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L'ultima fetta: Racconti di vita e buone ricette
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E-book313 pagine3 ore

L'ultima fetta: Racconti di vita e buone ricette

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Info su questo ebook

Dopo un lungo passato di lavoro in azienda, che ha lasciato per inseguire un sogno, Lucia oggi sperimenta quotidianamente quell'idea di felicità che per anni ha pensato di non potersi permettere. In queste 12 storie, corredate di ricette, Lucia racconta di luoghi ed esperienze in cui ha riconosciuto la sua idea di bellezza: proprio la stessa che ritrova nell'amata Borgogna, in punta di forchetta alla tavola di uno chef o della suocera, nelle parole appassionate di un artigiano del vino, tra le pareti della sua cucina, passeggiando tra i boschi di un paese di montagna con la famiglia o anche solo fuori dalla porta di casa. Oggi ciò che la gratifica è poter offrire alle persone la possibilità di considerare il «lato Bello» di mondi o esperienze comuni e non comuni. Finché si può imparare, approfondire, scoprire e meravigliarsi delle cose, si sta celebrando quel gran viaggio che si chiama Vita.
LinguaItaliano
Data di uscita9 dic 2020
ISBN9791220234580
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    Scritto molto bene. Un insieme di emozioni che toccano tutti i sensi con descrizioni ricche e stimolanti.

Anteprima del libro

L'ultima fetta - Lucia Carniel

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Lucia Carniel

L’Ultima Fetta

A mia sorella Laura:lo spirito più altruista e curioso che io conosca.

«Non basta guardare, occorre guardare con occhi che vogliono vedere, che credono in quello che vedono.»

INTRODUZIONE

Sembrava giunto finalmente il momento del congedo, a cui sarebbero seguiti una stretta di mano e un classico «Le faremo sapere nelle prossime settimane» e invece, regolarmente, il cacciatore di teste di turno non resisteva nel rivolgermi la domanda: «Senta, ma mi dica un po’: come si immagina lei da qui a 10 anni?»

Per quanto la ponesse con fare da grande intervistatore, quella domanda che puntava a scovare una qualche mia forma d’ambizione più o meno recondita, per me non era altro che un cliché, esattamente come quella posta qualche minuto prima: «Mi dica quattro suoi pregi e quattro suoi difetti».

Ma se questa domanda riuscivo a liquidarla lanciando in tavola carte di basso valore «forse un po’ troppo precisa–tendo ad annoiarmi–credo fortemente nelle competenze», che io stessa reputavo non sufficienti per delineare chiaramente il mio carattere, non riuscivo a togliermi altrettanto velocemente dall’impaccio con quest’ultima.

Se avessi risposto nell’unico modo che sentivo vero e istintivo, ossia: «Mi dica prima lei: da qui a 10 anni, cosa potreste offrimi di fare?» mi avrebbe considerata una persona ambiziosa oppure solo una sfacciata da far accomodare velocemente alla porta?

Perciò, nel dubbio, mi zittivo e cercavo disinvoltura in quegli scomodi panni da candidata.

Poi, mi sforzavo di immaginare quali parole avrebbero suscitato la soddisfazione dell’intervistatore di turno, che nel frattempo si era pure allungato sul tavolo per non perdersi neppure una virgola della mia risposta.

E mentre cercavo di ricordare il discorso che mi ero preparata per l’immancabile evenienza, mi meravigliavo di come, in ogni simile occasione, quella domanda riuscisse ad alzare il sipario su quello spettacolo a colori chiamato infanzia, a ricordare la prima volta che qualcuno mi aveva invitata a rispondere alla stessa identica domanda.

Avevo 6 anni e non dovevo certo compiacere nessuno, tantomeno la maestra che mi aveva invitata a rappresentare una me fra 10 anni con un disegno. Incurante del giudizio, avevo delineato con minuziosa cura una figura femminile tutta ben agghindata e ingioiellata, con tanto di cappello a tesa larga e barboncino al guinzaglio: proiettavo una me che aveva tutte le caratteristiche di una futura Paris Hilton.

«Che signorina Squinzia!» fu l’osservazione lasciata a penna rossa sul retro del foglio. Fantasia, pura fantasia infantile visto che, in quella Squinzia post–moderna io non mi sono mai trasformata, esattamente come non ho mai vestito panni e ruoli di quelle tante me che nel tempo ho esplorato con grande curiosità.

Il fatto che non fossi per niente in grado di argomentare ciò che sarei voluta diventare da grande era l’unica certezza che avrei potuto condividere con un cacciatore di teste ma che, per ovvie ragioni di pudore, tacevo, così come tacevo l’unica verità che bruciava come una fiamma olimpica nel mio cuore: il sogno di poter fare, non solo da grande, ma ogni giorno della mia vita, qualcosa che avrebbe ampliato le mie conoscenze e le mie competenze, a prescindere dal ruolo lavorativo che avrei ricoperto.

Ma si sa qual è il comune sentire al riguardo: se intorno ai 30 anni non hai le idee chiare su chi sei e cosa sarai, probabilmente non sei la persona su cui un’azienda può puntare.

Perciò, la strada da imboccare per uscire dall’impaccio generato da quella domanda restava sempre e solo una: far tacere la voce del cuore e mettere sul piatto ambiziose prospettive di crescita gerarchica al fine di non deludere le aspettative di chi avevo di fronte.

Ebbene, è andata così per lungo tempo, ma ora che non ho nulla da perdere, caro headhunter, se ha piacere di mettersi comodo, mi prenderei due minuti per darle una risposta che non ha nulla a che fare con la ragione e che, invece, viene dritta dal cuore.

Proprio nel momento in cui dipingevo me stessa in una stilosa squinzia, nutrivo anche un certo interesse per la floricoltura: insomma due strade di bellezza che coltivavo in parallelo e che facevo coesistere indossando gonne in tulle rosa e disponendo margherite su muretti di sassi.

Fu di pochi mesi dopo l’idea di fondare, con l’amica del cuore, il Club della Pantera Rosa, che realizzai impadronendomi del garage di casa sua e facendomi portare una grande scrivania da mio padre. Incisi pure la sigla del Club, sfruttando le – ahimè poche – conoscenze musicali su cui avevano investito i miei genitori sperando che portassi avanti le buone tradizioni di famiglia.

Tra fiori, pantere e chitarre strimpellate, tra urla e pianti, i dieci anni arrivarono velocemente: i miei sabati pomeriggio li passavo in un piccolo salone di parrucchiere a due passi da casa… Ma mica per vezzo, sa? Non speravo di uscirne più bella di com’ero entrata: tutto quello che facevo era starmene seduta in silenzio su una seggiolina con la scopa in mano pronta a balzare giù e ripulire il pavimento dopo l’ennesima sforbiciata.

Non disturbavo, ero ubbidiente e non mi perdevo una sola parola di tutti i discorsi urlati delle signorotte del quartiere con la testa sotto il casco.

Guadagnavo qualche soldino utile a comprarmi un Twister o un Cucciolone, ma non era quello a incentivarmi, mi creda. Ero convinta che sarei diventata una parrucchiera e quale modo migliore per imparare l’arte se non direttamente sul campo?

Poi, sa, presi atto dell’ennesimo fuoco fatuo, perché, in men che non si dica, mi convinsi che a quindici anni sarei stata una promettente stilista: le pareti della cucina si erano trasformate in una galleria personale tappezzata di bozzetti che avrei realizzato nel mio atelier di lì a poco.

Quell’atelier non ebbi neppure il tempo di pensare dove ricrearlo visto che, appena cominciai le medie, presi a frequentare il Teatro Comunale della mia città, spinta da una docente di lettere che era la versione femminile dell’emergente John Keating «Oh Capitano, mio Capitano». Il tutto, devo dire, con immensa felicità dei miei, abbagliati da quell’innamoramento per l’opera lirica che, finalmente, rendeva giustizia al DNA di famiglia.

Ed io ero affascinata per davvero da «Il Barbiere di Siviglia» e da «Il Turco in Italia», ma se l’amore durò più di due anni fu soprattutto merito di quel gran basso che interpretava il Poeta Prosdocimo. Ah, l’adolescenza.

Poi il Poeta partì per la Scala e le medie finirono insieme ai sogni di un futuro da Contralto. Fu a quel punto che venni colta dall’illuminante certezza che avrei dedicato la mia vita a calpestare il palco come attrice al fianco di altisonanti nomi e questo fintanto che non mi azzardai a intraprendere una delle più impervie strade in cui potessi decidere di avventurarmi: diventare una pallavolista. Sfida non da poco, perché io e lo sport c’entriamo come i cavoli a merenda.

Ma non è tutto, ci furono anche anni in cui mi convinsi che sarei stata pittrice, arredatrice di interni e persino una pattinatrice su ghiaccio.

Vede, lo so che forse raccontando tutto questo le ho provocato un accenno di labirintite, ma abbia pazienza, perché non ho ancora finito.

Ora arriva la rivelazione che forse la interesserà di più per inquadrare il soggetto.

Nel momento più importante della mia vita, quando si è trattato di schiacciare il pulsante che avrebbe aperto il portone sulla strada maestra (la chiamano università), sentivo di aver esaurito tutte le opzioni per il mio futuro.

Avevo la cloche in mano ed era sufficiente che la tirassi verso di me per decollare e puntare ad una destinazione precisa, eppure l’idea di scegliere una cosa sola mi straziava.

Un eterno bambino in calzamaglia verde, che si accompagna da decenni ad una saggia fatina con le ali, sostiene che nel momento stesso in cui si dubita di poter volare, si cessa anche di essere in grado di farlo: ed infatti mi ero convinta che lasciar bruciare a pieno regime quella fiaccola olimpica nel cuore fosse un lusso che non potevo più concedermi.

Quindi sa cosa feci? La regolai al minimo per non farla spegnere, poi aprii il grande libro che raggruppava tutte le possibili facoltà universitarie ed eliminai qualsiasi percorso mi sembrasse troppo definito: il timore di studiare ogni giorno le stesse materie m’inquietava. Dall’altra parte, invece, arricchire il mio percorso universitario con materie diverse poteva essere la mia salvezza.

E così scelsi di dedicarmi allo studio della comunicazione, con buona pace mia e di chi aveva fatto del suo meglio per costruirmi una strada solida nel campo dell’istruzione.

Le sembra sufficiente come motivazione per spiegare come mai ho scelto di studiare un po’ di sociologia, un po’ di economia, un po’ di statistica, un po’ di semiotica e via discorrendo?

Li chiamano compromessi e solo adesso mi sento sufficientemente lucida per riconoscerlo.

Detto questo, non vorrei però che lei pensasse che io mi sia pentita.

Oh, no di certo.

Vede, ho trascorso tutti i successivi quindici anni post–laurea lavorando nel mondo della grande azienda, lasciandomi divorare dai dubbi circa chi fossi veramente, circa quello che facevo e cosa volevo diventare, ma questo sarebbe accaduto anche se io avessi scelto legge, architettura o lingue.

Ho consumato gran parte della mia vita cercando di scovare il sentiero giusto, confrontandomi con persone come lei per posti di lavoro che in realtà non mi facevano mai sognare abbastanza, smarrita nei boschi dei doveri, delle sedicenti opportunità da non perdere, sedotta e abbandonata contemporaneamente da progetti diversi e talvolta opposti, trascurando quella voce interiore che mi spronava a perseguire quello che non intuivo ancora mi avrebbe sicuramente resa felice, e che non c’entrava nulla con quello a cui mi dedicavo quotidianamente. Il tutto con una sola speranza: che nel frattempo quel lumino regolato al minimo non si spegnesse.

Ma non vorrei pensasse che io sia l’unica, sa?

Su questa sedia chissà quante donne o uomini si saranno seduti in posizioni altrettanto scomode e che nella sua domanda poi avranno trovato il germe di una riflessione che nel tempo li avrebbe condotti lontano.

Vede, c’è una sorta di retaggio culturale in virtù del quale noi umani non possiamo pretendere di essere appagati e profondamente soddisfatti nel lavoro che facciamo: risulta quasi tracotante e pretenzioso agli occhi altrui.

Auspicare di essere felici, oltre il sabato e la domenica, in quel lasso di tempo che va dalla fine della colazione alla cena, è spesso considerata come una forma di superficialità, di indolenza e insofferenza nei confronti dei propri doveri, anche se in realtà si sta sputando sangue per assolverli.

Un cantautore, che amo molto, sintetizza il senso di questa piaga sociale alla perfezione, nel suo dialetto romano dai toni vividi: «Oh mammà, come se fa, ce dicono de vive da morti, per poi resuscità.». Eppure la vita è adesso e il lavoro assorbe mediamente un terzo delle nostre 24 ore: come si può pensare di viverle con la morte nel cuore?

Per tanto tempo ho lavorato pensando di non fare mai abbastanza o di non essere all’altezza di un’asta che continuava ad essere sollevata, nell’ambito di una realtà che a ritmi lenti costruiva e che, al doppio della velocità, distruggeva quel che aveva appena costruito.

La triste verità è che la serenità e la felicità altrui, più che contagiare, infastidiscono e fanno paura, soprattutto a chi comanda, perché preannunciano un’unione sociale e una condivisione che mal si combinano con quella strategia dispotica e vecchia come il mondo, ma incredibilmente attuale, del Divide et Impera.

Ecco, io ho patito questo atteggiamento per tanto tempo, poi mi sono ammalata: nello spirito e nel corpo.

Vorrei alleggerirmi la coscienza attribuendo la responsabilità di questo ad altri, ma non sarebbe giusto. Il fatto è che mi sono raccontata una grande bugia troppo a lungo, ovvero che le tasche piene possono ampiamente compensare il senso di vuoto e di impoverimento dell’anima generato dalla repressione dei propri bisogni e dei propri desideri.

Sono dovuta arrivare all’alba dei quarant’anni per realizzare che avevo preso un gigantesco abbaglio e ogni tentativo di recuperare il salvabile appariva vano.

Per quanto mi sforzassi di affermare i miei diritti, le mie inclinazioni, le mie velleità, brillava sulla mia pelle il marchio di una generazione a cui è stato inculcato che lamentarsi e alzare la testa è sconveniente.

Da ubbidiente bambina, prima, e donna, poi, non sono mai riuscita a scrollarmi di dosso questo atteggiamento a cui ho peraltro affiancato un’indole galoppina, curiosa e perfezionista: un mix di ingredienti micidiale per la propria salute fisica e mentale, se mal gestito.

Riesce ancora a seguirmi?

Perché ora arrivo al punto,

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