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Gatti neri e vicoli bui
Gatti neri e vicoli bui
Gatti neri e vicoli bui
E-book162 pagine2 ore

Gatti neri e vicoli bui

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Info su questo ebook

È notte, e mentre la città riposa, alcuni misteriosi personaggi si aggirano fra le sue strade…
Un volume unico con tre racconti inediti, tre indagini sorprendenti.
Nel racconto di Maurizio de Giovanni, massimo interprete del giallo italiano, si incontreranno per la prima volta il commissario Lojacono dei Bastardi di Pizzofalcone e Mina Settembre, l’assistente sociale più amata d’Italia. Seguirà poi Francesco Pinto, con una storia ambientata negli anni ’60 in cui a indagare sarà coinvolto anche Peppino Di Capri. Infine, Serena Venditto libererà fra le strade di Napoli i suoi divertentissimi
investigatori di via Atri, per non tacer di Mycroft, l’irresistibile gatto nero.
…e ancora una volta Napoli, la città italiana più cliccata su internet, un set a cielo aperto, è pronta a raccogliere le loro storie.
Con un saggio di Sergio Brancato.
LinguaItaliano
Data di uscita1 dic 2022
ISBN9788832783032
Gatti neri e vicoli bui

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    Anteprima del libro

    Gatti neri e vicoli bui - Maurizio de Giovanni

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    Gatti neri e vicoli bui

    Collana di narrativa in giallo e noir

    Homo Scrivens

    Direttore di collana: Aldo Putignano

    Editing: Donatella De Tora e Aldo Putignano

    Copertina: kudryashka - 123rf.com

    Autori: Maurizio de Giovanni, Francesco Pinto, Serena Venditto

    Titolo: Gatti neri e vicoli bui

    ISBN 9788832783032

    I edizione Homo Scrivens, giugno 2022

    I edizione ebook, novembre 2022

    ©2022 Homo Scrivens s.r.l.

    via Santa Maria della Libera, 42

    80127 Napoli

    www.homoscrivens.it

    Riproduzione vietata ai sensi di legge

    (art. 171 della legge 22 aprile del 1941, n. 633)

    Maurizio de Giovanni

    Francesco Pinto

    Serena Venditto

    Gatti neri e vicoli bui

    logofrontespizio

    MAURIZIO DE GIOVANNI

    POMERIGGIO AL GAMBRINUS

    Da quando si trovava in quella città, l’ispettore Giuseppe Lojacono del commissariato di Pizzofalcone aveva rivisto il concetto di Storia.

    Nel luogo dal quale proveniva, in cui aveva cominciato a lavorare e aveva conosciuto amicizia e amore, la terra dei suoi padri, la Storia era immanente e tuttavia lontana: quello che era antico, insomma, sembrava antico. Colonne maestose, templi immensi, anfiteatri e antichi mosaici; tutto recintato, protetto, meraviglioso e visitabile, ma non certo utilizzabile o fruibile. Uno scenario mozzafiato, che faceva da sfondo discreto e trionfale alla vita di chi battagliava per la quotidiana sopravvivenza che rubava ahimè la maggior parte dell’attenzione.

    Qui la faccenda era tutta diversa: i ragazzi la sera bevevano birre tra le mura greche, gli ambulanti invadevano portici medioevali, senzatetto bivaccavano in gallerie monumentali. E si parcheggiavano motorini sui basamenti di statue seicentesche, si scrivevano sgrammaticate frasi d’amore su marmi rinascimentali, si cucinava in chiese sconsacrate con affreschi del Settecento.

    Lojacono non era sicuro che fosse un male. Se in un luogo, pensava, si sono sedimentate epoche storiche una sull’altra, e ognuna ha lasciato in ogni angolo le tracce che devono restare in una capitale, be’, gli abitanti devono pur vivere. Certo, bisognava stare un po’ più attenti perché la bellezza è comunque una responsabilità, ma quella Storia vissuta e sgualcita aveva un suo fascino particolare.

    Il luogo dove l’ispettore stava entrando proprio in quel momento era, come si dice, un plastico esempio della Storia vivente e vissuta della città. Un caffè, perfettamente funzionante e anzi tra i migliori, con tanto di meraviglioso banco di pasticceria e veranda esterna con tavolini al sole; ma anche stucchi, pannelli e arredi che sembravano frutto di una ricostruzione cinematografica attenta e filologica della belle époque e che invece erano assolutamente originali. In altre parti del mondo per entrare in un posto del genere si sarebbe dovuto pagare il biglietto: lì bastava trovare un tavolo libero, e un sorridente cameriere in frac bianco sarebbe accorso emergendo dal passato remoto.

    Lojacono non era solo. Al suo fianco, a suo agio pur essendo fuori posto come sempre, un annoiato agente scelto Marco Aragona, sobriamente abbigliato con un paio di pantaloni albicocca, un pullover fragola e un giubbino melone a imitazione di una vivente e semovente macedonia di frutta, evidentemente celebrativa della primavera inoltrata.

    Poco interessato all’esposizione di dolci, il giovane disse per l’ennesima volta: «Loja’, ricordami per quale motivo, con un’intera città da proteggere dal crimine, dobbiamo venire qui in pieno orario di servizio. E quanto tempo dobbiamo restare, prima di rimetterci a lavorare».

    L’ispettore individuò il tavolino nella sala interna, dove gli era stato detto di prendere posto. La bella giornata finalmente calda aveva fatto sì che gli avventori avessero preso per la maggior parte posto all’esterno, ma qualcuno c’era anche lì dentro: un corpulento anziano che leggeva il giornale, una coppia di giovanissimi che parlottavano sussurrando, una famigliola di turisti di etnia indiana con due ragazzini che cercavano di abbuffarsi di dolci nonostante i tentativi dei genitori di impedirglielo. Il sole del pomeriggio penetrava dai finestroni, luccicando sugli stucchi dorati e sui velluti della tappezzeria.

    Lojacono si sedette, faccia alla porta d’ingresso, sull’ultimo tavolino prima del pianoforte a coda. Rifletté se fosse o meno il caso di ripetere al collega quello che gli aveva detto almeno tre volte, perché a lavare il capo all’asino, come si diceva dalle sue parti, si perde il tempo e il sapone; ma ritenne ancora più molesta l’eventualità che l’agente scelto gli reiterasse la richiesta e quindi disse: «Perché ce lo ha chiesto Pisanelli, ecco perché. Ha chiamato sul cellulare e ha detto: Lojacono, mi faresti un favore? Dovresti incontrare una persona che mi è molto cara. Dovrebbe chiederti una cortesia. E per piacere, porta con te Aragona. Al Gambrinus alle sedici. Prendete pure quello che volete, pago io il conto».

    Aragona si era stravaccato su una sedia, grattandosi platealmente il pacco e sbadigliando a bocca spalancata.

    «Pisanelli, eh? E noi, che contrariamente a lui ancora abbiamo una vita davanti e non stiamo languendo in una triste pensione che è l’anticamera del trapasso, perdiamo un paio d’ore di una giornata come questa per assecondare il suo Alzheimer? Spiegami perché».

    Lojacono fissava l’ingresso della sala come sempre privo di espressione. I suoi tratti orientali, che gli avevano fruttato il soprannome di Cinese, accentuavano l’impressione che fosse entrato in uno stato meditativo. In realtà stava dibattendo tra sé l’eventualità di estrarre la rivoltella d’ordinanza e porre pietosamente fine alle inquietudini della mente malata del giovane collega.

    Disse invece: «Perché c’è più saggezza e concretezza in un rutto di Pisanelli che in una tua settimana lavorativa, ecco perché. E comunque, non avevi nulla da fare che non sonnecchiare in archivio. Mi chiedo piuttosto per quale motivo mi abbia chiesto di farmi accompagnare proprio da te, Aragona. E non, per esempio, da un intelligente animale domestico, che mi sarebbe stato di maggior aiuto».

    Aragona sogghignò e disse: «Ah, ma a questo ti rispondo io: perché la vecchia cariatide ha nei molti decenni sviluppato una certa capacità di giudizio, e sa di chi si può fidare. E per tua norma, caro Cinese, sto seguendo in queste ore un interessante caso di tentata rapina con lesioni a un commerciante di via Egiziaca, alla cui prossima soluzione sono sottratto dalle vostre paturnie di anziani. Va be’, va’, almeno mettiamo a frutto il pomeriggio. Hai detto che paga il vecchio, no? Allora: cameriere, due sfogliatelle e due zuppe inglesi, e due taralli sugna e pepe; e due spremute d’arancia. Poi chieda al collega che cosa prende».

    Lojacono sospirò e chiese un caffè. Tra sé, però, si domandò il motivo della strana telefonata di Pisanelli; il collega passava a trovare il gruppo dei Bastardi spesso e volentieri, in commissariato. Perché non dirglielo di persona, davanti a tutti?

    Diede un’occhiata all’orologio, e alle sedici in punto effettivamente qualcuno entrò a passo di marcia dall’ingresso principale. Qualcuno di clamorosamente diverso da quello che l’ispettore aveva immaginato di vedere.

    Aveva pensato a un coetaneo del vicecommissario, un vecchio amico, una consolidata conoscenza. Magari qualcuno del quartiere, che aveva interesse a non bazzicare dalle parti del loro ufficio. Ma la persona che, dopo aver lanciato un’occhiata attorno e aver individuato il tavolo giusto, si stava avvicinando risoluta ai due poliziotti, be’, era decisamente sorprendente.

    Una donna che dimostrava meno di quarant’anni, alta, bruna, i capelli neri che cadevano morbidi sulle spalle. Lineamenti perfetti, labbra piene e occhi grandi lievemente accigliati, un piccolo naso all’insù e una fossetta sul mento. Collo lungo, fisico slanciato e forme molto generose nonostante la mortificazione di un giaccone di taglio maschile troppo largo, jeans e scarpe da tennis. Decisamente molto bella, anche se non faceva nulla per esaltare il proprio aspetto, né nell’abbigliamento né nell’inesistente trucco sul viso.

    Lojacono dissimulò la propria sorpresa nella solita indecifrabile fissità espressiva. Non si poté dire lo stesso di Aragona, che ebbe una reazione spettacolare: sobbalzò letteralmente sulla sedia, mettendosi in posizione eretta; strabuzzò gli occhi, abbassando di poco gli occhiali azzurrati che facevano tanto Starsky & Hutch, suoi idoli assoluti; spalancò la bocca per la meraviglia, incidentalmente mostrando un orribile bolo alimentare misto del tarallo e della sfogliatella che stava masticando contemporaneamente; riuscì perfino a emettere una specie di sibilo, che a Lojacono ricordò quello di un serpente a sonagli in calore, qualora i serpenti a sonagli andassero in calore.

    La donna si avvicinò al tavolo e restò all’impiedi, fissando entrambi con sbrigativa durezza. Lojacono si sentì istantaneamente in colpa per qualcosa, anche se non avrebbe saputo dire per che cosa. Aragona sorrise ebete, una scaglia di riccia che gli pendeva vezzosa all’angolo della bocca.

    «Siete voi i colleghi di Giorgio, sì? Di Giorgio Pisanelli, insomma, quelli del commissariato di Pizzofalcone. Siete voi?»

    Il modo in cui aveva parlato, la linea della mascella, le sopracciglia diedero immediatamente a Lojacono la consapevolezza che a quella donna i poliziotti non piacessero per niente. Una delinquente? Un’affiliata alla criminalità organizzata? Una parente di qualcuno che si trovava in galera? Era per questo che il vicecommissario non l’aveva mandata direttamente in ufficio a parlare con loro?

    L’ispettore annuì, intenzionato a non abdicare dalla propria professionale dignità.

    «Sì, io sono Lojacono e il mio collega è l’agente scelto Aragona. Con chi abbiamo l’onore di…»

    La donna annuì brusca, prese una sedia e si sedette dopo aver lanciato una brevissima, disgustata occhiata ad Aragona che interpretò la stessa come una profferta sessuale, sorridendo lascivo.

    «Allora, non perdiamo tempo. Io sono Settembre, e vi devo chiedere di…»

    Aragona, producendosi in quella che riteneva la perfetta imitazione di Brad Pitt, disse spiritoso: «Veramente tu sei Aprile, bambina, vuoi perché siamo in questo mese, vuoi perché hai portato la primavera. Aprile, non Settembre. Al massimo Maggio, va’. Anche se per il calore che sento da quando ti ho vista, potresti essere anche Agosto».

    La donna lo fissò, momentaneamente incuriosita; poi chiese a Lojacono: «Ma esattamente, di che sindrome soffre? Perché i deficienti conclamati quasi mai riescono a dire fesserie così lunghe».

    Lojacono sospirò: «Lasci perdere, la prego. Parli con me, non so nemmeno perché Giorgio… Va be’, andiamo avanti. Lei, diceva, è…?»

    La donna chiuse un attimo gli occhi, come a cercare risorse di pazienza al di là del suo potere, e ripeté lentamente: «Allora: io sono la dottoressa Gelsomina Settembre, assistente sociale presso il consultorio Quartieri Spagnoli Ovest. Sono amica di Giorgio Pisanelli che, senza offesa, è l’unico poliziotto umano che io abbia mai conosciuto. Lui mi ha convinta che posso parlare con voi, e io gliel’ho concesso. Per cui…»

    Aragona intervenne, sputacchiando residui alimentari un po’ ovunque: «Oh, senti, bella, non è che adesso un bel faccino ti autorizza a insultare, eh. Nessuno più di me è affezionato al dinosauro, che è pure una brava persona anche se è rimbambito, ma certo noi non…»

    La dottoressa si voltò lentamente a fissarlo, riducendolo al silenzio. Disse, compitando come se parlasse a qualcuno non in grado di comprendere l’italiano: «Ho detto che io abbia mai conosciuto, agente. Concetto non difficile, io non vi conosco. Giorgio parla bene di voi due, e io gli credo. Almeno, gli credevo prima che lei aprisse bocca. Ma a ben vedere, forse ha ragione lei: si dev’essere rimbambito».

    Lojacono cercò di ridurre la tensione: «Mi scusi, dottoressa. Facciamo che ci fidiamo tutti di Pisanelli, e che quindi riusciamo a parlare, vuole? Ci dica, che possiamo fare per lei? Gelsomina, giusto? Io mi chiamo Giuseppe».

    La donna parve scongelarsi un po’.

    «Mina. Mi chiami Mina, così mi chiamano tutti. Io avevo la necessità di… Insomma, nell’area di competenza del consultorio abita molta gente, come sapete. È un quartiere popolare, si mischiano etnie, ceti sociali, famiglie con diverse scolarizzazioni. C’è di tutto. E a volte, sulla mia scrivania, arrivano notizie di situazioni un po’

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