Le 365 migliori ricette della cucina italiana
Di Carlo Cambi
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Le 365 migliori ricette della cucina italiana - Carlo Cambi
283
Prima edizione ebook: maggio 2015
© 2015 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
Fotografie: © Shutterstock
Traduzione dall’italiano di Richard McKenna
ISBN 978-88-541-8347-6
www.newtoncompton.com
Carlo Cambi
Le 365 migliori ricette
della cucina italiana
Stagioni, sapori, ingredienti, emozioni
365 best Italian recipes
Newton Compton editori
Le 365 migliori ricette
della cucina italiana
BREVIARIO DI CUCINA
Se non si ha la pretesa di diventare un cuoco di baldacchino
non credo sia necessario, per riuscire, di nascere con una
cazzaruola in capo, basta la passione, molta attenzione
e l’avvezzarsi precisi: poi scegliete sempre per materia prima
roba della più fine, ché questa vi farà figurare.
Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene
Dacci oggi il nostro pane quotidiano. È la preghiera, il Pater Noster, che mia nonna mi imponeva di recitare tutte le sante mattine perché, diceva lei, «il pane è la preoccupazione degli uomini e non si può vivere senza pane». La sera – dopo Carosello – quando si andava a letto si doveva salmodiare l’Ave Maria. Erano quelle preghierine l’alfa e l’omega di ogni giorno: un’alba di lavoro e di speranza, una notte di richiesta di tutela. Mi rendo conto che forse non erano neppure esercizi di fede, ma in quel piccolo mondo, fatto di ore a scuola in banchi di legno odorosi d’inchiostro e di gesso, di partite a pallone all’oratorio, di un tempo solo di una partita in bianco e nero trasmesso la domenica, di soldatini e di attesa del mare d’estate, quelle preci boreali e vespertine erano di sicuro un paradigma etico. Buon lavoro, buona vita: niente più. In fin dei conti cosa si chiedeva alla celeste protezione? Di avere l’occupazione e il giusto guadagno, di avere una luce di grazia perché la notte fosse meno buia.
Per colonna sensoriale quel piccolo mondo aveva la schiaccia fresca al mattino, croccante, sapida di olio d’oliva in perfetto contrasto con il caffellatte che accompagnava la lettura monotona e attenta a voce alta del giornale («Il Telegrafo») con la tata
che si era appassionata, mi pare, al processo Fenaroli e la nonna che invece si interessava molto delle narrazioni della terza pagina
; e ancora il plop plop del pentolino del ragù che spandeva per tutta casa odori grassi e appetitosi contrappuntato dal 3131 della radio che era ancora la più potente, autorevole e ascoltata guida fattuale. Anche se la televisione era già entrata in casa era per la verità un ospite discreto e una finestra aperta solo qualche ora del giorno, ma soprattutto della sera, sul nostro mondo. Il sabato sera c’era Canzonissima e si poteva guardarla un po’ dopo aver fatto il bagno. Si cenava più tardi il sabato perché c’era da santificare la festa il giorno dopo e almeno per 24 ore l’urgenza del pane poteva esser messa da parte. Per cena c’erano le tagliatelline fatte al momento condite con un po’ di burro e parmigiano o il minestrone e qualche volta il prosciutto che nonno si faceva venire da Langhirano, da assaporare sul pane ancora fresco perché era fatto col grano buono. E pareva un grande progresso avere pane bianco e abbondanza di cibo. La Grande Guerra in fin dei conti non era passata da tanto tempo: se ne parlava poco. Per accenni. C’era un esercizio – credo – d’esorcismo attraverso l’oblio della paura, della fame, della morte. Si volgeva la fronte al sole, si guardava avanti. Lungo l’Aurelia passavano poche automobili, ma già abbastanza camion. Si capiva che la fabbrica Italia
girava sbuffando per inseguire il benessere. E il futuro aveva un senso di speranza. Già: dacci oggi il nostro pane quotidiano. Che era una preoccupata invocazione o forse una precauzione: solo chi cade sa che può risorgere.
Benedicevo quando mi veniva un po’ di raffreddore perché potevo restarmene a casa e aspettare, verso le 10, il fattore che arrivava dalla campagna con un gran cesto. Che era una sorta di calendario aulente: si vedevano i cavoli neri e le patate nei giorni del freddo, poi cominciavano a comparire gli spinacini e la nonna gli dava giù di tortelli; ecco i carciofi (Madonnina santa se erano buoni in frittura! E ci mangiavo tanto pane: a me è sempre piaciuto il pane col fritto e anche il pane fritto) e ancora gli zucchini e i fiori che pastellati erano oro puro per il palato, l’insalata riccia, il soncino e poi i ravanelli e le cipolline fresche. E del pari: prima le mele poi le ciliegie e le albicocche e le pesche, le Castagnetane: dolcissime, e il cocomero e poi di nuovo le pere e ancora le mele. Non mancavano mai le uova frammiste alla paglietta e striate di cacchina, che diventavano tagliatelle, frittate, frittelle. Una delle cene che preferivo era l’uovo alla coque con i bastoncini di pane appena abbrustoliti e un gran piatto di erbe di campo bollite e condite con l’olio buono. E la merenda? Dio benedica il mio buon fattore che portava il salame fresco e collane di salsicce che la nonna ogni tanto concedeva si spalmassero sul pane. Più spesso s’imbandiva pane e olio e sale, oppure pane e mortadella: che sia gloria imperitura all’uomo che per primo la fece. E l’anno e la vita scorrevano così in attesa dei grandi desinari delle feste quando la cucina diventava un antro e la nonna e le fantesche parevano le streghe buone intente a celebrare la liturgia di un sabba felice e opimo. Quando preparavano le galantine era una messa cantata gastronomica. E la torta di tagliatelle? Due giorni deve stare a riposo il ripieno fatto di amaretti, mandorle, canditi, cioccolata a pezzi. E il gran bollito? E il rito dei tortellini di Natale che anch’io ero chiamato a chiudere perché potevo girarli attorno al ditino e farli piccoli piccoli come piacevano al nonno? Ne approfittavano in famiglia per insegnarmi le tabelline facendomi contare le porzioni – tante ne andavano al dottore con sentimento di gratitudine per l’assistenza sincera e astuta che ci prestava – di quelli che mi parevano tanti omini al teatro
, signori seduti in ordinate file in attesa di farsi protagonisti dello spettacolo del nostro gusto.
A me piaceva carpire il segreto delle lasagne. Non so perché, ma vedere la nonna che prima faceva la sfoglia bianca, poi quella verde con gli spinaci e le stendeva ampie e diafane mi pareva un evento conventuale: quasi un mistero. Sarà perché facendo il chierichetto m’ero abituato a tovaglie candide, a gesti solenni e al tempo misurati, scanditi, sempre uguali e quel sussurro che mi pareva dolente e potente del "Dominus non sum dignus" mi appariva in tutto somigliante al compitare le dosi della nonna, mentre con le maniche rimboccate dominava il mattarello. E poi il ragù con quel soffritto estenuato di cipolle, carote, sedani, una foglietta di alloro e un profumo sensuale più delle gocce di Chanel N° 5 di Marilyn, un cucchiaio di concentrato di pomodoro e i macinati di manzo e di maiale, le salsicce, i ritagli di prosciutto. E la besciamella che aveva quella sensualità perlacea. Il rito della prima bollitura della pasta tagliata a strisce e messa a tirar l’acqua tra lini candidi. E infine uno strato di pasta, uno di sugo, uno di besciamella e ancora uno di pasta, uno di sugo, uno di besciamella che veniva sempre aromatizzata con un po’ di noce moscata. Infine la pioggia copiosa e aulente del parmigiano (stagionato trentasei mesi, per carità, ché di meno in casa non se ne concepiva) prologo alla crosticina che ci saremmo contesi. Più che una ricetta pareva un petting infinito in attesa del godimento!
Non ci sarebbe stato bisogno di lunario per orientarsi nell’anno, anche se in cucina pendeva sempre il calendario di Frate Indovino (dietro congrua offerta che nonna mandava compilando un vaglia vasto come un lenzuolo con la sua OMAS che guidava a comporre una grafia ariosa e regolare: quasi fosse il disegno armonico dei pensieri; era la stessa penna con cui ogni sera prima di organizzare l’ultimo pasto di giornata teneva la contabilità domestica sul libro di casa appuntando spese e fatti cospicui) e in un cassetto della credenza era custodita una copia del Sesto Caio Baccelli, una sorta di diario di bordo della civiltà rurale, perché dai gesti, dalle provviste, infine dagli odori si sapeva se era Natale o Pasqua o Carnevale o era già arrivato il tempo d’autunno di Ognissanti con il fattore che in gran segreto portava i porcini, gli ovoli e i tartufi: quasi un offertorio ai signori
. C’erano anche delle necessitate crudeltà: il torcere il collo della gallina, il castrare il cappone, il disossare il coniglio, l’eviscerare i fagiani e trarne i fegati per farne crostini speziati dai sentori di bosco, il ghigliottinare i pesci, i colpi di mannaia per spezzare il cinghiale o rare volte il capriolo, il segare gli stinchi. E c’erano talvolta odori ferrodolciastri di sangue, colori fetidi d’interiora, occhi evinti che continuavano a fissare dai cartocci imbrattati di organiche tracce: la cucina si trasformava in una sala di tortura o in una catena di smontaggio biologico. Eppure non faceva ribrezzo: era naturale. Dacci oggi il nostro pane quotidiano. E anche un po’ di companatico. Erano gesti di formazione e trasmissione d’informazione quelli che si officiavano in cucina. Poi comparve la prima Simmenthal e i würstel nelle scatolette della Tulip. Da lì in poi sarebbe stato un precipizio di sofficini, di bastoncini, di stuzzichini. Per fortuna in casa mia ci siamo abbastanza salvati. Ma il resto d’Italia? Affogata tra vol au vent, panna, prosciutto e piselli, cocktail di gamberi in salsa rosa. Poi la stagione della rucola ovunque, degli sfilacci. Le mode, il chiacchiericcio, il consumismo, il fast food, i quattro salti, le zuppe dei casolari, gli gnocchi in busta, la busta della spesa che pare uno gnocco: zeppa e messa su alla rinfusa. Come il frigorifero, diventato poi surgelatore. Che è una sorta di caveau dell’insipienza gastronomica e della cieca corsa al rimpinzo. Ancora: le stelle ma senza più stalle, le novelle sulla nouvelle, la chimica, le schiume, i sifoni. E le tagliatelle? Di Nonna Pina! E ora? E ora si recita più spesso un’altra parte del Pater Noster: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi (forse) li rimettiamo ai nostri debitori».
Un libro si progetta e si scrive confidando che vada oltre se medesimo, che non sia solo conseguenza e testimonianza di un hic et nunc, ma certo allo stato presente è complicato assai traguardarsi in un altrove felice. Siamo costretti da una siepe che tanto orizzonte il guardo esclude, in affannoso tentativo di non naufragare in un mare infinito. Sono tempi da Amleto. E ogni giorno ci viene quel defatigante dubbio: «Essere, o non essere, questo è il dilemma: se sia più nobile nella mente soffrire i colpi di fionda e i dardi dell’oltraggiosa fortuna o prendere le armi contro un mare di affanni e, contrastandoli, porre loro fine. Morire, dormire... nient’altro, e con un sonno dire che poniamo fine al dolore del cuore e ai mille tumulti naturali di cui è erede la carne: è una conclusione da desiderarsi devotamente. Morire, dormire. Dormire, forse sognare». Ma a veder bene un sogno si può ancora coltivare, ed è quello del recupero di quel Pater Noster. Perché in realtà il nostro presente dilemma shakespeariano dell’essere o non essere è piuttosto frutto di un altro dilemma che così bene ha interpretato Erich Fromm in Avere o essere? Purtroppo negli ultimi trenta anni la soluzione a questo dilemma è stata sempre più prepotentemente indicata in: avere è essere. Ed è per questo che oggi di fronte alla crisi che ci toglie l’avere ci interroghiamo su essere o non essere. Ma una via d’uscita forse c’è: è il pane quotidiano. È il tornare in buona sostanza non ad avere per essere, ma semmai a essere per avere quanto basta a essere. Per dirla con Heidegger: a far di nuovo prevalere il pensiero meditante sul pensiero calcolante. Che è poi il significato più vero e profondo della cucina. Se avrete la pazienza di leggere la mia Postfazione a pancia piena che propongo in questo libro ci saranno accenni sui valori, i significati e le prassi di cucina soprattutto in rapporto alla tradizione e dunque all’ambito familiare. Ma la domanda che potreste farmi è: dopo averci raccontato della tua infanzia gastronomica perché ci proponi un altro – forse l’ennesimo – libro di ricette? Semplicemente per stemperare, e se possibile migliorare, i tempi cupi presenti e con Amleto, dunque, sognare! E per questa via impugnare di nuovo mestoli, casseruole e sentimenti buoni contro il mare di affanni e, contrastandoli, porre loro fine.
Sono infatti persuaso che un recupero delle motivazioni della cucina familiare, di tradizione, e soprattutto un ripristino dei valori dell’accudimento gastronomico siano un efficace antidoto contro la crisi, che è anche frutto di una globalizzazione che se da una parte ha omologato il mondo dall’altra ha atomizzato le società portandoci ad una sorta di individualismo disorientato, per due fondamentali ragioni: la prima è che la cucina intesa come accudimento è un ripristino di sentimenti, di legami, di affetti e in ultimo di identità, la seconda è che il far da mangiare ci allontana da prassi consumistiche e ci avvicina al recupero dei valori. Peraltro questa mia impressione è confermata anche da indagini sociologiche. Si è scoperto – o meglio lo ha certificato il Censis – che gli italiani sono tornati a cucinare: attorno ai fornelli trascorriamo all’incirca un mese all’anno. E questa propensione al ripristino del focolare è confermata anche dal modificarsi degli acquisti. La grande distribuzione rileva che siamo tornati a comprare farina, uova, latte e preparati per i dolci perché risparmiamo sulla colazione al bar e siamo tornati a farci i biscotti in casa. Che funzionano molto i prodotti a marchio, ma che si cominciano a voltare le spalle a surgelati e cibi pronti per tornare a cucinare, al fai da te. Questo – almeno dal mio punto di vista – è positivo perché significa che al bisogno alimentare si risponde con il desiderio di fare.
Purtroppo però c’è anche un dato contrario. I consumi alimentari sono in pesantissima contrazione in quantità (c’è anche una necessitata propensione al risparmio e a evitare lo spreco, prima vera incrinatura nel credo
consumista) ma purtroppo anche in qualità. Per molti che vedono la loro capacità di acquisto erosa dalle tasse e dall’inflazione, l’unico riferimento ormai è il prezzo. In realtà quando si fanno acquisti alimentari dovremmo badare ai valori. Che sono i valori nutrizionali, e dunque dell’investimento in salute che facciamo mangiando, i valori agricoli, i valori culturali, i valori di identità. Mi soccorre un esempio. Sugli scaffali dei supermercati si trovano ormai oli di oliva di qualsiasi prezzo. Il punto è: quale olio mi conviene usare? Quello che costa meno o quello che in cucina (e in salute) rende di più? E se compro un extravergine DOP italiano, al posto di quello di primo prezzo, quale contributo do al mantenimento del paesaggio, del mio ambiente, delle mie radici? E ancora. Mi conviene comprare i pomodori che arrivano dalla Cina che costano poco, ma hanno percorso migliaia di chilometri, e che forse sono pieni di pesticidi, o piuttosto devo salvaguardare la mia salute e la produzione agricola nazionale tutelando il mio patrimonio valoriale? Ecco, queste sono solo alcune delle ragioni – appena accennate, dacché l’esposizione e l’analisi dovrebbero essere assai più articolate – per cui proprio a fronte della crisi c’è bisogno di una riacculturazione gastronomica.
Ed è da una siffatta convinzione che ha preso le mosse questo mio libretto. L’ho pensato in forma di cucinario
. Una specie di calendario gastronomico. Sono 365 ricette, una al giorno che ho suddiviso per stagioni. È il tentativo di riproporre una prassi gastronomica concordante con le produzioni agricole di prossimità per far sì che anche il momento della spesa sia improntato alla massima efficienza, per risparmiare, ma anche per salvaguardare il nostro patrimonio agricolo e premiare la fatica dei nostri coltivatori – che Dio li benedica! – e alla più alta efficacia in termini di resa gastronomica. Perché cogliere i frutti della terra nel loro tempo balsamico e usarli di conseguenza, perché articolare il regime alimentare secondo le stagioni significa fare del bene al nostro corpo ma anche rendere massimo il piacere del cibo.
Al proposito mi sovviene una conversazione di qualche tempo fa con un fisiologo di chiara fama scientifica che mi faceva osservare una semplice, ma per nulla ovvia, conseguenza. Noi siamo abituati ormai a vivere secondo ritmi che ci sono resi possibili dalla tecnologia. Lavoriamo di notte, prolunghiamo le nostre attività durate l’arco di un tempo esteso, ci spostiamo di continuo. Diciamo, per semplicità e brevità, che le nostre facoltà razionali fanno premio sui nostri costituenti fisici. Ma il nostro orologio biologico è ancora tarato su un ritmo – che è proprio di tutti gli animali – che va da sole a sole. Potrei dire dal Pater Noster all’Ave Maria. E del pari i nostri bisogni fisiologici sono ancora tarati secondo le stagioni: più grassi e vitamine in inverno, più vitamine e proteine nelle stagioni di mezzo, più sali minerali e idratazione nei periodi caldi. E questo è uno dei tanti fenomeni (in senso latino) della natura e spiega anche perché la campagna ci mette a disposizione determinati frutti e determinati ortaggi a seconda delle stagioni. O meglio spiega perché ogni volta l’uomo, chiamato a risolvere il dilemma dell’onnivoro
, abbia operato opzioni nutrizionali per meglio rispondere ai propri bisogni fisiologici. Del resto la medesima e celebratissima dieta mediterranea – che è diventata patrimonio dell’umanità, ma che per via del disordine alimentare e anche delle opzioni di consumo sembra sempre meno patrimonio degli italiani – ha una sua ragione funzionale legata al nostro ambiente, al nostro stile di vita, alla disponibilità di prodotti che la terra e le nostre prassi agricole ci forniscono. Dunque attraverso la cucina e mangiando secondo stagione e secondo tradizione possiamo mitigare lo sfasamento che esiste, e si fa sempre più accentuato, tra il nostro orologio operativo e il nostro orologio fisiologico. Attraverso la cucina possiamo andare alla ricerca di una eu-cronia (un tempo buono) che è tale perché ci dà buoni sapori, ci dà buonumore, ci dà buona condizione fisica.
Le ricette che qui trovate sono state scelte con una triplice valenza. La prima è che siano appunto ricette stagionali e di tradizione, la seconda che siano di sufficientemente facile esecuzione, anche se tra di esse ho incluso alcuni classici che richiedono una qualche elaborazione in più, la terza che avessero una funzione culturale. Sono infatti persuaso che esiste una pedagogia del cibo che si articola nella ripresa di cognizione degli ingredienti, della loro origine, della loro funzionalità, nel ripristino delle prassi gastronomiche con una rivalutazione dei tempi di cottura, di preparazione e di esecuzione dei piatti, nella ricostituzione del valore anche psicologico ed affettivo del fare da mangiare.
Nelle 365 ricette qui compendiate non ci sono, come avrebbe detto Pellegrino Artusi, pietanze da parata e cioè da sontuosa e impegnativa celebrazione gastronomica, ci sono piuttosto i piatti della consuetudine ricomprendendo in essa anche alcune preparazioni per le feste e molte citazioni dalle cucine regionali. Sono da sempre convinto che non si possa parlare di una cucina italiana salvo che per un numero limitato di ricette (e qui ne trovate alcune), quanto piuttosto di una cucina italica che è la sommatoria di tanti piatti regionali, e a volte semplicemente territoriali, che si sono osmoticamente contaminati tra di loro fino a modificare in parte alcune delle ricette. Ma mi sembrava giusto riproporle nella loro versione più aderente alla filologia gastronomica tradizionale. Senza dimenticare che però i tempi cambiano e che dunque alcune paste, alcune salse, alcuni modi di acconciare il cibo sono ormai molto distanti dall’abilità media che ognuno di noi sa esprimere in cucina. Non vi meravigliate dunque se in qualche ricetta trovate suggerito di usare un ingrediente già pronto. Di alcune preparazioni ho proposto anche delle varianti e per altre, molto legate a prodotti di territorio che difficilmente hanno una diffusione nazionale, ho preso in considerazione delle possibili sostituzioni di ingredienti che ritengo però non modifichino sostanzialmente la natura del piatto. Sono quei minimi accorgimenti per rendere quanto più divulgabile possibile una prassi gastronomica.
In ultimo voglio significare che nessuna delle ricette qui esposte presenta difficoltà insormontabili. In questo mi sono proprio attenuto al precetto dell’Artusi di proporre una cucina per cui «basta la passione, molta attenzione e l’avvezzarsi precisi: poi scegliete sempre per materia prima roba della più fine, ché questa vi farà figurare». Insomma sono ricette che stavano anche in casa di mia nonna.
E sono le ricette che ogni settimana propongono dagli schermi de La Prova del Cuoco, la fortunata trasmissione di cucina e cultura gastronomica di RAI 1, condotta da Antonella Clerici. In quella trasmissione mi è stato assegnato il ruolo di maestro del gusto
. Nel senso che non sapendo cucinare come le maestre e i maestri di cucina, che da anni attraverso questo impegno della RAI hanno condotto, loro sì, una vera operazione di riacculturazione gastronomica, mi è stato proposto di narrare la tradizione della nostra tavola in stretto rapporto con le produzioni agricole di specialità che vado raccontando insieme a dei giovani che hanno scelto di perpetuare la fatica del lavorare la terra. Con Anna Moroni proponiamo molte ricette del riuso, prassi che era sommamente praticata dalle nostre nonne e che sta tornando di attualità. Di tali ricette ne trovate diverse in questo libro. Si tratta di non buttare via la carne, i formaggi, i salumi avanzati, il pane raffermo, la pasta del giorno prima, le verdure già cotte, ma di acconciarle in diverso modo per far nascere da ciò che è rimasto qualcosa di nuovo. Mi sembra la parabola della cucina e della tradizione. Sempre alla Prova del Cuoco mi è stato assegnato il compito di giudicare le ricette di tradizione che vengono proposte nella gara tra i cuochi. Questo mi ha consentito di allargare i miei orizzonti di cognizione gastronomica, ma anche di sperimentare al palato la coerenza dei sapori e dei piatti realizzati rispetto alla ricetta codificata. È con questo bagaglio di esperienza che ho selezionato le ricette che qui vi propongo e con la stessa onestà intellettuale
che mi porta a giudicare i piatti in TV ho inteso giudicare me stesso ogni qualvolta ho operato la scelta di proporvi o meno un piatto da realizzare.
Ma l’intento davvero definitivo di questo mio libro è di far sì che voi vi possiate riappropriare del piacere di far di cucina per nutrire il piacere di vivere, il gusto e gli affetti. Sono convinto – per averlo spesso sperimentato su di me – che fare da mangiare, anche in modo semplice senza celebrare né se stessi né occasioni particolari, sia un’ottima terapia psicologica che corrobora i sentimenti, che allontana i cattivi pensieri, poiché ci fa impegnare in un’attività che induce un vitalismo positivo. Cucinare è anche fatica e impegno, ma se si cucina per dare, si cucina per assaporare, allora si scopre un’attività tranquillante e rieducativa davvero sorprendente. E che in più ci tiene aderenti al nostro corredo identitario e valoriale. Un po’ come capita con il breviario, con le preghiere che si dicono per conformarsi e confortarsi. Non crediate che io sia un baciapile. Tutt’altro. Mi rifaccio alla tradizione e pure alla convenzione cattolica perché bene o male noi tutti nati in questo Paese o abbiamo avuto un’educazione cattolica o comunque ci siamo dovuti misurare con la cultura, o se preferite il buon senso, e i precetti del cattolicesimo. E allora proprio per farvi capire che in questo incipit del libro mi sono rifatto alle prassi delle nonne che ci facevano dire le preghiere (ma che erano anche straordinarie cuoche e oculate amministratrici del nostro benessere) senza dichiarare nessuna appartenenza, ma piuttosto obbedendo ad una ricordanza, vi lascio, nella speranza che vogliate sperimentare ognuna di queste 365 ricette agendone una al giorno, alle vostre felici incombenze di cucina modificando un po’ il Pater Noster. Sì, dichiaro di volervi indurre in tentazione (buona) per liberarvi dal male che è il conformismo, il pessimismo e il solipsismo della surmodernità. Anche gastronomico. Buon appetito!
NOTA DELL’AUTORE
Questo libro di 365 ricette è stato composto con l’apporto fondamentale di Petra (Carsetti) che ha scelto buona parte delle preparazioni da inserire. Pellegrino Artusi per comporre il suo monumentale La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene ebbe come ausilio insostituibile la fida Marietta e come fonte buona parte delle signore della nascente borghesia post unitaria italiana che gli fornirono le ricette. L’Artusi le fece acconciare dalla Marietta, le provò e le codificò utilizzando una lingua per la prima volta unitaria e chiara.
Non posso dire d’essere l’Artusi, ma del suo insegnamento mi sono avvalso. Buona parte delle ricette che qui trovate mi sono pervenute dai ristoratori, dagli osti, dalle cuoche e dai cuochi delle trattorie e osterie che sono recensite ormai da anni nel mio Mangiarozzo (edizioni Newton Compton) di cui Petra è grande parte. Oltre a questi apporti ho preso in considerazione ricette di famiglia e ricette che mi sono state proposte da amici e conoscenti. A Petra è toccato il fondamentale compito di catalogarle, di esaminarle e anche di provarle. Insieme a lei la mia Marietta è stata Emilia (Migliorelli), che si è provata a fare le ricette che qui trovate descritte. Altre le ho sperimentate direttamente dalle cuoche e dai cuochi che me le hanno proposte. Dunque tutti e 365 piatti qui narrati sono stati testati.
Ho inteso anche proporre in abbinamento a ciascun piatto dei vini, persuaso come sono che senza il vino un pasto perda di personalità e soprattutto di convivialità. Nel proporre gli abbinamenti mi sono fondato sulla mia personale esperienza. Come già per gli ingredienti di alcune preparazioni do diverse opzioni in modo che alcune etichette magari poco diffuse possano essere sostituite da altre di maggiore disponibilità.
Voglio qui ringraziare prima di tutto Petra per il continuo, solidale apporto che dà al mio lavoro. Poi voglio ringraziare tutte le cuoche e i cuochi che mi hanno gentilmente offerto le loro ricette nella speranza di aver reso onore al loro ingegno e al loro impegno come meglio si conveniva.
INVERNO
Questo Natale si è presentato come comanda Iddio.
Co’ tutti i sentimenti si è presentato.
Eduardo De Filippo, Natale in casa Cupiello, atto I
Non c’è periodo dell’anno in cui la cucina assurga a rito simbolico, liturgico, come l’inverno. Vi sono ragioni antropologiche profonde nella cucina invernale, legata peraltro agli andamenti agricoli. Rimanda la ritualità gastronomica a quell’attesa che è l’avvento, che fu il Sol Invictus, che è l’annuncio della rinascita. Noi celebriamo il Natale, giorno della vita nuova, appena tre albe dopo il solstizio e imbandiamo le tavole per godere della gioia del sole che di nuovo ha sconfitto le tenebre. Del resto da lì a poco arriva l’anno nuovo e il ciclo vitale ricomincia con un colpo di manovella universale. A pensarci bene è il periodo dell’anno in cui si mangia di più, si passa più tempo in cucina, si studiano i menù come fossero richiami d’adunanze d’affetto. Si deve ad un bisogno che è quello di immagazzinare calore, ad un tempo di vacanza dal lavoro dei campi, ad un tempo druidico in cui si interrogava il Creato sul domani. Tutti questi valori si condensano nelle tavole delle feste, ma nella quotidianità come s’ha da agire la cucina d’inverno? Sarà cucina di tepori e di fuochi, di nebbie e di grassi, di commistioni tra il dolce e il salato. È sostanzialmente la cucina d’inverno la meno mediterranea e la più continentale. Ma è quella che agli storici della gastronomia e anche a gente curiosa delle ragioni del cibo come me offre dovizia di spunti. Sarebbe ben divertente quando a Capodanno ci abbuffiamo di zampone e lenticchie sapere che ci facciamo doppiamente gli auguri di prosperità: dacché quel piatto è la crasi tra due credenze. L’una romana e mediterranea secondo la quale le lenticchie portavano ricchezza perché tonde come i sesterzi, l’altra germanica perché il piede di porco era considerato un portafortuna o meglio ancora il simbolo della rinascita. Basterebbe considerare che il maiale (o il cinghiale) era l’animale sacro dei druidi e che simboleggiava la forza e la fertilità. Ma ad esempio anche i nostri tortellini hanno a che vedere con un gesto simbolico. La disputa sull’origine del tortellino è infinita e rimanda alla rivalità tra Modena e Bologna. C’è chi ne attribuisce la paternità ad un oste di Castelfranco Emilia (guarda caso sul confine delle due città) che, ospitando alla sua locanda Corona una nobildonna, ne spiò le fattezze e incantato dall’ombelico di costei lo volle riprodurre. La mitologia culinaria addirittura si spinge oltre e sostiene che alla locanda Corona s’erano dati convegno Bacco, Marte e Venere giunti a confortare Modena in lotta con Bologna. E la dea sorpresa nel sonno dall’oste gli ispirò la ricetta di una delizia che fosse riproposizione della sua bellezza. Da qui il detto che il tortellino deve essere come l’ombelico di Venere. In realtà il tortellino, come gran parte delle paste ripiene, nasce per un’esigenza di riciclo delle carni avanzate. E così avremo gli agnolini mantovani, piccoli e in tutto simili ai cappelletti, che si fanno nel Reggiano con il pangrattato e il prosciutto o in Romagna con il formaggio, e poi gli anolini parmigiani pieni di stracotto e gli agnolotti piemontesi carichi di brasato e infine i marubini che sono sì cremonesi tondi e frastagliati e zeppi di ciccia, ma diventano nelle Marche marubini a mezzaluna. È una dovizia di stufati e di brasati, ma anche di ribollite e di acquecotte poi di salumi e di carni ripiene il cibo dell’inverno. Che però si differenzia tantissimo a seconda delle agricolture e delle latitudini. Così ecco le polente e i pizzoccheri e poi i testaroli e i sartù. Non diversamente i dolci sono l’altra grande manifestazione gastronomica invernale dacché erano fonte d’energia e unico dono consentito nelle feste comandate quando la povertà era il primo degli invitati a tavola. Ai giorni nostri non c’è questa esigenza di far provvista di calorie, né di dare compiutezza ai riti legati alla campagna. Ma è sempre bene sapere che anche in cucina le cose non capitano per caso. E che i menù nascono in stretto rapporto con usanze, ma anche in base a disponibilità. Dunque saremo inclini alle zuppe per ricevere calore, e faremo le carni non a fuoco vivo, ma a cottura lenta, magari per cavarne anche del brodo – anche se è un errore poiché per fare il brodo si devono usare determinati tagli e mettere la carne a freddo mentre per il bollito la procedura è esattamente inversa –, ci concederemo qualche fritto e indulgeremo più al burro. Tutto senza strafare ché la nostra vita non ci consente di disperdere troppe calorie. Pensate a cosa dovesse essere resistere alle nevicate senza termosifoni! Ciò detto anche in inverno conviene non rinunciare alla prescrizione di acconciare una cucina ricca di verdure e di frutta. Erroneamente si ritiene che questa, essendo una stagione di letargo della campagna, non abbia molto da offrire. E invece basta che pensiate al tartufo bianco o al nero invernale che farà sontuosa la vostra cucina per comprendere quali gioielli del gusto abbia in serbo per noi l’inverno. Intanto è la grande stagione dei cavoli, delle verze, del cavolo nero, ingrediente insostituibile nella vera ribollita. I cavoli sono ricchi di sostanze che fanno bene alle vie aeree e hanno una versatilità gastronomica stupefacente. Si possono fare sformati, frittelle, involtini, insalate e zuppe, minestre e secondi. Vi verrà molto in aiuto la salsa besciamella che completa un piatto in maniera impeccabile apportando grassi e carboidrati. Ma sempre dalla bottega dell’inverno ecco i radicchi, tra cui il pregiatissimo trevigiano che brasato o in griglia, usato per i ripieni o i condimenti, trasforma anche il più banale piatto di pasta in un trionfo d’aromi. E poi ecco gli spinaci e le biete. Perfette per fare i ripieni dei tortelli, ottimi come contorni, ma anche come basi per gli sformati o per dei risotti vegetali che hanno un forte potere di riscaldare e un basso impatto glucidico. È tempo anche di carciofi primaticci, ma soprattutto di cardi con i quali fare la parmigiana: un piatto che da solo vale un pasto. Sul fronte dei formaggi sappiate che per quelli stagionati questa è la stagione migliore perché sono fatti con l’ultimo latte d’alpeggio e sono tra i più profumati. Poi verso il finire dell’inverno sarà il trionfo del maiale con le carni fresche, le salsicce appena fatte, i primi salami. Il maiale di per sé scandisce un calendario gastronomico perché ogni salume ha la sua stagione ed è fatto proprio per durare tutto l’anno: è una riserva di cibo a lento rilascio! Anche la fruttiera non sarà poi così vuota come si crede. Approfittate nel passaggio dall’autunno all’inverno dei cachi e poi delle mele, soprattutto delle tardive e delle pere che ancora residuano. Ma pensate quanto è benigna la natura. D’inverno abbiamo bisogno di molta vitamina C (che peraltro possiamo assumere anche attraverso le poche erbe di campo che residuano) ed ecco che il Creato ci regala l’universo profumato, dolce e succulento degli agrumi. Arance, mandarini, mandaranci da consumare tal quali o da trasformare in salse per esempio per una buonissima anatra. Infine abbiate cura di mangiare frutta secca: è calorica sì, ma ha anche tante virtù. Qui infatti troverete qualche ricetta in cui nocciole e noci entrano di prepotenza a sostenere il piatto e a condizionarne l’aroma. Dal mare avremo pesci opimi che con le acque più fredde sono più sodi, ma certo non potete dimenticarvi del baccalà e dello stoccafisso né dell’anguilla, la regina delle tavole di festa almeno in gran parte d’Italia. È il tempo dei pesci salsati, arricchiti. Anche se a dir la verità i frutti del mare chiederebbero rispetto assoluto dei loro sapori senza essere sovraccaricati. Ma d’inverno per sconfiggere la paura del buio nell’attesa del sole qualche eccesso è consentito!
ANTIPASTI
CAPÔNET
Un tempo questo era uno dei secondi più popolari nelle campagne piemontesi. Piatto povero, spesso con sentori di brina e profumi di nebbia. Viene ancora riproposto in alcune trattorie ed è uno dei desinari classici dell’inverno. Farlo a casa non è complicato: serve solo un po’ di pazienza. Con l’evoluzione del gusto è però passato da piatto unico – basta mangiare parecchio pane per essere sazi – a saporito antipasto. Consigliabilissimo se si vuole preparare una cena rustica.
INGREDIENTI PER 4 PERSONE:
16 foglie di cavolo verza
1 costa di sedano
250 g di polpa di vitello macinata
erbe aromatiche
100 g di salame cotto
burro
2 uova
olio extravergine di oliva
½ bicchiere di vino rosso
sale
1 cipolla piccola
pepe
1 carota
Per preparare questo piatto occorrono 60 minuti. Immergere le foglie di cavolo in acqua bollente, scottarle e porle ad asciugare su un canovaccio. Tritare con la mezzaluna la cipolla, la carota, il sedano e le erbe aromatiche, versare le verdure tritate in una padella con una noce di burro, farle soffriggere e rosolarvi la carne macinata. Spruzzare con il vino rosso e regolare di sale. Privare della pelle e tritare il salame cotto. Metterlo in una terrina con le uova, la carne rosolata e una spolverata di pepe. Amalgamare bene fino ad ottenere un composto omogeneo. Suddividere questo ripieno sulle foglie di cavolo e chiuderle ad involtino. Cuocere i capônet in padella con una noce di burro e un filo d’olio extravergine di oliva. Asciugare su carta assorbente da cucina e servire subito.
Il vino consigliato in abbinamento è un rosso valsusino, il Carchejron dell’Azienda Agricola Giampiero Gagnor di Chianocco, Torino. Va benissimo però anche un Grignolino o un Dolcetto.
CARCIOFO ALLA GIUDIA
In questa ricetta c’è l’essenza del carciofo romanesco, ma soprattutto c’è semplicità ed eccellenza. Si dice alla giudia
perché era una prerogativa del ghetto ebraico quella di preparare il carciofo fritto solo nell’olio. Attenzione, non commettete il sacrilegio gastronomico
che molti ristoranti fintamente tradizionali fanno di prelessare il carciofo prima di friggerlo. Ne perdereste la croccantezza e la fragranza anche se è più comodo. Il segreto è avere olio molto caldo e aprire bene i petali del carciofo prima di friggerlo.
INGREDIENTI:
4 carciofi romaneschi
carta paglia assorbente
1 l di olio extravergine di oliva
sale q.b.
Prendere 4 carciofi romaneschi, togliere con un coltellino affilato le foglie dure e quasi tutto il gambo, lasciando la caratteristica forma a palla
. Metterli in olio, a temperatura di circa 120°, a testa in giù all’interno di un pentolino di rame (potrebbe essere utile un pentolino fatto con la scatola di latta dei pelati da 3 chili perché è ottimo conduttore). Cuocere per circa 10-15 minuti, senza bruciare le foglie. Dopo aver fatto questa precottura, mettere i carciofi a freddare a temperatura ambiente. Poco prima di servire a tavola, mettere il pentolino con lo stesso olio sul gas e mandare ad alta temperatura, poiché ora al carciofo bisogna dare uno shock termico, in modo da renderlo croccante. Prendere il carciofo, infilarlo dal gambo su un forchettone e allargare un po’ le foglie, sulle quali si andrà a spruzzare un pochino di acqua: in questo modo appena messo il carciofo nell’olio bollente si aprirà come un fiore (bastano 2-3 minuti). Servire su un foglio di carta paglia assorbente con un pizzico di sale.
Il vino consigliato in abbinamento è Moro Marco Carpineti o Solathyo Borgo Santa Maria. Sulla scorta de Il principe e il povero, si può azzardare un abbinamento con un grande Franciacorta: il Brut di Maurizio Zanella Ca’ del Bosco.
CROSTINI DI FEGATINI TIPO CACCIA
Non scambiateli per i crostini alla toscana. Sono un’altra cosa. Ma questi fanno comunque atmosfera invernale e hanno un sapore intenso e al tempo stesso equilibrato. Potete anche avere una raffinatezza in più se mettete i fegatini a marinare per qualche tempo in un marsala stravecchio. Il segreto di questa ricetta sta nel pane. Se lo friggete potete tranquillamente usare un pane condito o anche un tipo baguette, ma se invece avete intenzione di abbrustolirlo e poi di bagnarlo nel brodo abbiate cura di usare solo pane raffermo e sciapo. Tipo toscano.
INGREDIENTI:
100 g di fegatini di pollo
1 acciuga
200 g di milza di suino
30 g burro
crostini di pane
prezzemolo
farina
½ bicchiere di brodo
capperi
sale
cipolla
pepe bianco
Tritare i fegatini di pollo, soffriggerli con il burro e salarli. A metà cottura aggiungere un pizzico di farina e la milza spellata e ridotta in poltiglia. A parte preparare un battuto di capperi, prezzemolo, cipolla e acciuga. Quasi alla fine della cottura aggiungere il battuto al composto con un po’ di brodo, sale e pepe. Spalmare i fegatini su crostini di pane fritti nel burro oppure leggermente arrostiti e bagnati nel brodo.
Il vino consigliato in abbinamento è un Freisa di Chieri. Va benissimo però anche un Chianti giovane oppure un Pinot Nero. Purché sia fragrante.
INSALATA DI ARANCE
Una ricetta gustosissima, a bassissimo contenuto calorico ma ricca di vitamina C. L’insalata di arance è infatti un piatto che appartiene alla più pura tradizione gastronomica siciliana. Quella che qui trovate è la ricetta base. Niente vieta che la arricchiate ad esempio con delle olive nere al forno o con dei filetti di acciuga dissalati. Ma che siano quelle belle polpose e profumate del nostro mare.
INGREDIENTI PER 4 PERSONE:
4 arance
cipollina fresca q.b.
un pizzico di origano
sale q.b.
olio extravergine di oliva q.b.
pepe q.b.
Sbucciare le arance e tagliarle prima a fette sottili e poi a tocchetti, eliminando possibilmente i semi. Metterle in un’insalatiera e condirle con olio extravergine di oliva, origano, sale, pepe e cipollina fresca.
Carlo Cambi consiglia in abbinamento al piatto un vino siciliano. Si punta sul vitigno Inzolia che ha infinite interpretazioni. Buone sono quelle di Cusumano etichetta Cubìa e di Cottanera etichetta Barbazzale Bianco.
PARMIGIANA DI CARDI
Come tutte le parmigiane anche questa richiede pazienza e un po’ di perizia. Ma il risultato è a dir poco esaltante. Il cardo ha una sfumatura di sapore dulcamara invitantissima e la sua consistenza lo rende adattissimo alla cottura in forno. Il segreto sta nel togliere i filamenti più duri. È una ricetta che ha, con l’impiego dei cardi, la sua origine nel Centro Italia ma che poi si è estesa a quasi tutta la grande cucina di tradizione del nostro Paese. Del resto la parmigiana ha una sua derivazione dalla cucina di corte borbonica. È un antipasto gustosissimo, ma può trasformarsi in un ottimo contorno sia con un bollito sia con gli arrosti.
INGREDIENTI:
1 kg di gobbi
pangrattato
1 limone affettato
parmigiano reggiano grattugiato
farina
burro per ungere la teglia
3 uova sbattute
sale
olio di oliva per friggere
PER LA BESCIAMELLA:
0,5 l di latte
noce moscata
50 g di burro
sale
60 g di farina
pepe di mulinello
Dopo aver nettato le coste dei cardi tagliandole e asportando i filamenti, metterle a bagno in acqua acidulata con delle fette di limone. In una pentola lessare i cardi in acqua salata, toglierli quando sono cotti al dente, poi asciugarli sopra un canovaccio. Intanto preparare la besciamella. In una casseruola posta sul fuoco a bagnomaria stemperare la farina nel burro, aggiungere il latte caldo seguitando a mescolare, regolare di sale e pepe, profumare con raspatura di noce moscata e far addensare la salsa. In una padella scaldare l’olio, tuffarvi i pezzi di cardo (dopo averli infarinati, passati nell’uovo sbattuto e infine nel pangrattato) e friggerli; una volta dorati sgocciolarli, salarli, adagiarli nella teglia imburrata, versare la besciamella, spolverizzare di formaggio grattugiato e mettere in forno (caldo a 180°). Servire la parmigiana calda.
Il vino consigliato in abbinamento è sicuramente un rosso frizzante amabile: a voi la scelta tra una Fortana, un Lambrusco o una Barbera.
PÂTÉ DI LEPRE
Piatto di assoluta nobiltà gastronomica che ha ricordanze rinascimentali sia nel sapore che nella preparazione. Che – è bene saperlo – non è semplice. Perché richiede rigoroso rispetto dei passaggi. Qui consigliamo di usare dei tartufi in vasetto perché possiate fare la ricetta in ogni periodo dell’anno. Il piatto tuttavia è decisamente invernale perché si dovrebbe usare il tartufo nero pregiato d’inverno del nostro Appennino centrale. Due segreti per la preparazione. Primo: mondate bene la carne della lepre (volendo potreste usare anche il coniglio, ma ha un sapore meno incisivo); secondo: se usate i tartufi neri freschi abbiate cura di non riscaldarli mai oltre i 50°. Perderebbero aroma.
INGREDIENTI:
PER LA PASTA MATTA:
400 g di farina
sedano
60 g di burro
carota
1 lepre
prezzemolo
4 bicchieri di vino rosso
alloro
1 vasetto di tartufo nero
timo
pasta di tartufo bianco
rosmarino
1 uovo
salvia
1 cucchiaio di farina
aglio
25 cl di gelatina
olio
estratto di carne Liebig
un pizzico di sale
marsala
pepe in grani
cipolla
Preparare una marinata con tutti gli odori ed il pepe in grani. Tagliare la lepre a pezzi e bagnare con 4 bicchieri di vino rosso aggiungendo la marinata. Lasciare insaporire per tutta la notte. Scolare i pezzi, asciugarli e rosolarli in un soffritto di cipolla, carota, 2 foglie di alloro, una foglia di salvia, sale, pepe e olio. Quando i pezzi saranno ben rosolati, spolverizzare con un cucchiaio di farina, far colorire aggiungendo una punta di estratto di carne Liebig e poi bagnare un po’ alla volta con il solo vino della marinata filtrato. Far asciugare il vino, bagnare con acqua, diminuire il fuoco, coprire e lasciar cuocere dolcemente per circa un’ora e mezza. Se si asciugasse troppo aggiungere ancora acqua e vino. Il sugo deve essere ben denso (si può aggiungere un cucchiaino di fecola di patate sciolta in un po’ di marsala). Sgrassare la salsa e staccare il fondo di cottura. Quando la carne è cotta, disossarla tenendo da parte i filetti della schiena, tritare il resto e mixare unendo qualche cucchiaio di marsala. Mescolare e lavorare l’impasto, che deve restare cremoso, aggiungendovi un po’ di salsa. Unire la pasta di tartufo bianco. Fare una pasta matta (impastare gli ingredienti con acqua tiepida in modo da avere una pasta soda e lasciar riposare per almeno un’ora), foderare uno stampo rettangolare imburrato e forarla con la forchetta. Stendere metà farcia e ricoprirla con uno strato di filetti di lepre (lasciati a bagno con un po’ di marsala). Aggiungere dei pezzi di tartufo in vasetto e terminare con la restante farcia. Richiudere con la pasta, spennellare con un uovo intero e praticare due fori. Durante la cottura, attraverso i due fori versare un po’ alla volta la salsa nella quale sarà stata sciolta la gelatina. Infornare per circa un’ora a 180°. Quando sarà cotto e la crosta bella dorata metterlo a freddare su un setaccio o una graticola. Lasciarlo nello stampo finché non si è completamente raffreddato.
Un abbinamento raffinato sarebbe con un Muffato della Sala; volendo si può andare su un Barolo molto vecchio, un Brunello di pari annata, oppure un’opzione più fresca: un Primitivo di Manduria. Certo che se avete usato un grande Marsala stravecchio per la preparazione potete continuare a inebriarvene nell’abbinamento.
POLPO BOLLITO CON PATATE E PORRO
Ricetta che è un arricchimento – sempre però molto rurale – di un classico della cucina povera
del Tirreno: il polpo lesso. Che era uno street food diffusissimo tra i pescatori. Anzi, per la verità una volta si usavano lessare le polpesse che sono cefalopodi ancora più poveri del nostro polpo. Una variante buonissima di questa ricetta è quelle che si fa ad esempio a Creta dove, dopo essere stato lessato, il polpo viene affettato sottilmente, ripassato in olio caldo aromatizzato con aglio e poi spruzzato di aceto di vino rosso, che si fa sfumare, e condito con abbondante origano fresco. In questa versione il polpo – e qui c’è un forte influsso ligure – viene arrangiato con verdure dell’orto. Se ne ottiene un gustoso secondo piatto se la quantità è abbondante e allora conviene servirlo caldo, oppure anche un antipasto per una cena informale e allora conviene servirlo tiepido. Se volete fare scena adagiatelo su foglie di alloro, ne guadagna anche in profumo. Non date retta alle fole del famoso sughero fatto bollire con il polpo per renderlo morbido. Il segreto sta nello sfibrarlo con un batticarne prima di lessarlo. Ricordate che il polpo deve sobbollire, evitate di farlo andare a fuoco troppo vivace.
INGREDIENTI PER 4 PERSONE:
1 polpo da 600 g
rosmarino
4 patate
1 bicchiere di vino bianco
1 porro
sale q.b.
olio extravergine di oliva q.b.
Affettare il porro e farlo appassire in una padella con dell’olio, aggiungere le patate tagliate a rondelle (alte 3 millimetri) e lasciare cuocere a fuoco dolce aggiustando di sale. A parte bollire il polpo in abbondante acqua leggermente salata con il vino e un ramoscello di rosmarino. Quando è tiepido avvolgerlo stretto in un canovaccio e lasciarlo mezza giornata in frigorifero dopo averlo trattato con l’abbattitore di temperatura. Tagliare il polpo a fettine, adagiarle su un piatto sopra le patate e irrorare con l’olio.
Un abbinamento perfetto al piatto è un Vermentino DOC di Colli di Luni Lunae, imbottigliato all’origine dalle Cantine Lunae Bosoni, Ortonovo (SP). Ma si può optare anche per un Colli Maceratesi Bianco della Cantina Fontezoppa.
TORTA DI FARRO
Preparazione che si perde nella notte dei tempi, quando il farro era per gli italici simbolo di abbondanza e di fertilità e costituiva l’alimento base delle popolazioni dell’Appennino. Questo cereale ha un notevole contenuto in ferro, ed è ottimo per preparare qualsiasi tipo di piatto: bollito come fosse un risotto, sfarinato per farne pasta, ma anche dolci e biscotti. Questa versione della torta di farro arriva da una delle sue terre di elezione: la Garfagnana. Le varianti sono infinite, il segreto sta nel tenere il cereale in ammollo. Perfetta sia calda che fredda, questa preparazione può essere un ideale appetizer o un amuse bouche anche per una cena importante.
INGREDIENTI:
farro della Garfagnana
verdure (possibilmente bietole)
pasta sfoglia per torte salate
pancetta
uova
sale
formaggio
pepe
aromi secondo disponibilità
Far cuocere il farro insieme ad un po’ di pancetta e agli aromi. A cottura ultimata del farro, unire le uova, il formaggio e la verdura. Aggiustare di sale e di pepe; spianare la pasta sfoglia nella teglia e mettervi sopra il farro. Infornare e fare cuocere per circa un’ora a 150°.
Il vino consigliato in abbinamento è un Bianco di Montecarlo di Lucca prodotto dalla Fattoria del Teso, molto minerale, di sostenuta acidità, che ben si accompagna con il farro e stempera le uova.
TORTINO DI PATATE E PORRI
Con questa ricetta si fa conoscenza con una pratica costante della cucina toscana: i piatti unici. Questa eccellente preparazione può essere infatti proposta come antipasto, ma anche come piatto importante, magari accompagnata da una insalatina fresca condita con olio extravergine. È davvero un’ottima alternativa per una cena in piedi.
INGREDIENTI:
PER IL RIPIENO:
6 patate
olio extravergine di oliva
3 porri
noce moscata
4 uova
sale
60 g di parmigiano
pepe
PER LA PASTA:
300 g di farina
30 g di burro
2 uova
Lessare le patate e, mentre cuociono, affettare i porri e rosolarli nell’olio. Quando saranno pronti versarli in una terrina e aggiungere le patate a pezzetti, le uova, il parmigiano grattugiato, un pizzico di noce moscata, sale e pepe. Preparare quindi la pasta e ricavarne un disco più grande con cui foderare lo stampo, e uno più piccolo che servirà a coprire il tortino, dopo che vi sarà stato distribuito il ripieno. Chiudere bene i bordi della pasta, pizzicandola tutt’attorno, e cuocere in forno a calore medio per 40 minuti.
Il vino consigliato in abbinamento è uno Chardonnay aretino come il Donnaluna di Tenuta di Vitereta.
VERZA RIPIENA
Una preparazione ricca e complessa per questo antipasto dal sapore deciso ma che si rivela di straordinaria leggerezza al palato. La star è la verza, il più bell’ortaggio dell’inverno, dall’aspetto quasi altero e regale. Verdura versatile, non esiste modo in cui non sia buona, come testimonia questa ricetta. Il segreto è quello di scegliere le foglie più sostenute e carnose e magari passarle un po’ in acqua acidulata per ravvivarne il colore.
INGREDIENTI:
500 g di verza
aglio
100 g di funghi
acqua
3 cipolle
olio di oliva
300 g di castagne
sale
Arrostire le castagne e sbucciarle. Pulire la verza e farla bollire. Tritare le cipolle e rosolarle in una pentola con poco olio fino ad ammorbidirle. Affettare finemente l’aglio e unirlo alla cipolla, poi aggiungere i funghi tagliati. Una volta rosolato salare e lasciar cuocere a fuoco basso per 20 minuti circa. Riempire le foglie di verza con il preparato. Disporre i rotoli di verza in una pentola con l’olio e le castagne. Far cuocere a fuoco moderato per un’ora.
Il vino consigliato è il Rosato della Cantina Colli di Serrapetrona o sempre un rosato marchigiano, l’Occhio di Gallo della Fattoria Villa Forano. In alternativa, se volete qualcosa di spumeggiante, il Rosamaro di Masseria Altemura da uve Negroamaro.
PRIMI
BRODETTO D’ANGUILLA A BAC D’AESEN
Questa ricetta tipicamente comacchiese veniva acconciata dai vallanti
che si occupavano anche della preparazione dei pasti nei casoni di valle. Bac d’aesen sembra voglia riferirsi al modo di eseguire la preparazione di questo piatto: veloce, senza soffriggere ma cucinando il tutto da crudo, rendendo la preparazione molto gustosa e soprattutto più leggera. Abbiate cura di scegliere anguille freschissime. Il segreto sta nell’aromatizzare molto il condimento non solo con l’alloro, ma con un bouquet garni che comprenda anche rosmarino e salvia.
INGREDIENTI PER 6-8 PERSONE:
2 kg di anguille da 3 o 4 hg l’una
scorza di limone
2 o 3 cipolle dorate
polenta gialla
0,5 l di acqua
sale
2 foglioline di alloro
pepe
Intaccare le anguille a pezzi di circa 5 centimetri avendo cura di non dividerle completamente; togliere le interiora e lavarle accuratamente. Foderare con uno strato di cipolla tagliata grossolanamente il fondo di un tegame, aggiungere le anguille, distribuire sopra un ulteriore strato di cipolla e versare l’acqua. Salare e pepare, profumare il tutto con l’alloro e la scorza di limone e mettere il coperchio. Portare ad ebollizione a fuoco vivace e di tanto in tanto mescolare il contenuto scuotendo il tegame, senza usare utensili. Ultimare la cottura e servire il brodetto d’anguilla con fette di polenta gialla.
Il vino consigliato in abbinamento è un Fortana del Bosco Eliceo, il vino più famoso della zona anche conosciuto come Uva d’Oro. In alternativa potete accostare anche un Albana di Romagna nella versione secca, ad esempio quella di Fattoria Paradiso.
CAPPELLETTI IN BRODO
Oggi i cappelletti si preparano anche molto tempo prima di Natale perché si possono surgelare. Una volta questo non era possibile e venivano tassativamente confezionati alla vigilia di Natale. Pronto l’impasto, la zdora (che sarebbe la massaia bolognese) chiamava i suoi figli a raccolta per l’ingrato compito di chiudere i cappelletti. Compito ingrato per due motivi: uno perché era noioso star lì fermi a lavorare e l’altro, molto più faticoso, perché nel giorno di magro si doveva per forza resistere ad assaggiare l’impasto che emanava un odore invitante. Dei cappelletti esistono infinite varianti e versioni – a Bologna è stata certificata la ricetta originale –, ma sono sempre validi due accorgimenti: fare la sfoglia molto sottile e i cappelletti di piccole dimensioni (per questo i bambini erano chiamati a chiuderli perché con le loro dita sottili potevano fare dei cappelletti davvero mignon). Il segreto sta nel brodo: che sia di cappone e che non sia quello del bollito. Deve essere un brodo gentile per apprezzare tutta la magnificenza dei cappelletti!
INGREDIENTI:
brodo di cappone
PER LA PASTA:
4 uova
500 g di farina di semola di grano duro
PER IL RIPIENO:
300 g di magro di vitello
burro
150 g di petto di pollo
carota
100 g di magro di maiale
sedano
50 g di mortadella
cipolla
50 g di prosciutto crudo
aglio
100 g di parmigiano grattugiato
olio
2 uova
sale
noce moscata
Preparare la pasta facendo una fontana con la farina, rompere le uova al centro, sbatterle con una forchetta, pian piano raccogliere la farina tutta intorno e cominciare ad impastare fino ad ottenere una massa morbida e liscia. Mettere l’impasto in un sacchetto di nylon e lasciarlo riposare per mezz’ora. Per il ripieno, tagliare a pezzetti il vitello, il maiale, il petto di pollo e farli insaporire in padella con dell’olio e un battuto di carota, sedano, aglio, cipolla e sale. Inserire le carni insaporite nel tritacarne e ripassarle insieme alla mortadella e al prosciutto. Rimettere in padella il tutto e fare assorbire il sughetto rimasto, unendo poi il parmigiano e la noce moscata. A fuoco appena spento unire le due uova e il burro e mescolare bene fino ad ottenere un bel ripieno morbido e senza grumi. Stendere la sfoglia, ricavare dei quadratini di 4 5 centimetri, porvi al centro un pizzico di ripieno, chiudere i lembi trasversalmente e con l’indice dare la forma del cappelletto. Cuocere in brodo di cappone.
Il vino in abbinamento può essere sia un bianco di struttura come il Verdicchio di Matelica, sia un rosso giovane. Nelle Marche si trovano – soprattutto nel Pesarese – alcuni Sangiovese in purezza di buona acidità, tannini non invadenti e ampio profumo di frutta rossa. Perfetti per esaltare la sapidità del brodo, ma anche per pulire la bocca dal grasso. Vi sveliamo un segreto: un tempo si diceva che quando si faceva il brodo di gallina significava che o era malato il contadino o era malato il pollo, tanto raro era imbandire le mense con proteine animali. Ma quando si voleva rinforzare il brodo vi si mescolava un bicchiere di vino rosso, credendo, senza alcuna prova scientifica a sostegno, che il brodo rosso facesse sangue. Se fa sangue non lo sappiamo, ma che faccia appetito è sicuro. Ecco da cosa nasce l’abbinamento del brodo con il Sangiovese.
CASONCELLI ALL’ANTICA
La ricetta, legata agli usi della campagna, risale al tempo in cui si cercava di utilizzare tutte le risorse che la natura offriva, combinandole in modi anche azzardati, arrivando ad ottenere gusti inusuali. In questo piatto troviamo gli amaretti e pure le pere: probabilmente le sue origini si collocano nelle zone di confine tra Brescia e Bergamo dove si coltivavano, tra tanti frutti, le pere e l’uvetta (ora utilizziamo l’uvetta passa ma in origine si usava l’uva avanzata dagli altri utilizzi e fatta appassire). Al posto degli amaretti, invece, anticamente si utilizzava il seme (la mandorla) contenuto nei noccioli delle pesche.
INGREDIENTI PER 12 PERSONE:
PER LA PASTA:
500 g di farina di semola rimacinata
acqua (se necessaria)
5 uova
un pizzico di sale
PER IL RIPIENO:
800 g di pere Martin Sec o Abate
¼ di bicchiere di vino bianco secco
2 tuorli
100 g di amaretti morbidi
100 g di pangrattato
100 g di grana grattugiato
1 spicchio di aglio
50 g di uvetta
noce moscata
40 g di burro
acqua
salvia
sale
pepe
Preparare la sfoglia impastando energicamente la farina rimacinata con le uova, il sale e, se necessaria per rendere la pasta più elastica, l’acqua. Coprire con un panno umido e procedere con il ripieno. In una casseruola mettere a bollire l’acqua, il burro e lo spicchio di aglio, nel frattempo mettere tutti gli altri ingredienti in una terrina e mescolare. Unire l’acqua, dopo aver tolto lo spicchio di aglio, e mescolare sino a far amalgamare il tutto; se l’impasto risultasse troppo asciutto, aggiungere un po’ di brodo. Tirare la sfoglia a strisce di circa 2 millimetri di spessore, ricavare dalle strisce dei quadrati più o meno di 7x7 centimetri. In ogni quadrato mettere una noce di ripieno e piegare in modo da ottenere dei triangoli. Premere bene la pasta ai lati per evitare la fuoriuscita del ripieno durante la cottura. Fare cuocere in acqua bollente e salata per 5 minuti, scolare e servire con una spolverata di grana padano e burro fuso insaporito con delle foglie di salvia.
Il vino consigliato in abbinamento ai casoncelli all’antica e ai casoncelli della Bassa è un Lugana I Frati, un ottimo bianco a base di uva Trebbiano locale, della Cantina Cà dei Frati.
CIAMBOTTO ALLA BISCEGLIESE
Piatto che nasce dalla tradizione marinara del Levante. È di fatto una zuppa di pesce che sfrutta i profumi dell’orto per dare al pescato povero
un’impronta decisa di sapore. Va presentato caldo e accompagnato con le frise. Il segreto per una buona preparazione sta nel tenere le temperature di cottura molto basse e non stracuocere il pesce.
INGREDIENTI PER 6 PERSONE:
300 g di spaghetti spezzati
3 triglie di circa 100 g ciascuna
3 merluzzi di circa 100 g ciascuno
3 gallinelle di circa 100 g ciascuna
3 scorfani di circa 100 g ciascuno
150 cl di acqua
80 cl di olio extravergine di oliva
1 mazzetto aromatico (spicchio di aglio, prezzemolo a foglie intere, ½ carota, ½ gambo di sedano, ½ cipolla)
sale
6-7 pomodorini ciliegini
pepe
Eviscerare e squamare i pesci, lavarli, e quindi ricavarne i filetti. Lavare bene tutte le lische e immergerle in una casseruola capiente con il mazzetto aromatico, i pomodorini tagliati in quattro, il sale, il pepe e 150 centilitri d’acqua. Da freddo portare tutto in ebollizione e lentamente far ridurre il liquido a metà in modo che il brodo del ciambotto sia ristretto, quindi filtrare con un chinois (o passino conico). Cucinare a parte gli spaghetti spezzati, scolarli e terminare la cottura nel brodo bollente già filtrato. Nel frattempo passare in forno, a 150° per circa 7 minuti in un tegame basso, i filetti di pesce, con poco brodo. Servire in piatti caldi e fondi gli spaghetti brodosi e adagiarvi i filetti di pesce, con un’aggiunta di un filo di olio extravergine di oliva del tipo affiorato
a crudo.
Il vino consigliato in abbinamento è un bianco pugliese, il Posta Arignano Bianco della Cantina D’Alfonso del Sordo. In alternativa un Greco di