Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il giorno perfetto per un delitto
Il giorno perfetto per un delitto
Il giorno perfetto per un delitto
E-book463 pagine6 ore

Il giorno perfetto per un delitto

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Un thriller che ti tiene sospeso fino all'ultima pagina

Le indagini del commissario Diana

Quando la violinista Ines Salis viene raggiunta da un proiettile in pieno viso, nessuno sa spiegarsi cosa ci facesse in quella strada deserta di Alarcò, nella costa sud della Sardegna. Il caso va risolto in fretta, perché la fama della località turistica è minata da alcuni eventi accaduti nelle ultime settimane. Tra questi, l’arresto per traffico di cocaina di Oscar Berti, la cui innocenza Ines stava cercando di dimostrare, e l’omicidio di un notabile del paese. Sulle vicende indaga la squadra del commissario Diana e, senza spostarsi da Torino, anche l’annoiato commissario Rossini, che tenta ufficiosamente di capire se il ragazzo, che era stato suo consulente, non sia stato vittima di ritorsioni per un vecchio caso. Quando si tratta di traffici illeciti, infatti, i muri crollano e le distanze si accorciano, comprese quelle tra Sardegna e Piemonte. Ma sono davvero la droga e l’arresto di Oscar Berti le cause del destino di Ines Salis?

Dall’autrice del bestseller Un posto tranquillo per un delitto

Non basta sapere cosa vuole nascondere di sé una persona. È fondamentale capire da chi la nasconde

Hanno scritto del suo romanzo precedente:

«È un thriller che sta nei confini del genere ma che sfiora al tempo stesso il racconto di cronaca, si avvita nell’inchiesta impegnata e accenna al romanzo corale, prima di arrivare alla soluzione. L’autrice dimostra una buona gestione dei tempi narrativi. Ci si appassiona in fretta alla vicenda e ancora più in fretta ai personaggi.»
Corriere della Sera
Barbara Sessini
È nata a Iglesias nel 1978. Si è laureata in filosofia a Cagliari e da oltre dieci anni vive a Torino. È giornalista professionista e ha collaborato con diverse testate. Attualmente si occupa di fisco e diritto per un quotidiano specializzato nell’informazione giuridico-economica. Dopo Un posto tranquillo per un delitto, torna a pubblicare con la Newton Compton con Il giorno perfetto per un delitto.
LinguaItaliano
Data di uscita17 set 2018
ISBN9788822724021
Il giorno perfetto per un delitto

Correlato a Il giorno perfetto per un delitto

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Thriller per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Il giorno perfetto per un delitto

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il giorno perfetto per un delitto - Barbara Sessini

    Uno

    Per capire chi ha esploso quell’unico colpo di pistola contro Ines, Vera deve innanzitutto circoscrivere i fatti che possono aver determinato la sorte dell’amica.

    La prima cosa che include è accaduta il 1˚ luglio 2006 ed è poco più che un dettaglio.

    Ines sfrega le sottili suole in cuoio dei sandali sullo zerbino all’ingresso dello studio del suo manager a Cagliari. Il gesto è banale, non fosse che la violinista da quell’ufficio sta uscendo. Non è l’atto di cortesia di una che arriva, ma il gesto di disprezzo di chi se ne va definitivamente.

    «Tutto bene?», le chiede Vera, che la attende seduta sui gradini delle scale del palazzo. Ines è più pallida del solito, i ricci castano chiaro le ricadono sulle spalle tutti scompigliati, pare abbia scrollato la testa all’impazzata. La violinista non li ha mai avuti così lunghi. Vera, invece, li ha tagliati da poco molto corti. Istintivamente porta la mano alla nuca libera. Lei non ha più di questi problemi.

    «Ora va tutto bene. Possiamo andare all’aeroporto», risponde la violinista.

    Proprio lì succede la seconda cosa che delimita il terreno su cui si muoverà Ines nei giorni a venire, ed è, invece, un evento che appare più rilevante. Dopo un breve viaggio in macchina, le due amiche raggiungono l’area Arrivi e attendono che il fidanzato di Vera ritiri il suo bagaglio. Solo che Oscar non esce.

    Mentre le porte a scorrimento si spalancano dapprima raramente, poi sempre più spesso fino a diradarsi di nuovo, le due chiacchierano del più e del meno.

    Ines ad Alarcò conosce tutti, pettegolezzi compresi. Anzi, soprattutto pettegolezzi, visto che ha viaggiato molto ma non si è mai trasferita definitivamente e sua madre ha un bar nella piazza della cattedrale. Vera invece è andata via dalla Sardegna a undici anni, ora vive a Londra con Oscar ma torna tutte le estati con i genitori per la festa di San Bonaventura.

    Ci vuole un po’ perché si accorgano che è strano che il fidanzato di Vera ancora non esca, dato che il suo volo è atterrato da mezz’ora.

    «Ci saranno i soliti problemi coi bagagli», osserva Ines alzando le spalle.

    Oscar Berti, in effetti, ha un problema col bagaglio. Se ne accorge dopo aver stretto la mano in segno di commiato all’anziano spagnolo con cui ha chiacchierato per tutto il lungo viaggio che dal Senegal lo ha portato per la prima volta in Sardegna.

    «Arrivederci, signor Llavall».

    «Arrivederci, Oscar, grazie di tutto. Mi raccomando: vienimi a trovare al ristorante con la tua fidanzata», risponde lo spagnolo, pronto a dirigersi verso l’uscita col suo trolley, zoppicando con la gamba sinistra.

    «Ci recheremo da voi sicuramente».

    Nonostante sia francese, Oscar capisce molto bene l’italiano e si esprime in maniera corretta, pur utilizzando talvolta termini ormai desueti perché appresi da vecchi giornali degli anni Trenta, donatigli da suo nonno.

    Dopo essersi congedato dal suo compagno di viaggio, va a ritirare il bagaglio imbarcato. Quando lo preleva, però, scopre che non ha più il lucchetto.

    «Merde!», mormora tra se e sé. Teme che gli abbiano rubato qualcosa. Allora si guarda intorno e decide di chiedere aiuto ai tre finanzieri che si stanno avvicinando al nastro bagagli col loro cane.

    Prova a spiegare perché ha bisogno di aiuto, ma gli chiedono subito i documenti. Non bada affatto al labrador che ha puntato il suo bagaglio. Non si agita neppure al momento della perquisizione della valigia.

    Le cose cambiano quando rovistando tra i suoi indumenti trovano un panetto di cocaina da un chilo. Inizia a sbattere le palpebre in continuazione, un vero e proprio tic. Ripete numerose volte che dal suo bagaglio mancano alcuni presenti – statuette in legno, stoffe – che aveva messo per ultimi in valigia, mentre fruga nervosamente tra i suoi abiti, ormai un disordinato mucchietto di stracci sopra il tavolo.

    «Presto giuramento che non sono a conoscenza di niente. Mi sono addirittura recato innanzi a voi per primo. Avrei compiuto questo gesto se avessi avuto qualcosa da occultare?».

    Non oppone resistenza quando gli dicono che è in arresto. Oscar, in quel momento, è incredulo più che adirato. Il senso di irrealtà lo porta a pensare che la sua vicenda si risolverà presto, magari il giorno stesso, al massimo dopo il colloquio di garanzia. Non potrebbe essere altrimenti. Man mano che però al solare aeroporto pieno di finestroni si sostituisce l’angusto cellulare con le grate, man mano che vede per la prima volta quella tavolozza di colori che è Cagliari attraverso gli interstizi, realizza che è davvero lui quello ammanettato, è davvero un carcere quello in cui sta entrando. Allo stupore si sostituisce l’allerta.

    Durante l’iter per l’assegnazione della cella si guarda attorno coi suoi grandi occhi affilati e afferra qualche segnale: la perplessità di uno degli agenti della guardia di finanza, il parlottare di due guardie carcerarie che lo indicano col mento. Uno, che è giovane, alto e ha i capelli scuri, lo definisce il negro dell’aeroporto. L’altro, un po’ più basso e tarchiato, sulla cinquantina e quasi calvo, obietta che però è francese, come se le due caratteristiche fossero in opposizione. Il quasi calvo attira la sua attenzione anche per un altro aspetto, un movimento ripetitivo. Schiocca in continuazione le dita della mano sinistra. Sicuramente non è mancino perché non riesce a farlo bene, il suono sordo non gli riesce. Oscar non è molto fisionomista, quindi si attacca ad altri dettagli che non siano il viso per memorizzare le persone. Del primo, quello che lo ha chiamato negro, si segna mentalmente la voce roca, del secondo questo gesto insolito.

    Tra le cose che più gli costano, del suo ingresso in carcere, c’è il dover consegnare l’orologio del nonno. L’ha sempre indossato, anche se si ferma praticamente due volte alla settimana e bisogna dargli la carica. «Mi duole separarmene, è un ricordo, mi è molto caro» ha raccomandato alla guardia una volta sfilato dal polso. Sa che per i primi tempi in carcere non si può tenere. E poi ha subìto la perquisizione corporale. Mani e occhi estranei hanno ridisegnato i confini anche più intimi del suo corpo. E così, quando fa il suo ingresso nella cella, si sente un po’ un’altra persona.

    Forse ha inciso anche il fatto che ha dovuto togliere la cintura e così quei jeans gli vanno un po’ larghi, forse è per le scarpe da ginnastica a cui ha dovuto levare i lacci che rischiano di sfuggirgli via a ogni passo. Non è più nei suoi panni. Con quella sensazione ha sfilato davanti alle celle degli altri, qualcuno non si è neanche voltato.

    Oscar ha subito la netta sensazione che due detenuti lo aspettino, così come le due guardie che ha visto parlottare. Anzi, gli pare che aspettino lui ma non proprio lui. Attesa e sconcerto sono le due reazioni che accompagnano i suoi passi. Siccome non ha carta e penna per fissare gli appunti, si ripete questa osservazione come una cantilena nella testa.

    A poche ore dall’ingresso di Oscar al carcere del Buoncammino, Vera sa a malapena che lo hanno arrestato. Nessuno l’ha cercata, in aeroporto. Forse Oscar ha evitato di tirarla in ballo, oppure i finanzieri sono venuti a sapere che suo padre è Franco Diana e si sono fatti qualche scrupolo nei confronti della figlia di un commissario di polizia in pensione. Sta di fatto che Vera riceve la notizia ufficiale proprio da una telefonata di suo padre. Oscar ha deciso di indirizzare a lui l’unica comunicazione che poteva fare, dandogli anche l’incarico di nominare un avvocato. Evitando di delegare lei, le aveva dato un segnale: starne fuori.

    E Vera promette, anche a suo padre, di starne fuori, ma aggiunge il più possibile. «Io non starò a prendere il sole in spiaggia mentre lui è dentro, babbo», dice a Franco Diana una volta rientrata dall’aeroporto.

    Si siede sul vecchio divano della casa dei nonni e ci sprofonda. Nonostante lei e sua madre l’avessero pulita da cima a fondo, il giorno prima, appena arrivate dal Piemonte, c’è ancora l’odore della polvere di un anno. Sfila via i sandali e rimane scalza, poggiando le punte sul vecchio e fresco pavimento in coccio. Le si sono formati dei segni viola sui piedi perché si sono gonfiati e le cinghie si sono fatte strette. Ma cosa posso fare, pensa poi, se sono già esausta?.

    Suo padre le dà il compito di portare in carcere una sacca con gli abiti per Oscar, ma prima ancora lei e Ines – che non è voluta andare a casa e sembra quasi divertita dall’inedita situazione – dovranno dirgli se all’aeroporto hanno visto qualcosa di strano, anche solo un dettaglio stonato.

    «Io un dettaglio stonato ce l’ho», dice inaspettatamente la violinista, schiarendosi la voce. «Una tizia: era in abito da sera nonostante fosse ora di pranzo».

    Franco Diana attende che Ines si spieghi, ma Ines ha già finito.

    «E quindi?», la esorta Vera.

    «E quindi tuo padre ha parlato di dettagli, Vera. Non c’entra niente ma una tizia così fuori luogo è un dettaglio, punto». Mette su il broncio e incrocia le braccia sul petto.

    «Vera, tu te la ricordi questa donna di cui parla Ines?», chiede diplomatico Franco Diana.

    Sì, se la ricorda anche Vera, del resto era difficile non notarla: abito corto nero in raso lucido, tacchi a spillo e una enorme valigia griffata al seguito.

    E poi c’era qualcosa di disarmonico in lei. Aveva un ovale perfetto e capelli ricci corti, lineamenti morbidi, zigomi poco marcati e sopracciglia sottili. Il viso era delicato, insomma, il trucco invece duro e ardito: nero negli occhi e rosso acceso sulle guance, sulle labbra e sulle unghie di mani e piedi. Potenzialmente anonima, sembrava fare di tutto per attirare l’attenzione, anche nei movimenti. Quando si è chinata sulla sua grande valigia per afferrare qualcosa, l’orlo del vestito ha scoperto ancora di più le gambe muscolose, da atleta. Due giovani hanno fischiato, ammiccando tra loro. La sconosciuta si è voltata verso i suoi ammiratori e ha sorriso compiaciuta. Poi si è raddrizzata ed è uscita. Non c’era nessuna esitazione nella sua camminata, né qualcuno ad attenderla.

    «Va bene, teniamola a mente, non si sa mai. Grazie, Ines», dice il commissario, sminando con esperienza il primo capriccio dell’artista. «Vera, tu invece?».

    «Allora. Oscar, durante il suo scalo a Roma, mi ha raccontato che a Dakar ha notato un uomo che zoppicava vistosamente e sembrava non tanto pratico di viaggi in aereo. Lo sai com’è lui, si è offerto subito di dargli una mano. Ha scoperto così che è spagnolo e lavora in un ristorante che hanno aperto nel vecchio albergo sul mare a San Bonaventura», gli racconta Vera. «Hanno fatto tutto il viaggio assieme. Una volta atterrati a Cagliari, questa persona che si chiama… com’è che si chiama, Ines?»

    «Jorge Llavall».

    «Aspetta, Vera! Ines, tu lo conosci?», interviene subito il commissario Diana.

    «Come conosco mezza Alarcò, commissario. Va a fare colazione al bar di mamma tutte le mattine alle sette e mezza. L’ho visto lì, mi ha anche salutato all’aeroporto. Non so dirle molto di più, solo che è logorroico e sta sempre in giro».

    «Va bene. Continua, Vera», fa Franco Diana.

    «Questo Jorge Llavall, insomma, atterrati a Cagliari ha chiesto a Oscar un ultimo favore: accompagnarlo in bagno e tenergli il bagaglio a mano. Dai messaggi che mi ha mandato posso dire che Oscar è rimasto vicino ai bagni, lontano dalla sua valigia, per dodici minuti. Potrebbe essere successo qualcosa, nel frattempo?».

    Franco Diana è perplesso. In quei dodici minuti il bagaglio era sotto gli occhi di tutti i viaggiatori che aspettavano il proprio, nessuno l’avrebbe forzato per metterci dentro la cocaina. E poi in bagno poteva esserci la fila. «È comunque il caso che io vada a fare quattro chiacchiere con quest’uomo», conclude. «Visto che ha viaggiato con Oscar può aver notato comunque qualcosa che ci può essere utile».

    «Vengo anch’io», afferma Vera.

    «Non se ne parla: niente avventure. Ne va della libertà di Oscar. Ascolta, osserva, pensa e dimmi cosa ti salta in mente, ma fermati lì. A tutto il resto ci penserò io. Tu e tua madre porterete una borsa a Oscar, ho già detto a lei tutto quello che può essergli utile. E ora vai ad accogliere gli altri, staranno arrivando ormai».

    Gli altri!, pensa Vera. Di loro si è completamente dimenticata.

    Tra la fine della sua vita in Sardegna e l’inizio degli anni londinesi Vera ha abitato con i suoi in Piemonte e lì ha mantenuto uno zoccolo duro di amici che stavano raggiungendo lei e Oscar per trascorrere le vacanze assieme. Erano partiti la sera prima dal porto di Genova per Olbia e in quel momento sono in macchina, diretti verso una casa presa in affitto nella frazione sul mare di Alarcò, chiamata San Bonaventura. Non sanno ancora niente dell’arresto di Oscar.

    Al volante c’è Ada Ponsat. Negli ultimi tempi ha preso di petto la sua fobia per le auto e si è offerta di guidare lei per tutto il viaggio. Sembra quasi a suo agio per quelle strade che aveva percorso da passeggera solo un’altra volta, nell’estate del 1991. Ogni tanto condivide coi suoi compagni di viaggio ricordi o spiegazioni sui luoghi che ha già visitato, comportandosi a tratti come se fosse ancora al lavoro, in aula a fare lezione ai suoi studenti. Solo chi la conosce bene potrebbe notare i segni della sua tensione, la piccola ruga all’angolo sinistro della bocca e le dita avvinghiate al volante.

    E Diego Meini la conosce molto bene. Tutto impettito nei panni del fidanzato ufficiale, le chiede premuroso se non sia stanca e non voglia lasciar guidare un po’ anche lui. Lei scuote i ricci castani ostentando sicurezza, lui riprende a lamentarsi della sua cervicale. Il giornalista ha preso malissimo il giro di boa dei quarantuno anni e non fa altro che tenere il conto di quelli che ritiene essere i segni lampanti della sua decadenza fisica.

    Luca Ponte, invece, abbandonato mollemente sul sedile posteriore è silenzioso da quando è iniziato il viaggio. L’attore non è dell’umore giusto. Aveva altri programmi per quell’estate, ma è stato scaricato da una donna per l’ennesima volta e si è unito all’ultimo momento. Ha aperto bocca solo per domandarsi quale fosse, in lui, il problema, visto che le sue relazioni non erano mai più lunghe di sei mesi, quando andava bene. Questa volta era andata proprio male.

    Ada dice a Diego di mandare un messaggio a Vera per dire che in una decina di minuti sarebbero arrivati a destinazione e indica il cartello del bivio: a destra Alarcò, a sinistra la frazione di San Bonaventura.

    «E io che stavo per chiederti se non avessimo sbagliato strada. Sembra che stiamo andando in montagna invece che al mare» dice Diego sospettoso.

    «Non si vede neanche il sole», concorda Luca, riscuotendosi e guardando il panorama.

    Ada conosce già quella sensazione. «Gli alarchesi dicono sempre che andare al mare, qui, è un atto di fede. Non c’è niente che faccia pensare alla costa, la luce neanche arriva in questo imbuto di valle. Se ci credi, però, sei premiato. Il sole e il mare arrivano da te di colpo, proprio come un miracolo», dice infilando la galleria. Appena tre minuti dopo, all’uscita, il golfo si apre a perdita d’occhio ammutolendoli.

    «Ecco perché questo posto ha il nome di un santo», conclude Ada cercando tra i nomi delle piccole vie quello della casa affittata.

    Prima ancora di trovarlo, il trio in macchina scorge Franco Diana davanti ai cancelli di un’enorme struttura con l’insegna Ristorante spagnolo. Vera, invece, è poco distante, appoggiata al muro di cinta della villetta che hanno affittato. È pallida e non si accorge della loro presenza finché non le parcheggiano davanti al naso. Vera sta pensando. A suo padre hanno negato l’ingresso al ristorante e lui è lì che insiste, aspetta ancora. Lei, invece, cerca di fare mente locale sulle parole di Oscar e si chiede perché, se questo Jorge Llavall non ha davvero niente da nascondere, non vuole parlare con loro. In quel momento, invece, non nutre alcun timore per la sorte di Ines Salis.

    Due

    Il giorno dopo la festa di San Bonaventura anche Maria Cortes vorrebbe saperne di più su Jorge Llavall. Le piacerebbe capire se ha qualcosa da nascondere e se ha qualcosa a che fare con quello che è successo a Ines Salis. In caso di risposta negativa, vorrebbe solo che tornasse. Il suo alloggio al ristorante spagnolo è rimasto vuoto, stanotte, e a ventiquattr’ore di distanza è ancora irreperibile.

    Spegne la televisione, da lì non avrà notizie utili in merito. È meglio concentrarsi e ripercorrere le tappe a partire dal primo giorno in cui Jorge Llavall le ha nominato Ines Salis.

    Succede al piano superiore del ristorante, nell’ufficio dell’amministrazione, durante la riunione pomeridiana del primo giorno di luglio. Il caldo innocente del mese prima è già diventato feroce.

    Maria è affacciata alla finestra. Osserva il sessantenne che al cancello attende senza speranza alcuna che lo facciano entrare. Ha braccia e gambe toniche, capelli radi e occhi ben aperti. Si è presentato solo come Franco Diana e ha detto che ha bisogno di parlare con Jorge Llavall.

    Jorge ha fatto dire che era già entrato in servizio e non poteva allontanarsi e in effetti ha indossato la divisa da guardia giurata e infilato la pistola nella fondina. È seduto ma tiene distesa la gamba sinistra, dolorante. Sa che, da quando è invalido, è pagato soprattutto per procurare informazioni. Così a un cenno dell’amministratore, Vicente Gomez, inizia a raccontare cosa sa del corriere della droga appena arrestato.

    Jorge Llavall racconta che Oscar Berti è arrivato all’aeroporto di Dakar con largo anticipo, maglietta di un gruppo francese non troppo noto, jeans e scarpe da tennis. Era accompagnato da alcuni parenti che però lo hanno salutato e sono ripartiti subito.

    È stato il ragazzo ad attaccare bottone, a chiedergli se avesse bisogno di aiuto. Oscar Berti viaggia molto tra Parigi, dove è nato, e Londra, dove lavora come ricercatore di chimica. Quella era la prima volta che andava in Senegal. Sua madre è originaria di Dakar, sono andati a trovare dei parenti con cui hanno recuperato da poco i rapporti. Lui poi li ha lasciati prima, per trascorrere il resto delle vacanze con la fidanzata, una ragazza italiana che lavora come lui a Londra e che è originaria di Alarcò. Quest’ultima e i suoi genitori, che invece risiedono in Piemonte, vengono tutti gli anni per la festa di San Bonaventura ma per il resto dell’anno non mettono più piede nell’isola.

    «Credo di aver identificato questa fidanzata all’aeroporto», specifica Jorge, «una ragazza che dimostra più anni di Oscar Berti, alta e in carne, con un gran naso. Assieme a lei c’era Ines Salis, la figlia della titolare del bar nella piazza della cattedrale».

    Vicente tamburella con le dita sulla scrivania.

    «Questo è tutto quello che sei riuscito a sapere?», domanda brusco.

    Jorge Llavall curva la schiena e piega e ridistende la gamba sinistra, spia del malessere. Fa di sì con la testa. Il ragazzo era gentile, ma effettivamente non si sbottonava molto.

    Vicente ferma le dita, si appoggia allo schienale della poltrona e incrocia le braccia al petto.

    «Allora ci troviamo forse di fronte a una persona molto riservata, oppure molto furba, mio caro Jorge. A partire dalle prime informazioni sull’arresto diffuse dalle televisioni locali ho fatto un po’ di ricerche su internet», gli spiega Vicente, «e dire che è un ricercatore di chimica è un po’ riduttivo. Lavora in un centro europeo contro il traffico internazionale di rifiuti, alle dipendenze più della polizia che dell’università. La selezione è stata durissima, hanno preso solo quelli che oltre a essere bravi chimici avevano anche un’attitudine all’investigazione, capacità di reggere stress e situazioni di pericolo. Per curiosità ho sbirciato la graduatoria. Sai chi è arrivata prima? La fidanzata. Lui è arrivato terzo, su tremila domande. Dunque lui e la sua ragazza conoscono molto bene come indaga la polizia, sono addestrati, sanno persino sparare. E, cosa ancora più interessante, hanno uno sbirro in famiglia», conclude, indicando la finestra alla quale Maria è affacciata.

    Jorge si maltratta il pollice destro con la mano sinistra. Lo storce in continuazione.

    «Franco Diana, l’uomo che ha chiesto di te», dice Maria voltandosi verso Jorge, «è il padre della fidanzata del ragazzo che hanno arrestato. È un commissario di polizia in pensione e se è qui è perché questo Oscar Berti deve aver raccontato di te alla sua donna prima che lo arrestassero».

    Maria schiocca le nocche delle dita, poi distende a uno a uno pollice, indice e medio mentre elenca le sue tre ipotesi: «Possiamo immaginare che ti voglia chiedere se hai visto qualcosa; che ti ritenga coinvolto; che voglia scaricare la colpa su un altro, che potresti essere tu. Finché non sappiamo cosa vuole davvero, evitiamo tutti i contatti».

    Maria indossa ancora l’abito corto in raso nero. Ne liscia la superficie con le mani, le piace quella sensazione morbida al tatto, e facendo così mette ancora più in evidenza la solidità delle sue gambe, il suo punto di forza visto che madre natura l’ha dotata di un seno eternamente acerbo e di una vita e fianchi che fanno un tutt’uno. Se Jorge Llavall rimane freddo davanti alla sua civetteria, Vicente invece è fin troppo sensibile. Non si è mai curato dei difetti di lei mentre è un grande estimatore dei suoi pregi.

    «Ho detto in reception di non accettare prenotazioni a nome Diana», prosegue Maria, «per loro non abbiamo posto. Per quanto riguarda, invece, cognomi di persone che non sono mai venute al ristorante e non conosciamo, saranno messe in lista d’attesa con un recapito telefonico da richiamare una volta confermata la disponibilità, ovvero una volta capito se hanno a che fare con l’arresto di oggi. Bisogna quindi sapere chi frequentano i Diana ad Alarcò. Raccogliamo informazioni. È l’unica cosa, per ora, che possiamo fare. Ah, dimenticavo. Se la ragazza di Oscar Berti è davvero l’amica di Ines Salis, cambia bar per il tuo caffè mattutino».

    «Naturalmente, señorita».

    Dopo aver congedato Jorge, Maria rimane con Vicente a concordare i dettagli delle successive serate del ristorante spagnolo. Hanno personalità di rilievo, persone con caratteristiche, profili e gusti molto differenti tra loro e non si possono permettere un solo errore. Quando Vicente viene colto da un forte attacco di tosse, Maria si impone e gli dice che è meglio che lei continui da sola.

    «Forse sì. Vado a riposare un po’», dice lui, «potremmo riprendere stasera».

    No, non riprenderanno stasera, Maria lo sa. È un pensiero semplice, senza colpa, quanto pesante. Allora decide di rilassarsi, prima di affrontare il resto del lavoro. Entra nella cucina del ristorante, esce sul retro e si dirige verso le scalette che portano giù fino alla spiaggia privata.

    Cioè, non è esattamente privata, ma per conformazione della costa che in quel punto si fa piena di scogli la si può raggiungere solo o a nuoto o dalle cucine del ristorante. I comuni bagnanti non si scomodano così tanto per appena due metri di arenile bianchissimo, quando il lungomare là a fianco è di otto chilometri. A disincentivarli, poi, ci sono le guardie giurate. All’interno di una cavità naturale che lì si affaccia, infatti, gli spagnoli hanno ricavato una cantina che contiene un consistente numero di bottiglie da non meno di 700 euro l’una al fornitore, figuriamoci a tavola: un patrimonio che va protetto e che importano direttamente dalla madrepatria.

    Arriva fino in fondo alla grotta. Lì c’è una porticciola sgangherata, con un chiavistello in legno. La apre e le si spalanca un mondo viscerale.

    Sono stati fortunati quando hanno scelto di aprire il ristorante in Sardegna.

    Innanzitutto, hanno trovato una struttura molto grande, che ha dato loro la possibilità di adibire il pianterreno al ristorante e il piano superiore agli alloggi per tutto il personale, proveniente dalla Spagna, senza la necessità che i dipendenti abitassero a San Bonaventura o Alarcò. Così possono tenere tutti sotto controllo.

    Poi l’hanno pagata poco: era stata abusiva, l’autorità giudiziaria ci aveva messo i sigilli, e non era mai stata utilizzata. Quando era arrivato il condono versava in cattivo stato e gli eredi del vecchio proprietario non avevano i soldi per ristrutturarla. Far scendere ancora il prezzo è stato facile.

    Infine, ampliando quella cavità naturale – senza chiedere autorizzazione alcuna, avrebbero dato la colpa al vecchio proprietario morto – sono sbucati in una galleria.

    Perché l’oro di quella zona un tempo pesava come il piombo, brillava come l’argento e si ossidava come lo zinco. Sotto i promontori che circondano Alarcò, e in tutta la zona, scorrevano le gallerie di estrazione e trasporto del materiale. E ora erano rami secchi, vene prosciugate dove non scorreva più il sangue dell’attività estrattiva. C’erano ancora le strette traversine dei binari dei carrelli per il trasporto del materiale. Avevano pensato a un proficuo utilizzo di quella galleria: una piccola stazione di tiro. Se quel ventre di terra aveva retto il tritolo non avrebbe battuto ciglio per due colpi di pistola.

    Maria mette le cuffie per riparare le orecchie dal suono dei proiettili esplosi. Prende un’arma e inizia ad allenarsi. Ha sempre avuto una buona mira, l’addestramento è stato veloce. Una cosa, però, è allenarsi in un poligono improvvisato, un’altra è sentire alle spalle il nemico, come le era successo nel 2004, quando nel tentativo di rapirla avevano rischiato di ucciderla. A Maria era capitato altre due volte, prima di quella, di trovarsi in difficoltà, ma se l’era cavata egregiamente anche senza pistola. La terza… la terza se non ci fosse stato Jorge sarebbe morta.

    In quell’occasione aveva scoperto un suo limite. Non che pensasse di non averne, anzi, avrebbe potuto elencarli a uno a uno, passarci sopra le parole come aveva fatto prima con la mano sulle sue gambe. Non aveva però ancora compreso quanto fossero mobili. Aveva sbagliato anche nel campo in cui era più ferrata: farsi rispettare.

    Da quel giorno, lei a Jorge doveva la vita. Jorge invece doveva a Maria la sua gamba zoppa, che il proiettile destinato a lei aveva lesionato irrimediabilmente.

    Maria gli aveva assicurato i migliori medici. Quando l’avevano operato, in una clinica di lusso che mai si sarebbe potuto permettere col suo stipendio, aveva atteso in ospedale il suo risveglio. Durante le ore passate in quella stanza bianca con l’uomo ancora incosciente per l’anestesia, lei, annoiata, aveva preso a contare le rughe sul volto contratto per il dolore. Si era proprio avvicinata e le aveva sfiorate con i polpastrelli, districandole l’una dall’altra, contandole più volte per esserne sicura. Aveva dedotto che ne aveva cinquantanove, una per ogni anno di vita. Ora si chiede se la sessantunesima sia già spuntata, da qualche parte.

    Continua ad allenarsi. Mette un colpo a segno nel penultimo anello, gli altri tutti in quello centrale. Un risultato ottimo e una frustrazione che trabocca in lacrime. Ripone la pistola e si asciuga gli occhi col dorso della mano.

    In quel momento, Jorge Llavall è l’ultimo dei suoi problemi, anzi, non è nemmeno un problema. Maria ha invece un nemico numero uno. Sa dov’è con precisione millimetrica, lo vede crescere, giorno per giorno, aggirarsi libero, condizionare la sua vita. Potrebbe addirittura appoggiare nel suo punto più vitale la canna della pistola, non sbaglierebbe mai mira. Eppure il suo nemico numero uno agisce da anni impunito e indisturbato e lei non può fare niente. Non può sparare.

    A quanto pare non c’è arma che possa uccidere il cancro che si sta portando via Vicente.

    Tre

    Un nemico dal volto sconosciuto e una pistola: Vera, il giorno dopo l’arresto di Oscar, non si stupisce di aver sognato la versione armata del suo vecchio incubo ricorrente. Quando era adolescente, si rigirava spesso nel letto con lo spettro di un ragazzo che la rincorreva e la afferrava, ma il volto di lui era ben nitido perché era un evento che aveva davvero vissuto. Quando, dopo anni, ha dato inaspettatamente un nome e un cognome al suo inseguitore, quel brutto sogno si è dissolto. Ora ne fa uno molto simile, con lineamenti confusi e con la novità della pistola, che le è familiare perché è l’arma d’ordinanza di suo padre. Ci ha messo di più a capire che il volto irriconoscibile appartiene a lei. Se l’antico sogno veniva a ricordarle di stare in guardia, perché nel mondo esistono le ostilità, il nuovo viene ora ad avvertirla che anche lei può mettere il piede in fallo, specie se animata dal rancore. Così quella mattina si alza preparandosi a stare in equilibrio tra paura e rabbia, per non cadere né nell’una né nell’altra. Si lava e si veste silenziosa ed esce di casa alle sette diretta al Bar Salis.

    Il giorno prima né lei né gli amici sono riusciti a prenotare al ristorante. Per i Diana non c’è posto. Luca Ponte, Diego Meini e Ada Ponsat sono stati invece messi in lista d’attesa e richiamati nel giro di mezz’ora: ristorante pieno fino a data da destinarsi, riprovare tra qualche giorno. Può solo sorprenderlo al bar.

    Arriva e si siede sullo sgabello al bancone. La mamma di Ines le prende il viso tra le mani e la bacia sulla fronte.

    «La vorrei anch’io una figlia che si sveglia così presto, la mia è già un miracolo se si alza prima delle dieci. Cosa prendi, Vera?»

    «Un cannolo alla crema. Niente caffè, grazie».

    Controlla l’orologio e sbircia l’ingresso, quando la porta si apre sono le sette e trentacinque. Non è però lo spagnolo, ma Franco Diana e dalla faccia che fa nel vederla è evidente che la pensava ancora a letto.

    «Cosa ci fai qui?», le chiede sedendosi a fianco.

    «Quello che ci fai tu, babbo», risponde, addentando l’ultimo boccone di cannolo e finendo per leccarsi le dita.

    Franco ordina un cappuccino.

    «Avevamo detto che facevo io».

    «Non ce la faccio a star ferma. Fammi fare qualcosa davvero».

    «Avevamo detto che mi avvertivi di tutto».

    «Sapevo che mi avresti proibito di venire!».

    La madre di Ines fa cenno a entrambi di avvicinarsi: «Quando avete finito di litigare, andate qua».

    Dà in mano a Franco Diana un bigliettino: «Una persona vuole parlarvi. Mi raccomando, state solo andando a comprare frutta a chilometro zero».

    Il bigliettino è quello di un’azienda agricola poco distante da Alarcò. Nel retro del cartoncino c’è scritto di chiedere di Michele Ligas. Vera lo conosce di vista, è un venticinquenne alto e ben piazzato, che li accoglie cordialmente e li invita a visitare l’azienda. Quando sono a distanza di sicurezza dai dipendenti, Franco Diana lo affronta di petto.

    «Come mai ha chiesto di vederci?».

    «Ho un’informazione, anche se non so se è davvero collegata a quello che è successo al ragazzo di sua figlia, commissario».

    «Immaginavo, ma non intendevo questo. Intendevo perché ha deciso di fornircela».

    Michele Ligas si mostra turbato dal tono dell’uomo. Probabilmente gli avevano descritto il commissario Diana come uno che non sembra neanche un poliziotto, invece ora si sta comportando proprio da sbirro.

    «Ieri sera sono stato al bar di fronte alla cattedrale e la signora Salis è convinta che voi non avete niente a che fare con questa storia. Io mi fido di lei, mi ha sempre incoraggiato. È stata una delle mie prime acquirenti e mi ha sempre fatto pubblicità. So che è molto legata alla vostra famiglia, volevo ricambiare quello che ha fatto per me».

    «Le fa onore, ma è sicuro che non ci sia nient’altro?».

    Michele è in imbarazzo. Mette le mani in tasca e scuote la testa.

    «Un’altra cosa c’è, ma pensavo di chiedervela a cose risolte. Perché non è pregiudiziale, diciamo».

    «E ce la chieda subito questa cosa!».

    Michele cerca lo sguardo di Vera ma lei prova lo stesso smarrimento.

    «Sempre al bar dicevano che il vostro avvocato è Sergio Marcialis. Be’, lui per la mia ragazza, che studia giurisprudenza, è una specie di mito. Dice sempre che vorrebbe diventare come lui. Vorrebbe fare il praticantato nel suo studio, ma immagina abbia la fila e non sa come fare. Vi avrei chiesto se potevate fargli avere il suo curriculum, tutto qui. Anche di fronte a un no le informazioni ve le darei lo stesso. Se le volete», dice, cominciando a irritarsi.

    Franco Diana ci pensa ancora qualche secondo.

    «Cosa aveva da dirci?», chiede infine, ingentilendo il tono e sorridendo. L’agricoltore si rilassa a sua volta.

    «Vedete, io non so niente di cocaina ma fumo hashish ed è un mese che non ce n’è in giro. Bisogna andare a Cagliari. L’ultima volta che ho chiesto mi hanno detto che temevano una retata. Quando ieri ho sentito alla radio che avevano arrestato una persona diretta ad Alarcò ho pensato che fosse finita l’attesa. Invece niente, non ce n’è e non ce ne sarà ancora per un po’. Non mi hanno dato altre spiegazioni ma sembravano sorpresi».

    «Mi vuole dire da chi compra?» chiede Franco Diana, abbandonando definitivamente il tono severo di prima.

    «Glielo dico, tanto è di dominio pubblico, si tratta di Sergio Cui».

    «Se è di dominio pubblico, perché non è dentro?»

    «Ora è libero da un po’, ma è una cosa ciclica: lo arrestano, sconta un annetto, esce per un paio d’anni, lo ribeccano e lo rimettono dentro. Ogni volta ha con sé poca roba e pochi soldi, per questo se la cava».

    «E a lei non hanno mai proposto di provare la cocaina?»

    «Mai. Che io sappia, non ne vendono».

    Il commissario ci pensa un po’, poi dice che può bastare. Comprano un po’ di frutta, qualche bottiglia di vino e quando si congedano, Franco Diana aggiunge: «Non c’è motivo di aspettare, dica pure alla sua fidanzata di lasciare il curriculum al Bar Salis, vado io a prenderlo. Marcialis è un vecchio amico: non so se mi darà retta, ma le assicuro che almeno lo leggerà».

    La tappa successiva di padre e figlia, quel giorno, è alla casa a San Bonaventura. Appena arrivano, Ada si affanna a offrire bicchieri d’acqua, biscotti e caffè. Luca, poggiati i gomiti sul davanzale della finestra, fuma una sigaretta dopo l’altra, che tiene col pollice e l’indice. Inspira veloce, indugiando quando espira. È la prima volta che Vera lo vede recitare fuori dal palco, nella parte dell’amico preoccupato, ma calmo e padrone di sé. Si tiene lontana da lui e ogni tanto con la mano scaccia il fumo che le viene sotto il naso.

    «Scusa», dice lui quando se ne accorge. Poi esce in veranda e raggiunge di nuovo la finestra. Ora li guarda dall’esterno.

    Diego invece si lamenta. Se i quarantuno anni gli hanno portato la cervicale, non gli hanno tolto il vizio di darsi importanza. Ora il giornalista tiene alti la fronte e il mento e si aggiusta in continuazione gli occhiali sul naso.

    «Con questa montatura sembri un intellettualoide, Diego», lo provoca Vera. «Da quand’è che sei affetto da quella che immagino sia una gravissima cecità?»

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1