Milano in giallo: il commissario Tinon e il caso del giustiziere
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Anteprima del libro
Milano in giallo - Maria Cristina Flumiani
Lunedì 23 aprile 2018
La via Osoppo era deserta a quell’ora. Si nascose dietro il gabbiotto del benzinaio in modo che nessuno potesse vederlo. Guardò il cielo stellato e il profilo scuro delle piante; era una notte bellissima, tiepida, che si sarebbe volentieri goduto fumando una sigaretta. Un maledetto vizio, quello del fumo, che non riusciva a togliersi; aveva smesso tante volte, ma ripreso, puntualmente, con maggiore voluttà. Comunque, era meglio che non fumasse per rimanere concentrato e pronto all’azione quando il tipo fosse arrivato. Lo teneva d’occhio, appostato sotto casa, da una decina di sere; usciva alle undici, ora in cui Raffaella già dormiva, e alle undici e venti si piazzava sotto il condominio dove abitava quel bastardo, sperando sempre che non rientrasse troppo tardi, ma succedeva di rado. Il suo obiettivo era abitudinario: di solito arrivava con la Polo verso l’una, l’una e mezzo al massimo, non sempre era da solo. A volte era accompagnato da qualche prostituta che portava in casa e poi sbatteva fuori senza tanti complimenti, con urla e insulti che svegliavano gli inquilini del condominio; un cane abbaiava, con scarsa convinzione, forse abituato alla rumorosità del soggetto. Ma perché non arrivava? Guardò ancora l’orologio: le due meno un quarto. Tastò, con la mano destra, la tasca del parka blu che aveva comprato alla Conbipel, in Buenos Aires, il sabato precedente; sì, la pistola era lì, ben nascosta e pronta per essere usata. Potessi accendere una Camel! pensò, accarezzando il taschino che conteneva le sigarette e l’accendino. Doveva resistere, ne avrebbe fumate anche due di seguito, ma adesso doveva rimanere vigile. E se quel farabutto non fosse rincasato? Non era mai capitato fino a quel momento. Udì il rumore di una macchina: una Citroën. Non era lui, accidenti! Dopo un po’, sentì arrivare un’altra auto che aveva girato nella via precedente. Erano le due. Stava perdendosi d’animo quando distinse il rombo di un motore ancora lontano; si avvicinava, eccolo finalmente! Strinse le dita sul calcio della pistola e si preparò ad agire. Lo vide posteggiare la Polo, percepì una musica, attutita dal vetro chiuso, che esplose di colpo non appena l’uomo aprì la portiera; questi spense la radio e scese. Si stiracchiò, ruttò, e lo vide; per un secondo non lo riconobbe, poi gli si illuminarono gli occhi e, appena fu a un paio di metri di distanza, un coltello apparve, come per magia, nella sua mano; si diresse verso il gabbiotto sorridendo minaccioso. Il killer rimase immobile, guardò quell’essere spregevole negli occhi appannati dall’alcol e dalla droga, alzò il braccio e prese la mira mentre l’altro si arrestava paralizzato dalla sorpresa; lo centrò in fronte. La vittima rimase un attimo eretta, fissandolo, poi si afflosciò sul marciapiede; allora l’assassino si avvicinò al corpo, lo guardò dibattersi negli ultimi spasimi mentre intorno alla testa si allargava una pozza di sangue. Si chinò e scrisse, tra le sopracciglia del morto, il numero 2; si rialzò e accese una sigaretta che aspirò con vigore tale da ridurne parecchio la lunghezza. Il cane abbaiava con più entusiasmo del solito e una luce si accese; dopo un paio di minuti, l’animale s’acquietò e tornò il silenzio. L’uomo si allontanò svelto verso via Caccialepori fumando. Guardò l’ora: le due e venti. Restava ancora una cosa da fare prima di rincasare.
Via Osoppo è nota per una spettacolare rapina, avvenuta nel 1958: i banditi avevano simulato uno scontro tra due auto, per bloccare le vie d’uscita a un portavalori che avevano svaligiato indisturbati, nel tempo in cui la gente era concentrata sull’incidente. Indro Montanelli aveva commentato il fatto sul Corriere della Sera esprimendo la propria ammirazione per la creatività dei colpevoli; quando la polizia li aveva arrestati, aveva pubblicato un articolo in cui asseriva che, sotto sotto, in tanti avevano tifato per i criminali. La leggendaria Banda di via Osoppo aveva anche ispirato un film di Nanni Loy nel 1959. Mentre rimembrava questo episodio di cronaca cittadina, Tinon arrivò sul luogo del delitto: erano le tre e quaranta del mattino, la città era deserta e avvolta in un silenzio ovattato. Un poliziotto gli spiegò che il corpo era stato trovato da una volante in seguito a una telefonata anonima arrivata al commissariato alle due e mezzo. Apparteneva a un ragazzo con la cresta da punk, un orecchino all’orecchio sinistro, il collo e le mani ricoperti di tatuaggi; indossava pantaloni e giubbotto in jeans e accanto a lui giaceva un coltello a serramanico. Gli occhi e la bocca erano spalancati, ma quello che risaltava era il numero 2 che brillava sulla sua fronte, scritto con un pennarello rosso e un tocco preciso, senza sbavature. Si avvicinò un signore con un cane di grossa taglia al guinzaglio; si rivolse al poliziotto e chiese: Cosa è successo?
Impallidì appena scorse il corpo esanime: Doveva finire così
disse, quasi parlando a se stesso e scuotendo la testa. Intanto il cane ringhiava all’indirizzo del cadavere.
Lo conosceva?
chiese Tinon.
"Sì, era nato qui; era un brutto soggetto, non mi meraviglia che sia finito in questo modo. Si chiamava Silvano Cazzaniga, era un pony express di giorno, di notte spacciava nei locali. È sempre stato una brutta bestia, ma finché c’erano i genitori andava tutto bene; sono morti in un incidente qualche anno fa.
Lui, rimasto solo, si è dato alla pazza gioia; è anche venuta la polizia un paio di volte, è sparito per un po’, forse era in galera. Un disastro. Ma che cos’ha scritto in fronte?" Distolse lo sguardo e lo posò sul commissario che si strinse nelle spalle. Gli agenti della Scientifica, intanto, tracciavano i contorni sul marciapiede; uno di loro mise in un sacchetto il coltello a serramanico e lo portò via.
Non ha sentito niente? Potrebbe esserci stata una zuffa?
chiese Tinon.
No, nulla. L’unica cosa è che il cane, intorno alle due, si è messo ad abbaiare come un pazzo. Mi sono alzato e gli ho dato dei croccantini per calmarlo; non sono più riuscito ad addormentarmi. Ho sentito dei rumori, ho visto la polizia e sono sceso a vedere che cosa era successo
. L’animale si era avvicinato all’area in cui si trovava il corpo e continuava a ringhiare; il padrone lo trascinò via dicendo: Tranquillo, non lo vedrai più
, poi, rivolgendosi a Tinon: Lo odiava perché il Silvano gli aveva dato un calcio quando era piccolo
.
Arrivò un’Audi bianca; era la macchina del medico legale, il dottor Renato Cioppi, un uomo gioviale sui cinquant’anni, che salutò Tinon con una pacca sulla spalla e il solito: Chi non muore si rivede, eh?
cui il commissario reagì toccandosi il cavallo dei pantaloni. Dopo un esame veloce, disse: È morto da poco, la causa sembra il colpo di pistola in fronte; sarò più preciso dopo l’autopsia
. Guardò il cadavere: Sembra una vendetta mafiosa; be’, un pirla di meno al mondo, vecchio mio
. Se ne andò mentre arrivava l’autoambulanza per portare all’obitorio i resti di Silvano Cazzaniga.
Il commissario salì nell’appartamento della vittima con un paio di poliziotti. Era un bilocale polveroso, impregnato di fumo; all’entrata c’era una piccola anticamera che si affacciava su un bagno lungo e stretto, un salotto – gli unici arredi del quale erano un televisore degli anni Sessanta, un divano letto tarmato, un tavolo di plastica bianca con tre sedie – e una camera minuscola dove troneggiava un letto matrimoniale sfatto. Sparse ovunque lattine di birra vuote, magliette, scarpe; sul pavimento, dietro al televisore, una borsa femminile aperta contenente delle chiavi, un pacchetto di fazzoletti di carta e un portafoglio logoro vuoto. E bravo il nostro Silvano! pensò il commissario; apparteneva, senz’altro, alla vittima di uno scippo.
Tinon s’incamminò per via Caccialepori; l’aria era frizzante e le strade ancora deserte. Milano si sarebbe risvegliata entro un paio d’ore e avrebbe ricominciato la sua vita frenetica.
Arrivato al commissariato, trovò Michele Bondi, l’agente che faceva il turno di notte: un uomo grande, grosso e taciturno. Pugliese d’origine, si era trasferito da poco nella metropoli; Tinon sapeva che, anche se non ne parlava mai, rimpiangeva molto Lecce. Una volta gli aveva raccontato che stava risparmiando per comprare un bilocale, alle porte di Milano, per lui e la futura moglie. Non vedeva l’ora di sposarsi perché gli mancava tanto la sua Carmela e, mentre riferiva queste cose, gli aveva mostrato orgoglioso la foto di una ragazza dal viso tondo, un cespuglio di capelli neri lunghi e la bocca atteggiata a dare un bacio.
Tinon gli chiese di portargli un caffè e anche la registrazione della telefonata anonima che aveva svelato il posto dove si trovava il morto. Bevve d’un fiato il liquido del bicchierino di carta e pensò che ne avrebbe preso volentieri un altro. Si apprestò ad ascoltare la voce registrata:
Polizia?
Sì, dica
.
In via Osoppo, angolo piazzale Brescia, c’è un cadavere vicino al gabbiotto del benzinaio
. Era modificata, non si capiva se si trattava di un uomo o una donna; chi l’aveva fatta doveva aver usato un fazzoletto per mascherare la voce. Non si sentivano rumori di sottofondo; la cabina telefonica da cui proveniva la telefonata era in piazza Wagner, angolo via San Siro. Tinon sapeva che si trovava davanti a Rigoni, un bistrot in cui andava spesso a mangiare. Chiese a Bondi di cercare in archivio la scheda, sicuramente esistente, relativa a Silvano Cazzaniga, e quelle riguardanti delitti da arma da fuoco, con particolare attenzione a casi di vittime che riportavano un numero in fronte. Dai fascicoli emerse che Silvano Cazzaniga aveva vent’anni ed era stato dentro per spaccio e molestie insieme a due suoi amici, Giuseppe Biancone e Mattia Panuozzo. Si fece portare un altro caffè e accese una sigaretta; l’indomani avrebbe interrogato i conoscenti di Cazzaniga. Potevano averlo ucciso loro durante un regolamento di conti tra balordi o, comunque, fornirgli informazioni che gli avrebbero permesso d’individuare l’assassino.
Quanto agli omicidi, Tinon lesse i vari dossier; c’erano stati diciotto delitti con pistola quasi tutti riconducibili all’ambiente mafioso. Solo cinque avevano un movente passionale: si trattava, per lo più, di uomini che avevano ucciso la compagna che voleva lasciarli; uno aveva sterminato tutta la famiglia perché si era innamorato di una collega e non voleva essere ostacolato nei suoi programmi. Un dossier attrasse la sua attenzione; si trattava dell’omicidio, a Roma, di Lorenzo Falzone, noto venditore d’auto di lusso e frequentatore del jet set, che aveva avuto risonanza nazionale. La dinamica era quella usata per Cazzaniga e il morto riportava il numero 1 in fronte.
Quella sera, davanti a un piatto di spaghetti alla ricotta e zafferano, commentò il delitto