come si comportavano, com’erano composte le loro famiglie e che lingua parlavano... avevamo studiato tutto.

    Ora saremmo vissuti in mezzo a loro.

    Mi esaltai e divenni sempre più insofferente. Volevo uscire. Volevo toccare, sentire e vedere le cose che si trovavano al di là del vetro, per sperimentarle finalmente di persona. Fino a quel momento, il mio mondo era stato prima una grande struttura sotterranea, di cui avevo visto sempre solo l’interno, e poi una scuola privata nel cuore del Gran Bacino, circondata per chilometri dal deserto, dove potevo contare unicamente sulla compagnia di mio fratello e dei miei insegnanti. Quella scuola era sicura, protetta, lontana dagli occhi indiscreti degli umani... e forse il posto più noioso del pianeta. Ricominciai a dimenarmi e urtai per sbaglio lo schienale del sedile anteriore.

    «Ember» disse il signor Ramsey con una punta di irritazione nella voce, «stai ferma.»

    Mi rimisi composta e incrociai le braccia con lo sguardo torvo. Stai ferma, stai calma, stai zitta. Le frasi che, in vita mia, avevo sentito pronunciare più spesso. Non ero mai stata capace di restare ferma in un posto per molto tempo, nonostante i miei insegnanti avessero provato in tutti i modi a instillarmi un po’ di pazienza. La pazienza, mi aveva detto più di una volta quel palloso del professor Smith, è una virtù che si addice particolarmente alla tua specie. I progetti migliori non vengono mai concepiti in un giorno. Puoi concederti il lusso del tempo... tempo per riflettere, per progettare, per calcolare e per vedere le cose andare a buon fine. Talon sopravvive da secoli, e continuerà a sopravvivere, perché conosce il valore della pazienza. Come mai tu hai questa fretta tremenda, piccoletta?

    Alzai gli occhi al cielo. La fretta tremenda era dovuta al fatto che raramente avevo del tempo che fosse davvero mio. Loro volevano che stessi seduta, ascoltassi, imparassi, tacessi quando invece volevo solo correre, gridare, saltare, volare. Nella mia vita esistevano solo regole: non fare questo, non fare quello, arriva a quest’ora, segui le istruzioni alla lettera. E con il passare degli anni le cose erano andate sempre peggio, ogni minimo dettaglio della mia vita era regolato e stabilito da altri, tanto che ero sul punto di esplodere. A non farmi uscire di testa era stata solo la smania di arrivare al mio sedicesimo compleanno. Quel giorno, se fossi stata giudicata pronta, sarei stata promossa e congedata da quel buco dimenticato da tutti e avrei cominciato la fase successiva dell’addestramento. Ce l’avevo messa tutta per risultare pronta e dovevo esserci riuscita, visto che eravamo lì. Osservare, socializzare e integrarsi, quella era la nostra missione ufficiale, ma a me interessava solo essere fuori da quella scuola e lontana da Talon. Avrei finalmente visto il mondo che avevo studiato per tutta la vita.

    La berlina imboccò una stradina a fondo cieco piena di ville, più piccole ma non meno eleganti, e si fermò davanti a un vialetto d’accesso situato proprio al centro. Sbirciai dal finestrino e sogghignai, entusiasta di quella che per un periodo di tempo imprecisato sarebbe stata la mia casa.

    L’edificio sorgeva al di là di un minuscolo prato con l’erba rasata, qualche arbusto e una sola palma racchiusa in un’aiuola di mattoni. I muri erano di un allegro giallo burro, il tetto di tegole era rosso cupo. L’ultimo piano aveva enormi finestre che catturavano la luce pomeridiana e la porta d’ingresso era sovrastata da un arco, come l’entrata di un castello, pensai. Ma la cosa più bella era che, nello spazio tra quella casa e la villa adiacente, si riusciva a scorgere il luccichio argenteo dell’acqua, e il cuore mi balzò in gola al pensiero di avere l’oceano proprio lì nel cortile sul retro.

    Non desideravo altro che spalancare la portiera, saltare giù e schizzare sulle dune di sabbia fino al mare, che mi aspettava in lontananza. Ma il signor Ramsey, il nostro accompagnatore ufficiale per quel giorno, si voltò a guardare me e mio fratello, soprattutto me, come se sapesse cosa mi passava per la testa. «Aspettate qui» ordinò, allargando le grosse narici. «Vado a informare i vostri tutori che siete arrivati. Non vi muovete finché non torno.»

    Aprì la portiera, lasciando entrare una breve e inebriante folata di caldo e di aria salmastra, quindi la richiuse con forza e si avviò verso la villa lungo il vialetto di mattoni consumati.

    Tamburellai con le dita sul sedile e ripresi a smaniare.

    «Wow» mormorò Dante, che sbirciava oltre la mia spalla, allungando il collo per vedere la casa nel suo complesso. Sentivo la sua presenza dietro di me, mi aveva appoggiato una mano sulla schiena per non perdere l’equilibrio. «Ci siamo, finalmente» disse sottovoce. «Non andremo più alla scuola privata, non ci alzeremo più alle sei ogni santo giorno, non saremo più segregati in quel posto sperduto.»

    «Niente lezioni, niente aule studio, niente esaminatori che si presentano ogni mese per vedere quanto siamo diventati umani.» Lo guardai sorridendo. L’autista ci osservava, ci ascoltava, ma io me ne infischiai. «Sedici anni, e finalmente cominciamo a vivere. Siamo liberi.»

    Il mio gemello ridacchiò. «Io non correrei troppo» mormorò, tirando con delicatezza una ciocca dei miei corti capelli rossi. «Ricorda, siamo qui per socializzare, studiare gli umani e integrarci nella comunità. È solo un’altra fase dell’addestramento. Non ti dimenticare che alla fine dell’estate inizieremo il secondo anno di liceo. Ma soprattutto arriveranno i nostri veri istruttori e decideranno quale sarà il nostro posto all’interno dell’organizzazione. Questa equivale al massimo a una breve pausa, perciò goditela finché puoi.»

    Gli feci una smorfia. «È quello che intendo fare.»

    E dicevo sul serio. Non sapeva quanto. Ero stufa delle regole e dell’isolamento, di stare a guardare la vita che mi scorreva davanti. Ero stufa di Talon e della sua sfilza infinita di norme, leggi e vincoli. Basta. L’estate era mia, e avevo grandi progetti, c’erano cose che volevo fare, prima che finisse e fossimo costretti a rientrare nel sistema. Quell’estate sarei stata davvero viva.

    Sempre se fossi riuscita a scendere da quella stupida auto.

    La porta d’ingresso della villa si aprì e il signor Ramsey ci fece segno di raggiungerlo. Ma, invece di disattivare la chiusura di sicurezza, l’autista smontò dalla berlina e ci aprì la portiera di persona. Naturalmente fece scendere prima Dante, e io mi tuffai quasi sul sedile per uscire dopo di lui. Ormai non stavo più nella pelle quando passò dal mio lato e finalmente mi fece scendere.

    Non appena posai i piedi a terra, distesi le braccia sopra la testa e sbadigliai, inspirando l’aria intrisa di sole e lasciandomi scaldare la pelle. Amavo già l’odore di quel posto. Oceano e sabbia, surf e asfalto bollente, e il rumore delle onde che accarezzavano la spiaggia in lontananza. Mi domandai cosa avrebbero detto il signor Ramsey e i miei futuri tutori se li avessi piantati in asso e fossi corsa fino all’oceano senza voltarmi.

    «Ember! Dante!» ci chiamò il signor Ramsey in piedi sotto l’arco. Sospirai e mi avviai verso il bagagliaio per prendere le mie valigie, quando l’autista mi fermò.

    «Le porto io i bagagli, signorina Ember» disse in tono solenne. «Lei vada pure in casa.»

    «Sicuro? Ce la faccio.» Feci un passo avanti con la mano tesa e lui si ritrasse, distogliendo lo sguardo. Sgranai gli occhi e mi bloccai, ricordandomi che alcuni degli umani interni all’organizzazione – quelli che effettivamente conoscevano la nostra vera natura – avevano paura di noi. I nostri insegnanti ci avevano avvisati; anche se eravamo civilizzati e ci eravamo perfettamente integrati nella società umana, restavamo pur sempre predatori, in cima alla catena alimentare, e loro lo sapevano.

    «Andiamo, sorellina» mi disse Dante, mentre indietreggiavo. Se ne stava all’imbocco del vialetto con le mani in tasca, il sole che risplendeva sui suoi capelli cremisi. Sembrava già perfettamente a suo agio. «Prima conosciamo tutti, prima possiamo fare quello che ci pare.»

    Ero assolutamente d’accordo. Annuii e lo seguii lungo il vialetto fino a raggiungere il signor Ramsey, che ci accompagnò dentro un soggiorno elegante e luminoso. Dalla grande finestra panoramica si vedevano uno steccato malridotto e, al di là di quello, la spiaggia, un lungo pontile di legno e l’oceano sempre più seducente. Una coppia di umani ci aspettava in piedi davanti a un divano di pelle verde.

    «Ember, Dante» cominciò il signor Ramsey, accennando alla coppia, «questi sono i vostri zii, Sarah e Liam. Si occuperanno di voi fino a nuovo avviso.»

    «Piacere di conoscervi» disse Dante, sempre educato, mentre io restai indietro e osservai incuriosita i nostri nuovi tutori. Pur con qualche distinzione, gli umani a me sembravano tutti uguali. Ma i nostri insegnanti ci avevano spiegato che era fondamentale riconoscere le differenze, distinguere gli individui, perciò li studiai. Zio Liam era smilzo, con la pelle screpolata dal vento, i capelli rossicci e la barba brizzolata perfettamente curata. Aveva un’espressione arcigna e gli occhi austeri, paludosi, che ci scrutarono con aria critica prima che lui facesse un brusco cenno con il capo. Zia Sarah era cicciottella e gioiosa, portava i capelli castani legati in una crocchia ordinata, e i suoi occhi scuri ci osservavano con l’intensità di quelli di un falco.

    «Bene» disse il signor Ramsey, infilandosi il tablet sotto il braccio. «Il mio lavoro è finito. Murray porterà i bagagli nelle vostre camere. Signor O’Conner, in caso di emergenza sa chi chiamare. Ember, Dante...» Fece un cenno con la testa a entrambi e a me rivolse uno sguardo risoluto. «Obbedite ai vostri tutori. Ricordatevi il vostro addestramento. Gli esaminatori verranno a controllarvi fra tre mesi.»

    E un secondo dopo lasciò la stanza, uscì dalla porta d’ingresso e sparì. Non ci salutò nemmeno, anche se ce lo aspettavamo. La nostra razza non dava particolarmente peso ai sentimenti.

    «Ember e Dante Hill, benvenuti nella vostra nuova casa» annunciò zio Liam, come se avesse già fatto quel discorso altre volte. Probabilmente era così. «Sono certo che i vostri istruttori vi hanno informati delle regole, ma lasciate che ve le ricordi, nel caso in cui le aveste dimenticate. Mentre siete qui, io e Sarah saremo i vostri tutori, quindi sarete sotto la nostra responsabilità. La colazione è alle otto, il pranzo a mezzogiorno e la cena alle sei e mezzo. Non siete obbligati a tornare a casa per mangiare, ma dovete chiamare per dirci dove siete. Dovreste già avere i numeri memorizzati sui telefoni, perciò non avete scuse. Talon vi ha messo a disposizione una vettura – mi pare di capire che avete entrambi la patente – ma prima di prenderla per uscire dovete chiederci il permesso. Il coprifuoco è a mezzanotte, senza eccezioni, quindi non si discute. E naturalmente la regola più importante.» Strinse gli occhi grigioverdi. «In nessuna circostanza dovete assumere le vostre vere sembianze. E non dovete mai volare, per nessun motivo al mondo. Con tutte le persone, gli apparecchi tecnologici e le minacce nascoste che ci sono, il rischio di essere visti è troppo grande. La vostra vecchia scuola si trovava sul territorio di Talon e lo spazio aereo circostante era sorvegliato, perciò se dovevate mutare forma il rischio di essere visti era minimo, ma qui è diverso. A meno che non riceviate un ordine diretto da Talon, volare qui intorno con le vostre vere sembianze è rigorosamente vietato. Intesi?»

    Riuscii ad accennare un sì con la testa, anche se l’idea mi faceva stare male fisicamente. Come potevano pretendere che non volassi mai più? Tanto valeva che mi strappassero le ali.

    «Se non rispettate queste regole o vi dimostrate inadatti alla società umana» continuò Liam, «informeremo Talon all’istante e vi esamineranno per vedere se sarà necessario ricominciare l’addestramento da capo. Per il resto, siete liberi di andare e venire come più vi piace. Avete domande?»

    Io ne avevo. Sarei diventata una terrestre a tutti gli effetti, ma non me ne sarei certo rimasta chiusa in casa. «Quindi in spiaggia...» dissi, e Liam mi guardò con un sopracciglio inarcato. «Possiamo andarci quando ci pare?»

    Sarah ridacchiò. «È una spiaggia pubblica, Ember. A patto che torniate per il coprifuoco, potete passarci tutto il tempo che volete. In realtà è un ottimo posto per fare conoscenza con la gente del luogo... ci sono un sacco di ragazzi della vostra età da frequentare.» Si voltò e ci invitò a seguirla con la mano paffuta. «Ma ora venite, vi mostro le vostre camere, così potete disfare i bagagli.»

    Musica per le mie orecchie.

    La mia stanza era all’ultimo piano, luminosa e ariosa, con le finestre ampie e le pareti spoglie ma tinte di un allegro color arancio. Aveva una vista fantastica sulla spiaggia, come se mi servisse un ulteriore incoraggiamento. Non appena Sarah se ne fu andata, tirai fuori dalla valigia un bikini verde e un paio di shorts con l’orlo sfilacciato, senza preoccuparmi di sistemare gli altri vestiti. Talon ci aveva fornito un guardaroba apposito per l’assolata California, perciò avevo un mucchio di costumi, pantaloncini e sandali tra cui poter scegliere. Immaginavo che volesse davvero farci mescolare alla gente del luogo.

    Ma prima di fare qualunque altra cosa, estrassi il mio portagioie da sotto la pila di T-shirt che lo ricopriva e lo posai sulla cassettiera. Talon ci aveva fornito tutto – vestiti, cibo, svaghi – ma quel cofanetto di legno, a forma di vecchio baule, conteneva tutti i miei oggetti personali. Lo aprii con la chiave segreta e sollevai delicatamente il coperchio, quindi sbirciai dentro. La luce forte del sole si rifletté su una collezione di piccoli tesori: un paio di anelli, una catenina d’oro, un assortimento di monete antiche raccolte nel corso degli anni. Presi un pezzo di quarzo che avevo trovato un pomeriggio nel deserto e lo portai alla luce, facendolo scintillare sul palmo della mano. Ah, non sapevo resistere. Mi piaceva tutto ciò che luccicava; era una cosa che avevo nel sangue.

    Riposi il quarzo, chiusi il cofanetto e mi guardai nello specchio sopra la cassettiera. Vidi una ragazza bassina e con i capelli un po’ spettinati. C’era voluta un’eternità, ma alla fine mi ero abituata a quella faccia: l’umana nello specchio non mi sembrava più un’estranea ormai.

    Mi voltai e mi precipitai verso la porta, la spalancai e andai a sbattere contro Dante.

    «Uff» brontolò lui, barcollando, mentre cercavo di non travolgerlo. Si era messo un paio di shorts e una camicia larga senza maniche, i suoi capelli rossi erano arruffati, come se fossero già scompigliati dal vento. Mi guardò con aria sofferente mentre si aggrappava alla ringhiera, massaggiandosi il petto. «Oh. Bene, stavo per chiederti se volevi venire a dare un’occhiata alla spiaggia, ma a quanto pare mi hai battuto sul tempo.»

    Lo guardai con un sorrisetto spavaldo e provocatorio, lo stesso che gli rivolgevo quando gareggiavamo l’uno contro l’altra a scuola. «Vediamo chi arriva prima in acqua.»

    Alzò gli occhi al cielo. «E dai, sorellina. Non siamo più nella fase di addestra...» Ma io ero già in fondo al corridoio, così si affrettò a raggiungermi.

    Schizzammo fuori di casa e scendemmo di corsa i gradini, saltammo lo steccato e corremmo a perdifiato fino all’oceano. Amavo correre e qualunque attività implicasse la velocità e lo sforzo, mi piaceva sentire i muscoli che si allungavano e il vento sulla faccia. Mi ricordava l’ebbrezza di volare e, anche se niente era paragonabile all’autentico brivido che provavo quando mi libravo fra le nuvole, battere mio fratello in una corsa, o in qualsiasi altra cosa, mi procurava una gioia molto, molto simile.

    Purtroppo, io e Dante eravamo praticamente uguali quanto a prestazioni e toccammo l’acqua nello stesso istante. Mentre sguazzavo finalmente nel mare turchese, urlai a squarciagola, proprio nel momento in cui un’onda improvvisa mi travolse, riempiendomi la bocca di acqua salata e facendomi cadere.

    Dante si avvicinò e mi tirò su, ma rideva così forte che a stento si reggeva in piedi. Lo afferrai per il polso che mi aveva offerto e lo strattonai, facendolo ruzzolare insieme a me, mentre un’altra onda arrivava sibilando e ci sommergeva entrambi.

    Dante si alzò farfugliando, si scrollò l’acqua dai capelli e si strizzò la camicia. Io mi rialzai a fatica mentre l’onda si ritirava nell’oceano risucchiandomi le caviglie. «Sai» borbottò mio fratello, con un sorriso esasperato, «di solito ci si toglie i vestiti prima di tuffarsi di faccia nell’oceano. O almeno così fanno le persone normali.»

    Gli sorrisi con aria insolente. «Ma come? Adesso hai la scusa per toglierti la camicia e mostrare a tutti gli addominali a tartaruga per cui hai faticato tutto l’anno.»

    «Ah-ah. Ehi, guarda, uno squalo.»

    Indicò dietro di me. Mi voltai e lui mi spinse addosso a un’altra onda. Con un grido, saltai per evitarla e rincorsi Dante mentre scappava verso la sabbia, l’acqua spumosa che mi avvolgeva i piedi.

    Dopo un po’ eravamo entrambi zuppi, accaldati e coperti di sabbia. Facemmo una lunga passeggiata sul bagnasciuga, passando accanto a gente che prendeva il sole e famiglie, anche se la spiaggia era più vuota di come l’avevo immaginata. Al largo vedevo i surfisti sulle loro tavole colorate, che scivolavano su onde molto più alte di quelle vicine alla riva. Mi chiesi di nuovo come dovesse essere fare surf, se somigliasse in qualche modo a volare. Mi ripromisi di scoprirlo al più presto.

    Vicino al margine della spiaggia c’era una rete da pallavolo e un gruppetto di adolescenti si passava una palla da una parte all’altra. Erano sei, quattro ragazzi e due ragazze, e indossavano shorts o bikini. Erano molto abbronzati, come se avessero passato la vita al sole, le ragazze magre e belle, i ragazzi a torso nudo e muscolosi. Due lucide tavole gialle erano appoggiate lì vicino, il che indicava che almeno un paio di loro facevano surf. Incuriosita, mi fermai a osservarli, mantenendo una distanza di sicurezza, ma Dante mi toccò la spalla e li indicò con un cenno del capo.

    «Coraggio» mormorò, e si avviò con disinvoltura verso il gruppo. Accigliata, lo seguii.

    «Ehm. Che stiamo facendo?»

    Lui mi guardò e mi strizzò l’occhio. «Socializziamo.»

    «Cosa? Adesso?» Lanciai un’occhiata agli umani, poi di nuovo a mio fratello. «Insomma, vuoi avvicinarti a un gruppo di mortali e metterti a parlare con loro? Che cosa dirai?»

    «Pensavo di cominciare con un ciao

    Lo seguii un po’ timorosa. Mentre ci avvicinavamo alla rete, un ragazzo con i colpi di sole sulle punte dei capelli scuri fece un balzo e schiacciò la palla verso una delle ragazze dall’altra parte. Lei si tuffò sulla sabbia per salvarla, facendo volare la sfera bianca verso di noi.

    Dante la prese. Il gioco si fermò per un istante, quando tutti i giocatori si voltarono nella nostra direzione.

    Mio fratello sorrise. «Ciao» disse, lanciando la palla a una delle ragazze, che, notai, quasi mancò la presa, intenta com’era a fissarlo. «Servono altri due giocatori?»

    I ragazzi esitarono. Mi accorsi che le ragazze guardavano Dante con gli occhi sgranati e mi trattenni dallo sbuffare. Per gli standard umani il mio gemello era affascinante ed estremamente bello, e ne era consapevole. Non era un caso. Quando Talon sceglieva l’aspetto che sarebbe stato nostro per il resto della vita, ognuno di noi veniva plasmato secondo i canoni più elevati della bellezza umana. Non c’erano umani brutti nell’organizzazione, e il motivo era più che valido. I mortali erano sensibili alla bellezza, alla ricchezza, al potere e al carisma. Il che li rendeva più facili da dominare, da controllare, e Dante aveva l’innata capacità di riuscire a ottenere sempre quello che voleva. Questo gli avrebbe senz’altro fatto montare ulteriormente la testa. Ma almeno tre dei maschi in quel gruppo stavano fissando me.

    Uno, magro e abbronzato, con i capelli biondi che gli arrivavano alle spalle, si strinse nelle spalle. «Certo, amico.» Il suo tono era allegro, affabile. «Più siamo, più ci divertiamo.» Mi rivolse un sorrisetto fugace, come se sperasse che scegliessi la sua squadra. Esitai un istante, poi lo accontentai. Socializzare, fare amicizia, integrarci. Eravamo qui per quello, no?

    L’altra ragazza nella mia squadra, quella che si era tuffata per prendere la palla, mi sorrise quando mi piazzai in prima fila accanto a lei. «Ehi» disse, scostandosi dal viso i lunghi capelli castani. «Siete nuovi della zona, vero? Siete qui per le vacanze estive?»

    La fissai e per un secondo ebbi un vuoto. Cosa dovevo dire? Cosa dovevo fare? Quello era il primo essere umano che mi rivolgeva la parola, a parte i miei insegnanti e miei tutori. Io non ero come mio fratello, che si trovava a suo agio in mezzo agli altri e sapeva sempre come comportarsi a prescindere dalla situazione. Fissai la ragazza, mi sentivo in trappola, mi chiesi cosa sarebbe successo se mi fossi semplicemente voltata e fossi tornata di corsa a casa.

    Ma lei non rise, non mi prese in giro e non mi guardò in modo strano. «Oh, d’accordo» disse, quando qualcuno lanciò la palla a Dante incoraggiandolo a battere. «Non sai nemmeno come mi chiamo, giusto? Sono Lexi. Lui è mio fratello, Calvin.» Indicò con la testa il ragazzo alto e biondo che mi aveva sorriso prima. «E quelli sono Tyler, Kristin, Jake e Neil. Viviamo tutti qui» continuò Lexi mentre Dante si avviava verso un sandalo solitario posizionato a diversi metri dalla rete per segnare la linea di fondo. «Tranne Kristin.» Indicò la ragazza dall’altra parte del campo, bionda e abbronzata, sembrava una modella per quanto era favolosa. «Ma la sua famiglia ha una villa sulla spiaggia e viene qui tutte le estati. Noi invece siamo sempre qui.» Mi guardò di traverso mentre Dante si preparava alla battuta. «Allora, da dove arrivate? Hai mai giocato a beach volley?»

    Stavo cercando di seguire quella sfilza infinita di parole, di trovare il tempo per rispondere, quando Dante lanciò la palla, saltò con grazia in aria e la colpì con un sonoro schiaffo che la fece volare oltre la rete e sopra la mia testa. Arrivò dritta dritta al ragazzo biondo, che la colpì con i polpastrelli alzandola per farmi schiacciare. Io non avevo mai giocato a pallavolo, avevo solo studiato la tecnica alla televisione. Per fortuna, la mia razza aveva la capacità innata di imparare in fretta le attività fisiche e istintivamente seppi cosa fare. Saltai in aria e schiacciai verso Colpi di Sole. La palla sfrecciò come un missile e lui cercò disperatamente di prenderla. La colpì di taglio e quella rimbalzò e rotolò allegramente verso l’oceano. Lui imprecò e corse a recuperarla, mentre la nostra squadra esultava.

    «Bel tiro!» esclamò Lexi sorridendo, intanto che Colpi di Sole raccoglieva la palla e tornava da noi a grandi passi. «Credo che tu abbia risposto alla mia domanda. Come hai detto che ti chiami?»

    La tensione che sentivo nel petto si allentò e ricambiai il sorriso. «Ember» risposi, mentre Calvin sorrideva e annuiva con approvazione. «E quello è mio fratello Dante. Saremo qui per tutta l’estate.»

    Giocammo finché il sole non cominciò a sprofondare nell’oceano, tingendo il cielo di vivaci sfumature arancio e rosa. A un certo punto, Dante dovette farsi prestare il telefono da qualcuno per chiamare zio Liam, dato che nella folle corsa verso la spiaggia avevamo dimenticato di prendere i nostri. Quando la luce cominciò a svanire e il gruppo alla fine si separò, Lexi e Calvin invitarono me e Dante al chiosco degli hamburger in fondo alla spiaggia e noi accettammo volentieri.

    Mentre ero seduta accanto a Lexi a sgranocchiare patatine unte e a sorseggiare un frappè al mango, cosa che non avevo mai sperimentato prima (e nemmeno il mio stomaco, anche se il nostro apparato digerente poteva smaltire praticamente qualsiasi cosa), non potei fare a meno di stupirmi. Quindi quelli erano adolescenti normali e quella era l’estate. Sabbia, sole, beach volley e cibo spazzatura. Niente addestratori. Niente esaminatori con le mani gelide e gli occhi ancora più gelidi che osservavano ogni nostra mossa. Le due tavole da surf che avevo adocchiato prima erano appoggiate al tavolo accanto al nostro; appartenevano a Lexi e a Calvin ed entrambi si erano offerti di insegnarmi a usarle. Eh, già. Il mio primo giorno da umana stava andando alla grande.

    E poi, mentre ero lì seduta con il sole che spariva dietro l’oceano e il cielo punteggiato di stelle, sentii uno strano formicolio sulla nuca. La stessa sensazione che provavo quando venivo osservata da un esaminatore, un prurito inconfondibile. Voleva dire che qualcuno mi stava guardando.

    Mi voltai e scrutai il parcheggio, ma non notai niente di insolito. Un paio di ragazze tornavano alla loro Camaro con una bibita in mano. Una famiglia con due bambini piccoli si dirigeva verso l’uscita. Nessuno di loro mi stava fissando. Ma sentivo ancora il formicolio dietro il collo.

    E poi, a un tratto, apparve un drago in sella a una motocicletta.

    Non con le sue vere sembianze, ovviamente. L’arte di mutare forma – di assumere le sembianze umane – era così diffusa che ormai qualsiasi drago era in grado di farlo. Tutti quelli della nostra razza ne erano capaci. E quelli che non lo erano o venivano istruiti alla svelta o venivano stanati dall’Ordine di San Giorgio, la terribile setta di ammazzadraghi il cui unico scopo era quello di distruggerci. Trasformarci in umani era l’arma migliore che avevamo per difenderci da quegli spietati sterminatori e da un mondo di mortali ignari; uno non se ne andava in giro con le sembianze di un rettile a meno che non avesse un istinto suicida.

    Il drago che era apparso con disinvoltura al margine del parcheggio aveva l’aspetto di un umano, e piuttosto carino per giunta. Più vecchio di noi di qualche anno, era alto e snello, con una massa arruffata di capelli neri e una giacca di pelle sulle spalle larghe. Non spense il motore, ma rimase lì a fissarmi, un sorrisetto compiaciuto sulle labbra carnose, e persino nella forma umana aveva un’aria pericolosa, i suoi occhi erano di un castano talmente chiaro che sembravano quasi dorati. Mi si scaldò il sangue alla sua vista e la mia pelle diventò rossa: reazioni spontanee quando vedevo un nostro simile, soprattutto se era uno sconosciuto.

    Lexi si accorse che stavo fissando il parcheggio e seguì il mio sguardo. «Oh» sospirò, con l’aria improvvisamente sognante. «MS è tornato.»

    «Chi?» sussurrai, domandandomi da quanto Talon lo avesse insediato lì. Era del tutto insolito imbattersi in un altro drago; Talon non piazzava mai più di un membro nella stessa città, per ragioni di sicurezza. Troppi draghi nello stesso posto attiravano l’Ordine di San Giorgio. L’unico motivo per cui io e Dante eravamo stati inviati lì insieme era che eravamo davvero fratelli ed era una cosa quasi senza precedenti nell’organizzazione.

    «Il Motociclista Strafico» spiegò Lexi, mentre il drago sconosciuto continuava a fissarmi, quasi con aria di sfida. «Nessuno sa chi sia. È arrivato qualche settimana fa e bazzica tutti i ritrovi più frequentati. Non parla con nessuno, si limita a controllare il posto, come se stesse cercando qualcuno, e poi se ne va.» Il suo ginocchio urtò il mio sotto il tavolo, facendomi sobbalzare, e lei sorrise in modo malizioso. «Ma sembra che ora abbia trovato quello che cercava.»

    «Eh? Chi?» Staccai lo sguardo dal drago sconosciuto mentre lui accelerava e usciva dal parcheggio, sparendo con la stessa velocità con cui era comparso. «In che senso ha trovato quello che cercava?»

    Lexi ridacchiò, ma a un tratto incrociai lo sguardo di Dante dall’altra parte del tavolo, al di là degli incarti degli hamburger, e mi si strinse lo stomaco. L’espressione di mio fratello era fredda, pericolosa, mentre guardava torvo il punto in cui fino a qualche istante prima c’era l’altro drago. Aveva le pupille contratte, talmente rimpicciolite da sembrare due forellini neri sullo sfondo verde, sembravano inumane e tipicamente da rettile.

    Gli tirai un calcio sotto il tavolo. Lui strizzò gli

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1