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Liliana Castagnola
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E-book140 pagine1 ora

Liliana Castagnola

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Info su questo ebook

Liliana Castagnola, affascinante artista del varietà italiano del primo Novecento, si rivela attraverso l'immaginario, la sensibilità e le ricerche storiche di due donne che, pure in epoche diverse e lontane, si trovano casualmente a confrontarsi con affinità d'animo e con quanto Liliana ha sofferto e vissuto. Attraverso i complessi retroscena di un successo mai facile, si dipana la vivacità d'animo e culturale di un'epoca di bellezza e divertimento in cui la sua triste storia appare come inevitabile lato d'ombra.
LinguaItaliano
Data di uscita14 apr 2020
ISBN9788831667982
Liliana Castagnola

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    Anteprima del libro

    Liliana Castagnola - Paola Farah Giorgi

    Bruz­zo­ne

    Capitolo 1

    RI­VA­RO­LO (GE­NO­VA), 1921

    Da quan­do suo pa­dre l’ave­va chiu­sa in ca­me­ra la pri­ma vol­ta, ave­va sco­per­to che era fa­ci­le da­re vi­ta a va­rian­ti in­fi­ni­te di pos­si­bi­li­tà. L’ave­va sco­per­to ascol­tan­do i con­si­gli del gen­ti­luo­mo dai baf­fi di me­rin­ga.

    Fuo­ri, co­me ogni mat­ti­na, gli zoc­co­li ca­den­za­ti dei ca­val­li al­za­va­no da ter­ra un in­for­me pul­vi­sco­lo chia­ro, tan­to si­mi­le a una nu­vo­let­ta di ci­pria. Nel­la di­re­zio­ne op­po­sta, un tram del co­lo­re del­le oli­ve per­cor­re­va le sue ro­ta­ie con la stan­chez­za nel­le os­sa ti­pi­ca di chi, quel per­cor­so, lo ha già vis­su­to trop­pe vol­te, avan­ti e in­die­tro, iden­ti­co ogni gior­no. Ac­com­pa­gna­to da un leg­ge­ro mu­go­lio, il car­ro si fer­mò in pros­si­mi­tà del­la car­to­le­ria. Al so­no­ro sba­di­glio del coc­chie­re, i ca­val­li scos­se­ro en­tram­bi le cri­nie­re bion­dic­ce e Li­so sce­se. 

    Co­me ogni mat­ti­na al­la stes­sa ora, Mil­la, quat­tor­di­ci an­ni com­piu­ti da una man­cia­ta di gior­ni, ri­ma­se a os­ser­var­lo dal­la fi­ne­stra sco­stan­do ap­pe­na ap­pe­na la ten­di­na bian­ca. Non si era an­co­ra rav­vi­va­ta i ca­pel­li e si sen­ti­va in di­sor­di­ne. Con­cen­tra­ta sul­le mo­ven­ze del ra­gaz­zo, non si ac­cor­se nep­pu­re del­la sot­ti­le fal­ce di lu­na che tar­da­va a sfu­ma­re e che, in al­tra oc­ca­sio­ne, avreb­be esta­sia­to i suoi oc­chi per la de­li­ca­tez­za e l'ele­gan­za del trat­to.  

    Ven­ti­due pas­si esat­ti a fal­ca­te agi­li, lui ar­ri­vò al ne­go­zio e, co­me sem­pre, pri­ma d'in­fi­la­re la chia­ve, per­lu­strò i ve­tri dall'al­to al bas­so e dal bas­so all'al­to, ana­liz­zan­do in­fi­ne l'in­se­gna co­me aves­se un in­na­to ti­mo­re che po­tes­se stac­car­si e ca­de­re a ter­ra da un mo­men­to all'al­tro. Bel­la, car­na­le e af­fa­sci­nan­te, quell'in­se­gna, qua­si da Ca­fè Chan­tant. Mil­la ne ado­ra­va le let­te­re in per­fet­to cor­si­vo do­ra­to, al­let­tan­ti e mor­bi­de sul­la for­ma di lat­ta a ba­se blu not­te: Car­to­le­ria Pal­mie­ri.

    Il ce­le­ste del cie­lo ini­zia­va ora a il­lu­mi­nar­si; una scheg­gia di so­le sfi­dò l'api­ce del­la col­li­na ol­tre il ca­seg­gia­to, pe­ne­tran­do i ra­mi fit­ti dei ca­sta­gni si­no a rag­giun­ge­re il vi­so di Mil­la, sem­pre se­mi­na­sco­sto dal­la ten­di­na bian­ca, sem­pre fis­so su Li­so, il nuo­vo com­mes­so del­la Car­to­le­ria Pal­mie­ri.

    Ec­co, ades­so Li­so en­tra, poi esce su­bi­to do­po. Ha in ma­no una sca­let­ta di le­gno a tre gra­di­ni pit­tu­ra­ta di ver­de. Nell'al­tra ma­no ha lo strac­cio bel­lo gros­so, co­me ogni mat­ti­na. Si in­ge­gna a lu­ci­da­re i ve­tri sof­fian­do­ci so­pra l'ali­to e si al­lun­ga il più non pos­so per rag­giun­ge­re le par­ti in al­to do­ve pas­sa so­lo lo strac­cio sen­za ali­tar­ci, per­ché lì non ci ar­ri­va. Poi scen­de, spo­sta la sca­let­ta di vol­ta in vol­ta, si met­te a di­stan­za, cer­ca even­tua­li alo­ni, ri­sa­le, ri­lu­ci­da, ci sta mezz'ora, se non di più. Nel frat­tem­po, un nuo­vo gi­ro del tram; nel frat­tem­po, ar­ri­va in piaz­za un se­con­do car­ro con un ca­ri­co in­de­ci­fra­bi­le. Si fer­ma qual­che se­con­do poi pro­ce­de ver­so il por­to.

    Non ap­pe­na Li­so si ri­chiu­se al­le spal­le la por­ta del­la car­to­le­ria, di­ven­tan­do in­vi­si­bi­le, Mil­la soc­chiu­se gli oc­chi re­spi­ran­do for­te, qua­si an­si­man­do, una ma­no cal­ca­ta sul cuo­re a trat­te­ner­lo. Sa­reb­be tor­na­ta al­la fi­ne­stra a mez­zo­gior­no in pun­to quan­do lui fi­ni­va il tur­no del mat­ti­no e Pal­mie­ri in per­so­na ar­ri­va­va.

    Mi­se a po­sto la ten­di­na, si rav­vi­vò i ca­pel­li pas­san­do­ci den­tro le di­ta. Odia­va quei ca­pel­li bion­do ce­ne­re ugua­li a sua non­na, gli oc­chi trop­po chia­ri di suo pa­dre, tut­to in­si­pi­do, sbia­di­to. Li­lia­na in­ve­ce era scu­ra, scu­ris­si­ma, avreb­be vo­lu­to es­se­re lei. Tut­ti ne par­la­va­no, o ne ta­ce­va­no. Fa­ce­va qua­si pau­ra, Li­lia­na, tut­ta nu­da.

    Se il mon­do aves­se ini­zia­to mi­ra­co­lo­sa­men­te a gi­ra­re al con­tra­rio, for­se avreb­be avu­to qual­che chan­ce an­che lei di as­so­mi­gliar­le al­me­no un po­co, e di viag­gia­re di cit­tà in cit­tà in tut­ta Eu­ro­pa, an­che a Pa­ri­gi, ma il mon­do non sa­reb­be mai gi­ra­to al con­tra­rio, nep­pu­re per mi­ra­co­lo, nep­pu­re se fos­se an­da­ta tut­ti i gior­ni in gi­noc­chio al Gar­bo ad ac­cen­de­re ce­ri su ce­ri, scor­ti­can­do­si la pel­le. No, non sa­reb­be mai suc­ces­so. Di­giu­no e pre­ghie­ra, di­ce­va la non­na, dif­fi­ci­le cre­der­le. An­zi, se­con­do il gen­ti­luo­mo dai baf­fi di me­rin­ga non era as­so­lu­ta­men­te il me­to­do giu­sto, quel­lo del­la non­na.

    «Mil­liiiiiin? Va tut­to be­ne?? Io esco.»

    «Sì, mam­ma, vai.»

    «Quan­do tor­no ti fac­cio usci­re cin­que mi­nu­ti, ma non dir­lo a tuo pa­dre.»

    «Sì, mam­ma, va be­ne.»

    Click click, due gi­ri di chia­ve, la ma­dre uscì.

    Fi­nal­men­te so­la, Ca­mil­la Na­ta­li­na Pa­squa­li­na, det­ta Mil­la e an­che Mil­lin, si tol­se da dos­so la ca­mi­cia da not­te a fio­rel­li­ni, se­con­do lei pa­te­ti­ca, men­tre sua ma­dre, tut­ta in gri­gio, apri­va ora la por­ta per an­da­re al mer­ca­to e suo pa­dre, au­ste­ro, era già fuo­ri dal­le sei col pan­ciot­to co­lo­re dell'om­bra e le cal­ze a ri­ghi­ne mar­ron. 

    Sci­vo­la­re al di là fu fa­ci­le, più fa­ci­le del pre­vi­sto.

    Pre­se il ba­tuf­fo­lo di ovat­ta che ave­va na­sco­sto nel co­mo­di­no il gior­no pri­ma e lo di­vi­se in due, mo­del­lan­do­ne pri­ma una par­te e poi l’al­tra con le di­ta. Con es­so si tap­pò per be­ne le orec­chie. Poi si mi­se se­du­ta sul let­to, le ma­ni sul­le gi­noc­chia, gli oc­chi stret­ti stret­ti, in­go­ian­do il re­spi­ro più vol­te. Eb­be un bri­vi­do di fred­do, ma pas­sò qua­si su­bi­to. Il truc­co era tuf­far­si sen­za pau­ra, con l'aiu­to del co­to­ne nel­le orec­chie co­me le ave­va sug­ge­ri­to il gen­ti­luo­mo dai baf­fi di me­rin­ga.

    «Ti aiu­te­rò io» le ave­va det­to, «e sa­rò là ad aspet­tar­ti. Se vuoi in­con­tra­re Li­lia­na, que­sto è il mo­men­to giu­sto.»

    In quei gior­ni era a Ge­no­va in con­va­le­scen­za, ma il gen­ti­luo­mo non le ave­va det­to di più, nep­pu­re il per­ché, sol­tan­to che avreb­be ri­pro­va­to a sta­re in sce­na di fron­te a po­che per­so­ne, in una sem­pli­ce oste­ria. Te­me­va, Li­lia­na, di non riu­sci­re più a can­ta­re; vo­le­va met­ter­si al­la pro­va, ri­co­min­cia­re po­co a po­co e, so­prat­tut­to, ca­pi­re se que­sto era pos­si­bi­le o se la sua car­rie­ra fos­se già mor­ta sul na­sce­re.

    Capitolo 2

    VIA DEL­LA MAD­DA­LE­NA (GE­NO­VA), 1921

    «Ci sei riu­sci­ta, vi­sto?»

    L’oste­ria di Car­mi­ne al­la Mad­da­le­na rac­co­glie­va umo­ri va­ri e un den­so odo­re di vi­no ros­so. L'opa­ci­tà del fu­mo sfu­ma­va il con­tor­no del­le chi­tar­re che, ap­pe­se al mu­ro gial­lo, pro­met­te­va­no quat­tro no­te co­me sot­to­fon­do all’abi­tu­di­ne e al­la fa­ti­ca del gior­no che, ogni se­ra, an­ne­ga­va lì, nei bic­chie­ri. Una set­tan­ti­na di me­tri qua­dra­ti o po­co più, il sof­fit­to a vol­ta, un ban­co­ne mas­sic­cio col pia­no ri­ve­sti­to di lat­ta e lui, Car­mi­ne, dai ca­pel­li di cor­vo e la pel­le du­ra sul­le guan­ce, un na­po­le­ta­no sbar­ca­to a Ge­no­va per ca­so.

    Due di­ta di ver­mou­th Car­pa­no ro­tea­va­no nel mo­vi­men­to cir­co­la­re con cui il gen­ti­luo­mo dai baf­fi di me­rin­ga si tra­stul­la­va. Il gio­co era fat­to. Mil­la ave­va sul­le lab­bra un ve­lo di stu­po­re ma sem­bra­va a suo agio. Si sta­va be­ne lì, in oste­ria, co­sì be­ne da es­se­re ten­ta­ti di ri­ma­ner­ci per sem­pre. Si era mes­sa in una pan­ca ap­pog­gia­ta al mu­ro, un po' in di­spar­te.

    «Ci sei riu­sci­ta, vi­sto? Non è dif­fi­ci­le. Ora mi cre­di?»

    Lei ri­spo­se con un lar­go sor­ri­so, nien­te pa­ro­le, per non ri­schia­re di per­de­re la fre­ne­sia di quell’av­ven­tu­ra ina­spet­ta­ta che, stra­no a dir­si, sta­va vi­ven­do per dav­ve­ro. Li­lia­na non c’era an­co­ra. Sa­reb­be ar­ri­va­ta? For­se era già den­tro, nel re­tro del­la bot­te­ga a far­si bel­la.

    Quan­do, po­co do­po, un gio­va­ne al­to, con la ri­ga drit­ta e le ba­set­te al­la Ro­dol­fo Va­len­ti­no, sfi­lò dal suo ta­vo­lo e dal suo bic­chie­re per al­lun­ga­re un brac­cio e ac­chiap­pa­re una chi­tar­ra, pen­sò che il mo­men­to at­te­so stes­se for­se per giun­ge­re. Im­ma­gi­nò Li­lia­na die­tro la ten­da ros­sa ad ag­giu­star­si lab­bra e ci­glia con lo spec­chio in ma­no, un ul­ti­mo ri­toc­co pri­ma di en­tra­re in sce­na.

    Mil­la si ver­sò un goc­cio d'ac­qua dal­la ca­raf­fa e pre­se a sor­seg­giar­lo co­me fos­se ro­so­lio.

    La ten­da on­deg­gia­va mos­sa dall’in­cer­tez­za. Che stra­no es­se­re lì, a due pas­si da Li­lia­na che non si de­ci­de­va a usci­re e, so­prat­tut­to, che stra­no es­se­re lì an­che sen­za di­giu­no e pre­ghie­ra, an­che sen­za gi­noc­chia scor­ti­ca­te e odo­re di chie­sa. No, nul­la di tut­to que­sto. I mi­ra­co­li ac­ca­do­no lo stes­so.

    A Li­lia­na Ge­no­va man­ca­va, ogni vol­ta. Sem­pre in tour­née, lon­ta­no dal­la sua cit­tà, fe­li­ce e tri­ste, tri­ste e fe­li­ce, stret­ta in un sen­ti­men­to am­bi­va­len­te che an­che Mil­la sen­ti­va den­tro, co­me se un qual­co­sa ap­par­te­nes­se a en­tram­be, for­se un pez­zet­to d’ani­ma.

    Il gio­va­ne al­to, al­la Ro­dol­fo Va­len­ti­no, ave­va ini­zia­to a ri­scal­dar­si le di­ta con qual­che ac­cor­do e, nel frat­tem­po, era en­tra­to in oste­ria an­che un uo­mo con una ca­te­na al col­lo e una gros­sa fi­sar­mo­ni­ca.

    La ten­da al­le spal­le di Car­mi­ne era sem­pre chiu­sa, on­deg­gian­te ap­pe­na.

    Mil­la si ac­ca­rez­zò sul­le gi­noc­chia l'abi­to di vel­lu­to ver­de che le scen­de­va si­no ai pie­di, un abi­to di al­tri tem­pi, da prin­ci­pes­sa, fo­ca­liz­zan­do so­lo in quel mo­men­to che nes­su­no sem­bra­va ac­cor­ger­si del­la sua pre­sen­za. Si gi­rò di scat­to ver­so il gen­ti­luo­mo dai baf­fi di me­rin­ga in­ter­ro­gan­do­lo con gli oc­chi.

    «L’abi­to ti sta mol­to be­ne, e an­che l’ac­con­cia­tu­ra, se pos­so per­met­ter­mi» ri­spo­se lui. Mil­la d’istin­to si toc­cò i ca­pel­li, le cioc­che in­tar­sia­te da pic­co­le per­le.

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