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Ventimiglia riviera dei fuochi: Una nuova indagine per il capitano Martielli
Ventimiglia riviera dei fuochi: Una nuova indagine per il capitano Martielli
Ventimiglia riviera dei fuochi: Una nuova indagine per il capitano Martielli
E-book283 pagine12 ore

Ventimiglia riviera dei fuochi: Una nuova indagine per il capitano Martielli

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Info su questo ebook

«Martielli, lei sa che il diritto non è una scienza esatta: un giudice può motivare, come un bravo avvocato, il tutto e il contrario di tutto. E se gli indizi non sono univoci, c’è spazio per agire. Voi investigatori siete stati la tappa conclusiva e risolutiva di un piano politico complessivo su scala nazionale. Quello della normalizzazione del territorio della Liguria di ponente.» Mancano pochi mesi alle nuove elezioni amministrative a Ventimiglia, quando inizia la stagione degli incendi. Prima quello nel bar costiero Chiringuito, poi altri a intermittenza tra il litorale e le periferie. Tutti con un comune denominatore: la guerra interna tra i gruppi di ’ndrangheta per la riconquista della città. Nel frattempo occorre mettere in salvo il magistrato Viviana Croce, rappacificatasi col capitano Roberto
Martielli: la donna è in pericolo di vita perché sta indagando a fondo sui sistemi di potere occulto delle mafie. E le rivelazioni del super pentito Cosimo Repaci possono aprire uno squarcio nel processo Ponente pulito. Sullo sfondo, il clima è sempre più teso nella città di confine con la Costa Azzurra, tra le manifestazioni dei cittadini e Beppe Minasi pronto a tornare in campo per riconquistare il palazzo comunale. Nel frattempo si deve correre ai ripari per salvare la testimone chiave dell’attentato al Chiringuito, prima che sia troppo tardi. Tra un colpo di scena e l’altro, Martielli e la sua compagna ritrovata vanno avanti senza mai fermarsi, convinti di poter contribuire a riportare la giustizia in questo territorio martoriato. Ma le sorprese non sono finite. E li spingeranno a compiere scelte estreme e coraggiose. Prima di affrontare la prossima avventura.

Achille Maccapani (Rho, 1964) ha pubblicato saggi di storia locale, manuali di diritto della pubblica amministrazione e i romanzi Taci, e suona la chitarra – Milano rock Ottanta (Fratelli Frilli Editori, 2005 - XXII Premio Città di Cava de’ Tirreni), Delitto all’Aquila nera (Zona, 2007), Confessioni di un evirato cantore (Fratelli Frilli Editori, 2009 – fiorino d’argento del Premio Firenze) e Bacchetta in levare (Marco Valerio, 2010). Con Il venditore di bibite (Fratelli Frilli Editori, 2018), seguito da Destini in fumo (Fratelli Frilli Editori, 2019), è iniziata la serie delle indagini dell’ufficiale dei carabinieri Roberto Martielli e del magistrato Viviana Croce.
LinguaItaliano
Data di uscita25 giu 2020
ISBN9788869434556
Ventimiglia riviera dei fuochi: Una nuova indagine per il capitano Martielli

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    Anteprima del libro

    Ventimiglia riviera dei fuochi - Achille Maccapani

    1

    Un paio d’anni prima

    In tarda serata le corse della metropolitana verso Gessate sono sempre più rare. Tantissimi anni prima la stazione di Gorgonzola era il capolinea, e il flusso di persone che scendeva era notevole. Ora si contano sulle dita di due mani: una decina in tutto.

    Cosimo si accende una sigaretta. Nel parcheggio sul retro della stazione del metrò, osserva le automobili parcheggiate a pochi passi da lui. Tutto il necessario è all’interno del veicolo prescelto. A quell’ora non c’è nessuno. È impossibile che ci siano intoppi di qualsiasi tipo.

    Dubita che l’uomo si faccia vivo quella sera. Il suo capo, a Cosoleto, lo aveva tranquillizzato.

    Ne sono certo, arriverà solo.

    Ricorda ancora quelle parole. Eppure non si fida.

    Perché non si tratta di un regolamento di conti, ma di una fine totale.

    Queste sono le regole delle ’ndrine. O le rispetti o sei fuori, per sempre.

    Lui, Cosimo Repaci, vive da decenni nel rispetto delle norme. Conosce i codici che regolano la sua appartenenza e li applica alla lettera. Non intende sgarrare i comandamenti, i principi che vive fino in fondo e applica senza esitazione.

    Riepiloga l’intervento fatto: l’ingresso nella decappottabile viola con la facilità del professionista; la rapida apertura della portiera di guida, grazie al passe-partout di ultimissima generazione; l’inserimento necessario in una manciata di minuti.

    Adesso è più di un’ora e mezza che aspetta.

    Siede su una panchina e finge di leggere un vecchio quotidiano sportivo. Cosimo si guarda intorno. Dall’altra parte dei binari ci sono decine di condomini. Palazzi nati in pochi anni, cantieri cresciuti in un batter d’occhio, e centinaia di famiglie trasferitesi in fuga dalla città.

    È l’hinterland milanese. Una Milano allargata, estesa dappertutto, inonda tutti i vicini comuni della provincia, dove le campagne non esistono più da decenni: sostituite da capannoni industriali, multisale, centri commerciali.

    Dà un’occhiata all’orologio.

    Le ventitré e quindici.

    Che strano. L’uomo dovrebbe essere già qui.

    Invece non arriva.

    Cosimo si guarda intorno. Di lontano vede la sagoma piccolissima della prima carrozza del metrò: parte da Villa Pompea e arriverà lì in pochi minuti.

    Le indicazioni fornitegli sono chiarissime. Gianni Ascrizzi sarà su quel treno. Di solito si ferma a Gorgonzola, evitando di lasciare l’auto nel parcheggio del capolinea, quello di Gessate, perché crede, lo stupido, di farla franca e di non farsi trovare. Peccato solo che la rete degli informatori arrivi ovunque.

    Cosimo inizia a camminare. Il suo veicolo è situato a poca distanza, così da potersi allontanare quanto prima ed evitare posti di blocco. Da quelle parti la polizia non esiste affatto, ci sono solo i carabinieri nelle vicinanze, e prima che si muovano dopo il fattaccio ci vuole parecchio tempo. Quello necessario per sparire.

    Il treno si ferma. Pochi attimi, la gente che esce. I secondi che scorrono. Le porte che si richiudono. Il treno che riparte, stavolta verso Gessate. Le persone che salgono le scale per dirigersi verso l’uscita.

    Cosimo si ferma. Osserva i passeggeri appena usciti dalla stazione e la rampa di scale, quando…

    Non è possibile.

    Gianni non è solo. Con lui c’è un ragazzino sugli undici anni. Questa è una vera sorpresa. Ascrizzi sarebbe dovuto tornare da Milano, dal suo giro di affari poco leciti, senza altre persone. Che sia il suo giorno col figlio, visto che è separato dalla moglie da un paio d’anni?

    Cosimo non può risolvere il problema.

    L’inimmaginabile sta per compiersi.

    Gianni e suo figlio stanno andando incontro a una morte sicura. Per combustione.

    Un regolamento di conti si trasformerà in una tragedia.

    Cosimo deve scappare. Subito. Smettere di pensare.

    Si volta, corre rapido verso l’auto.

    Entra nell’abitacolo, accende il motore e parte. Percorre la stradina stretta che lo conduce verso la strada statale 11, per raggiungere il più vicino casello autostradale e dileguarsi. Riesce a scorgere per pochi istanti nello specchietto retrovisore il divampare delle fiamme, le sirene, le urla dalle finestre, l’orrore fattosi realtà.

    Un paio di anni dopo

    Finisce di consumare la cena presso una cella riservata. Da pochi mesi, Cosimo Repaci non si trova più nel carcere di Rebibbia. Adesso collabora con la giustizia.

    È il momento di dire tutta la verità.

    L’orrore per la morte di Fabio Ascrizzi, il figlio di Gianni, vittima di un regolamento di conti tra le varie locali di ’ndrangheta della piana ormai radicatesi a Milano, lo continua a tormentare giorno e notte.

    Quell’incarico è un peso troppo gravoso con cui convivere. Rivede le fiamme dell’auto, i sogni di bambino spezzati di colpo senza alcuna logica, l’impotenza provata. Cosimo non aveva alcuna possibilità di redenzione. Di salvezza. Di riscatto.

    Ripensa al volto di Fabio, iscritto alla seconda media. Quel venerdì sera si sarebbe goduto un fine settimana col papà e magari sarebbe riuscito a farsi un bagno con gli amici suoi coetanei lungo la foce dell’Adda. Invece nulla di tutto questo era accaduto.

    Ricorda gli articoli di giornale, le immagini in televisione e perfino le notizie alla radio: tutte dedicate alla morte di Fabio e Gianni Ascrizzi. Eppure si era nascosto bene. Forse l’aveva fatta franca. Un anno dopo, invece, l’arresto. Dopo il risveglio della magistratura milanese, le maxi indagini antimafia, le operazioni a raffica, era arrivato il suo momento: in una di queste retate, Cosimo c’è finito in pieno.

    Svegliato in casa, a Cesano Boscone, alle cinque del mattino. Pettorine della Direzione investigativa antimafia, la solita videocamera, il decreto di arresto firmato dal Giudice per le indagini preliminari, un fascicolo di quasi mille pagine pronto per essere passato all’avvocato, le manette ai polsi, e via con l’identificazione. E poi i viaggi sul furgone, l’arrivo a Rebibbia, la cella di isolamento.

    L’attesa del processo, i segnali di conforto di alcuni amici degli amici durante l’ora d’aria, i codici di comunicazione.

    Ma Cosimo non ce l’ha fatta più.

    Quelle fiamme, quell’orrore, quel dolore. E i sogni distrutti di Fabio, di quel ragazzino che giocava a pallone coi suoi amici dalle parti di Crescenzago, e sarebbe potuto diventare un buon difensore centrale. Non avrebbe taglieggiato i negozi di ortofrutta come suo padre. Non si sarebbe garantito le consegne sicure attraverso i fornitori ufficiali dell’ortomercato di Milano, in mano alle ’ndrine.

    Ecco quindi la sua richiesta di incontro col magistrato. Con quelli dell’antimafia.

    Il momento di dire basta.

    Da quel momento era iniziato un turbine di incontri, decine e decine di pagine di verbali di deposizioni spontanee: la ricostruzione dettagliata del suo rapporto con la ’ndrangheta calabrese nel Nord Italia. L’avvio di una lunga collaborazione e di una serie di appuntamenti. In testa a tutti, il sostituto procuratore antimafia di Genova: la dottoressa Viviana Croce.

    Perché lui, Cosimo Repaci, ha molto da raccontarle.

    Alle sette di sera, Viviana Croce parcheggia la sua utilitaria all’interno del recinto riservato della caserma dei carabinieri di Broni, nel cuore della provincia di Pavia. Conserva nel fascicolo la copia stampata della mail criptata a conferma del colloquio direttamente dalla Direzione distrettuale antimafia di Milano. L’appuntamento con Cosimo Repaci sarà in tarda serata. Arrivato a Broni da una località riservata, si sarebbe fermato a parlare con lei, per darle tutte le informazioni necessarie.

    Così Viviana si presenta all’appuntamento da sola. Senza Roberto, senza nessuno della squadra del Nucleo investigativo di Imperia. Ha con sé una borsetta con tutto il necessario: pc portatile, caricabatteria, registratore mp3, un cambio abiti per resistere almeno due o tre giorni di fila e il beauty case.

    Di sicuro quell’incontro non durerà solo un giorno. Ha intenzione di dedicare tutto il tempo necessario a Cosimo Repaci e alle informazioni che potrebbero servirle per l’imminente processo in partenza a Imperia, quello che deriva dall’operazione Ponente pulito, la più importante in tema di mafia che sia mai stata portata a termine nel ponente ligure.

    Viviana si reca nell’ufficio messo a disposizione, con tutto l’armamentario tecnologico, quando finalmente, accompagnato da alcuni carabinieri, entra Cosimo Repaci. Un filo di barba, lo sguardo stanco. La donna magistrato lo riconosce dalle foto segnaletiche del suo dossier.

    Sono l’uno di fronte all’altra e hanno lo stesso sguardo: quello determinato di chi è pronto a lottare.

    2

    Verso le sei di mattina si crea il primo assembramento di gente. L’appuntamento, già concordato da qualche giorno con SMS, email e messaggerie varie dei social network, è presso la rotonda stradale, davanti a un supermercato molto frequentato.

    A poca distanza ci sono due strade, una pianeggiante e l’altra collinare, entrambe dirette verso Menton. Di conseguenza, con il blocco della rotonda si ferma tutto, ogni collegamento tra l’Italia e la Francia. L’unica alternativa è fare marcia indietro, dritti verso Menton in direzione per l’estremo entroterra e l’ingresso dell’autostrada.

    Troppe tasse, troppi tagli, troppa spending review, troppo tutto. E la gente non ne può più. Le cartelle esattoriali per la spazzatura fanno saltare il buon senso individuale.

    È il momento della rivolta, della ribellione.

    Decine e decine di sconosciuti discutono una strategia. Bastano pochi minuti, e qualcuno che urla più degli altri concorda un solo obiettivo: blocco a oltranza, presidio della strada, nessuno deve passare.

    Dalle sei e mezza del mattino, lo sbarramento è già realtà.

    Non c’è bisogno di transenne in metallo o di tubi: basta restare seduti o in piedi lungo la rotonda.

    Nel giro di una manciata di minuti si blocca il traffico. La rabbia dei guidatori arriva subito alle stelle. Telefonate al 115, bestemmie a cielo aperto, urla di sconcerto. E questo è solo l’inizio.

    Scorrono i minuti. La coda sulle strade aumenta, la viabilità si paralizza. Tutti fermi, tutti a domandarsi cosa diavolo stia accadendo. Le radio locali iniziano a dare i primi aggiornamenti, arrivano i corrispondenti dei quotidiani di provincia, i fotografi, altri giornalisti.

    Di lontano iniziano a sentirsi le prime sirene. Le macchine in coda sui due lati stanno pian piano accostando per permettere il passaggio delle volanti.

    Agenti in borghese e altri in divisa raggiungono il centro del corteo. Uno di loro, forse un vicequestore, capelli brizzolati, giacca arancione, jeans semisdruciti e mocassini blu ai piedi, si fa avanti e cerca di individuare il leader di quel gruppo di manifestanti improvvisati. L’uomo, al corrente della manifestazione da una manciata di ore, non è uno sprovveduto: identifica una serie di facce, qualche anarco-insurrezionalista, qualche delinquente comune, tanti soggetti puliti. Ma le mele marce si notano. Forse sono queste ultime a comandare il branco.

    Servono dieci minuti scarsi per capire se c’è la possibilità di far passare i camioncini dei generi alimentari freschi, dei medicinali. Non possono credere di bloccare tutti gli automezzi. Devono capire che quella è una manifestazione non autorizzata. Che non si può bloccare la frontiera: ci sono di mezzo i rapporti con la Francia. Il ministero dell’Interno è in costante contatto con la prefettura, da Roma vedono lo scenario con forte preoccupazione. La situazione sta per diventare una gigantesca polveriera.

    Più o meno alla stessa ora, l’appuntamento per il grande corteo è lungo la via Cavour. Serrande abbassate, un po’ per volontà, un po’ per costrizione, un po’ per convenienza. Alcune persone avevano girato tra un negozio e l’altro per segnalare che quel giorno si doveva chiudere, minacciando sortite notturne col passamontagna e botteghe distrutte.

    Il clima di terrore si diffonde con una rapidità impensata tra i commercianti. Altri di loro, invece, sono impazienti di partecipare alla protesta contro l’imposta dei rifiuti: per marciare verso il palazzo comunale, manifestare contro i commissari straordinari, contestare lo Stato predone che ha deciso contro di noi, poveri lavoratori.

    Quando c’era il nostro sindaco Beppe Minasi la serenità in città era garantita.

    Pure le scuole superiori locali si trovano con le aule vuote e gli insegnanti inoccupati. Centinaia di studenti con striscioni, bandiere rosse, kefiah palestinesi, si riversano lungo le strade con megafoni, urla, pugni chiusi e voglia di gridare la rabbia contro il governo, contro il ministro dell’istruzione, contro tutto e tutti.

    Verso le nove di mattina, una sfilata di migliaia di persone assedia la città.

    Tutti insieme contro le tasse, contro i tagli alla scuola, contro il governo, contro i commissari. E tutti a urlare slogan come allo stadio.

    Il corteo avanza senza un attimo di pausa. Passo regolare, zero incidenti, un servizio d’ordine improvvisato riesce ad evitare rischi di conflitti. Attorno, poliziotti in borghese e in divisa presidiano la zona. Foto a raffica, per identificare i capi veri e quelli occulti di quella rivolta improvvisata. Un paio di droni in volo radente girano dappertutto per fissare le immagini.

    Alcuni ispettori del commissariato controllano a distanza il corteo. Si accorgono della presenza di soggetti dal passato un po’ losco. Facce già viste negli schedari. Massima attenzione e sorveglianza discreta, ordinano via radio dalla questura. Specie adesso che ne parlano perfino i tg nazionali.

    ***

    Sono le nove e mezza di mattina, e la rotonda è piena di manifestanti. La coda dei veicoli si snoda per oltre dieci chilometri. Le due frontiere di Menton sono chiuse dalla Gendarmerie, e il sindaco, con la doppia carica di deputato all’Assemblée Nationale, è in contatto con l’Eliseo per protestare con i vertici di Roma, contro quell’opera di sabotaggio alla libera circolazione delle frontiere in Europa.

    A poca distanza dalla rotonda arriva un camioncino grigio.

    Dentro c’è una ventina di poliziotti dotati di sfollagente, in assetto anti sommossa. Come negli stadi. Come nelle manifestazioni più difficili che si svolgono nelle grandi città.

    Il vicequestore va ad incontrare i capetti della rivolta.

    Li avvisa.

    O vi togliete dai coglioni, o caricano.

    La risposta è compatta.

    Noi non molliamo. Non ce ne andiamo.

    Il vicequestore scuote la testa. Non sanno a che cosa diavolo vanno incontro. Si allontana con passo lento. Ha cercato di far ragionare quelle teste calde. Adesso non può più rinviare. Da Roma aspettano un segnale duro: chiede notizie sull’accaduto pure il ministro, dopo le telefonate da Parigi.

    Non c’è nient’altro da fare, occorre passare alla linea dura.

    Il vicequestore raggiunge il gruppo degli agenti e dice loro di prepararsi alla carica. Via libera all’uso dei fumogeni. Concede solo altri cinque minuti di avvertimento.

    «Preparate pure le mazze. Se si ribellano, non fermatevi.»

    Gli agenti, giunti da Genova la sera prima, abbassano la visiera. Uno di loro accende il megafono per l’ultimo appello. Ci si prepara alla battaglia: l’aria è fresca e frizzante.

    I minuti iniziano a scorrere lentamente.

    «Tutto bene?», domanda Michele Condello all’amico Paolo Impusino. Camminano tra la gente, nel pieno della manifestazione improvvisata lungo via Cavour. Ancora pochi metri e raggiungeranno la rotonda di Largo Torino.

    «Sì, capo. Pino e Antonio sono ancora in casa. Hanno fatto un gran bel casino l’altra notte al Chiringuito

    «Parla piano, sennò ti sentono.»

    E prende sottobraccio l’amico per allontanarsi un po’. Giusto quei tre, quattro passi per non incontrare qualche curioso di troppo.

    «Ma con tutta questa gente, dai.»

    «Hai visto cosa hanno fatto gli sbirri?»

    «Il solito. Hanno interrogato tutta la gente del bar, anche il capo.»

    «Parli di Agostino?»

    «Di lui, sicuro. Ma c’era anche lei, la bonazza. Sai, quella troietta.»

    Tutto come da previsioni. La bella cameriera si fa notare ovunque, e non solo dietro il bancone del bar paninoteca.

    «Chi? Elisa?»

    «Me l’ha detto lei poco fa, era uscita dal commissariato un po’ spaventata.»

    «A proposito, ci esci ancora?»

    «Ma certo. È una gran figa, anche se devo tenerle le briglie. Ogni tanto mi capitava di andare al Chiringuito e ho visto che se la intende col principale. Parlo di Agostino.»

    «Mi sa che Agostino allunga le mani facilmente.»

    «Ho paura che non gli si opponga, ma non ne sono sicuro.»

    In realtà la tresca doppia c’è. Elisa l’accetta, sia pure a denti stretti.

    «Beh, adesso conta che Agostino abbia capito la lezione. Avevo un ordine preciso e dovevamo lasciargli un segnale. Ora sa cosa deve fare.»

    Nel frattempo il corteo raggiunge, in mezzo a una selva di telecamere e giornalisti, Largo Torino. Proprio in quell’istante Michele riconosce a distanza un vecchio amico e cerca di raggiungerlo, trascinandosi dietro Paolo.

    «Caricate, avanti!»

    Il vicequestore dà l’ordine. Gli agenti avanzano schierati verso i manifestanti.

    Loro sono ancora lì, fermi, compatti. Tutti pronti a presidiare la rotonda.

    Partono i primi lacrimogeni.

    Qualcuno comincia a barcollare, altri resistono. Gli agenti vanno avanti. Iniziano a roteare i manganelli. È il momento dello scontro.

    Qualche facinoroso prova a lanciare un po’ di sassi custoditi in tasca. Solito errore, tipico di chi vuol provocare e non sa cosa lo aspetta.

    Gli agenti tengono lo sguardo basso, protetti dalle visiere e iniziano con i colpi duri. Qualcuno si sposta, altri provano a opporsi con bastoni di legno.

    Si alzano urla dai lati della strada.

    «Celerino, pezzo di merda!»

    Volano sassi un po’ dappertutto, ma la visuale è oscurata dal fumo dei lacrimogeni. In una manciata di minuti quel blocco improvvisato di facinorosi viene smembrato, tra i fuggifuggi e la sorpresa che quelle decine di poliziotti suscitano.

    «E meno male che c’erano pochi fotografi», dice il commissario di polizia col telefonino al questore Filippo Pastore «perché poi è facile strumentalizzare questi episodi.»

    «Beppe! Beppe! Beppe! Beppe!»

    La rotonda di Largo Torino si trasforma nel giro di pochi istanti in una bolgia. Basta l’apparizione dell’ex sindaco Beppe Minasi ad infiammare la platea dei manifestanti, tutti pronti a festeggiarlo, a stringergli le mani. Indossa l’abito delle grandi occasioni, sorridente e pronto a salutare tutti come ai vecchi tempi, quando girava tra le vie della città, trionfante e sicuro di sé.

    Non gli importa nulla del processo, di Ponente pulito, dei guai combinati col suo fidato amico Matteo Tripodi, del precipizio in cui si trovano don Mimmo e la sua banda. È il momento di riabbracciare i suoi concittadini, la gente che lavora, quella che si fa un mazzo così e si ritrova tartassata dallo Stato, dalla commissione straordinaria che governa ingiustamente la città, da quel comune che non riconosce più. E dire che quando lui era sindaco le cose funzionavano benissimo².

    Giornalisti e reporter scattano foto a profusione, e alcuni poliziotti riconoscono diversi soggetti noti che parlottano con Minasi. L’ex sindaco li abbraccia, li saluta, fa il segno della vittoria con l’indice e il medio della mano sinistra. Il clima è sempre più euforico, con la gente che saltella urlando e inneggiando a Beppe.

    «Sindaco! Sindaco! Sindaco! Sindaco!»

    Michele Condello abbraccia Minasi.

    «Ehi, come va?», esordisce Beppe.

    «Ci proviamo, ma non è facile vendere giocattoli. C’è la crisi, Beppe.»

    «Ci hanno mandati a casa», gli risponde Minasi, «ma vedrai che un giorno ritorneremo, ne sono sicuro.»

    Attorno un centinaio di persone applaudono con forza. L’ex primo cittadino gongola di orgoglio. Sorride e alza la mano destra per salutare un po’ ovunque.

    «Beppe, noi ti siamo vicini. Tutta la città ti è vicina, lo sai benissimo.»

    «E io vi ringrazio. Questo vostro affetto mi rincuora.»

    Appena uscito dal casello autostradale di Varazze, Roberto Martielli si butta nel groviglio che pian piano confluisce sul lungomare. Sa che Viviana non si è allontanata dalla loro casa, il luogo in cui si ritrovavano per ricaricare le batterie, per recuperare un po’ di serenità.

    Prima che lui rovinasse tutto incontrando

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