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Il Veleno dello Scorpione
Il Veleno dello Scorpione
Il Veleno dello Scorpione
E-book368 pagine4 ore

Il Veleno dello Scorpione

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Info su questo ebook

La neve delle Dolomiti si tinge di rosso. Una serie di efferati omicidi a colpi di machete sconvolge la Val Comelico e le uccisioni sembrano in qualche modo collegate all’orrendo massacro di migliaia di persone, perpetrato molti anni prima nell’Africa Centrale. Il caso s’intreccia con la misteriosa scomparsa di una ragazza, che torna a casa dopo sei mesi ma senza voler raccontare nulla di quanto le è accaduto.
Sulla vicenda indaga Leonardo Gava, un giovane ispettore della polizia di Belluno, convinto che la morte non sia l’unico obiettivo dell’assassino.
Le indagini, rese difficili dal clima rigido e da un blackout che ha isolato la zona, si complicano a ogni passo e la verità pare allontanarsi sempre più.
Emergeranno un battesimo di sangue, una resa dei conti e infine un sacrificio: niente nella vita dei protagonisti sarà più come prima.
LinguaItaliano
Data di uscita8 gen 2021
ISBN9788832144796
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    Anteprima del libro

    Il Veleno dello Scorpione - Gianluca Rampini

    978-88-32144-69-7

    Gianluca Rampini

    Il veleno

    dello scorpione

    Il veleno dello s corpione

    di Giancarlo Rampini

    © 20 20 Aporema Edizioni

    www.aporema.com

    Questo romanzo è un’opera di fantasia e ogni riferimento a fatti, luoghi e persone, esistiti o esistenti è puramente casuale.

    CAPITOLO 1

    Belluno, 2013

    «Ispettore Gava? Mi sente?»

    «Sì, Mezzacosta. Quanti sono?» Leonardo portò la mano all’orecchio, premendo sull’auricolare.

    «L’Albanese più due. Belli grossi.»

    «Ottimo. Prendete posizione ma aspettate che agiscano loro.»

    «Facciamo ancora in tempo a piazzare un paio di uomini tra le macchine.» La voce era di Remo Di Lorenzo, il suo assistente.

    «Non ti preoccupare, è tutto sotto controllo.» L’ispettore si strinse nel giubbotto. L’umidità che aveva preso il posto della neve si infilava tra i vestiti, appiccicandoli alla pelle.

    Perché anche un poco di buono come quello che stava per arrestare doveva alzarsi all’alba? Di certo doveva mandare avanti l’autodemolizione, se voleva mantenere credibile la copertu ra, ma cominciare alle sette del mattino era seccante. Per lo meno per lui lo era di certo: non aveva avuto il tempo di andare a correre e di conseguenza non aveva fatto colazione. La carenza di zuccheri e di endorfine, per la mancata attività fisica, concorrevano, insieme a quel bouquet di gomma bruciata, idrocarburi e ruggine, a invischiare il suo cervello in un inopportuno mal di testa.

    Provò con un respiro profondo, niente da fare.

    Anche peggio.

    Osservò un fiocco di neve solitario riflettere le luci dei lampioni e posarsi in una pozza d’olio, mantenere la propria forma per alcuni istanti e poi abbandonarsi alla viscosa opacità del lubrificante.

    Sull’altro lato della strada si accesero in quel momento le luci del McDonald’s; in quella zona industriale a nord di Belluno i bar scarseggiavano e gli unici a essere aperti, oltre la catena americana, erano i cinesi.

    Vide le tre sagome affacciarsi al cancello e soffermarsi osservando il lucchetto forzato. Quel dettaglio li avrebbe messi in guardia, ma non era un problema, la sorpresa non era determinante per il successo dell’operazione.

    Contava di risolvere tutto prima che gli altri agenti dovessero intervenire. Senza fretta si tolse il braccialetto con la Mano di Fatima, non voleva rischiare di perderlo. Nel frattempo osservava le carcasse delle automobili.

    Nicolin Goxhaj, l’Albanese che stava sopraggiungendo con i due scagnozzi al seguito, era il proprietario dello sfasciacarrozze. Gava sapeva per certo che quella era la copertura di un fiorente traffico d’armi.

    I tre delinquenti entrarono e si diressero verso di lui.

    L’ispettore li aspettava vicino all’ufficio, accanto alla pressa. Quando lo videro si irrigidirono, ma non smisero di avanzare. Si fermarono a una decina di metri. I due gorilla sovrastavano il capo di almeno mezzo metro, sia in larghezza che in altezza. Sul volto dell’Albanese, solcato da una cicatrice che dalla tempia scendeva sulla guancia sinistra, si allargò un ghigno da sorcio.

    «Ispettore. Lavora da solo? Non pensavo che la Squadra Mo bile fosse messa così male. Cosa la porta qui?» L’italiano dell’Albanese aveva la classica inflessione di tutti i suoi connazionali, parlava a denti stretti e ammorbidiva la erre.

    «Nicolin, ho bisogno di un favore.»

    «Un favore? Sono quasi onorato. Mi dica.»

    «Devi dirmi come trovare i siriani a cui hai venduto il Semtex.»

    «Sem… cosa? Non so nemmeno cosa sia e non conosco nessun siriano.»

    Gava si fece pensieroso. Guardò prima a terra e poi di nuovo l’Albanese.

    «Sai, in realtà, non ho tutto questo tempo da perdere.»

    «E che ci posso fare io?»

    «Smettere di prendermi per il culo.» Gava aveva cambiato tono della voce, voleva suscitare una reazione. «Se devo sequestrare tutto questo posto di merda lo faccio. Ma tu puoi farti un favore e dirmi quello che ti chiedo. Se lo fai me ne vado e ti do il tempo di levare le tende.»

    L’Albanese non mosse un solo muscolo.

    «Le assicuro che….»

    «Cominciamo con questo?»

    Gava gettò a terra un pacchetto di plastica trasparente contenente polvere bianca. Un finto panetto di cocaina.

    «Quello non è mio. Io non tratto quella roba.»

    «Non è tuo? Era sulla tua scrivania.»

    «Nel mio ufficio?»Per un attimo l’Albanese guardò la porta della baracca che era ancora chiusa. «Ispettore, le ho detto che non conosco nessun israeliano. Questi trucchi può risparmiarli.»

    «Siriani.»

    «Lo stesso.»

    «Non detieni e non vendi esplosivi.»

    «No, davvero. Ispettore, per chi mi ha preso? Ho due bambini, una moglie, chi me lo fa fare?»

    «Quelli chi sono? I tuoi cuginetti?» Gava indicò i due gorilla.

    «Come fa a saperlo? Sono proprio miei cugini. Arrivati da poco da Albania» rispose Nicolin sorridendo.

    «Cugini. Certo. Ora torniamo al Semtex.»

    «È lei che ci torna. Io non ne so niente.»

    «Va bene. Quindi se sparo a quella Alfa rossa là in fondo, magari al bagagliaio, non succede niente?» L’ispettore accennò con la testa a una zona alla sua destra.

    «E che deve succedere?»

    «Proviamo.»

    Gava estrasse la pistola puntandola verso l’auto.

    «Sicuro?»

    Sapeva che quel trafficante non lo credeva capace di un gesto del genere. Invece mirò con attenzione al fanale posteriore e lo colpì mandandolo in frantumi. Quando il colpo partì, i tre albanesi quasi si gettarono a terra coprendosi il capo.

    «Ehi, basta, cazzo! Ho capito!.»L’Albanese urlò alzandosi.

    «Non ti pare di esagerare per un fanale?»

    Lo straniero sospirò e fece un cenno ai due gorilla. Le minacce non erano andate a buon fine, aveva costretto l’uomo a scoprire le carte ma non ad arrendersi. Si concentrò sui movimenti dei due colossi. Quello a sinistra era un po’ più avanti del suo omologo. Quando lo aveva quasi raggiunto, prese la rincorsa per saltargli addosso, ma Gava era già partito. Lo colse di sorpresa colpendolo con violenza al pomo d’Adamo. Questi arretrò boccheggiando e si inginocchiò con le mani sulla gola.

    Sei grande e grosso, non morirai.

    Il secondo si gettò su di lui infuriato, gli occhi spalancati e le mani pronte ad afferrarlo. Scivolò di lato, quanto bastava per evitarlo e per piazzarsi dietro di lui. In fin dei conti sapeva di dover resistere pochi secondi, gli altri agenti stavano già arrivando. Piazzò un calcio con tutta la forza che aveva all’esterno del ginocchio del bestione che si piegò per il dolore, chiuse il pugno con la massima attenzione ed esplose un gancio destro sull’orecchio. Un maschio di taglia media sarebbe svenuto. Quel tipo finì disteso ma non perse conoscenza. Rimase intontito solo per pochi secondi, poi estrasse una pistola da sotto il giaccone. Gava, che ancora impugnava la sua arma, gli sparò alla spalla, inchiodandolo a terra. Neutralizzato anche il secondo tirapiedi, cercò l’Albanese con lo sguardo e vide che stava scappando. Non appena varcò il cancello fu agguantato da due agenti.

    Di Lorenzo lo raggiunse. Leonardo ignorò la sua espressione.

    «Chiama un’ambulanza.»

    Non era più così sicuro che i due sarebbero sopravvissuti.

    Di Lorenzo aspettò che gli altri agenti li superassero.

    «Stavolta Gabbani ti fa il culo a strisce. E non dirmi che non ti avevo avvertito.»

    «Tu pensa a fare in modo che non ci lascino la pelle. A Gabbani ci penso io.»

    Uscendo, passò accanto all’Albanese che ammanettato si agitava nella presa dei poliziotti e lo chiamò: «Ispettore? Aspetti un attimo.»

    Gava si fermò con l’espressione scocciata.

    «Che cosa vuoi, Nicolin?»

    «Non è di siriani o di albanesi che si deve preoccupare.»

    Leonardo lo guardò perplesso. Si girò e si rivolse ai colleghi.

    «Mettete i sigilli. Di Lorenzo, avverti la procura: che autorizzino la perquisizione di questo posto e dispongano il fermo per il signor Goxhaj. Dobbiamo spremerlo» disse dando all’Albanese un buffetto sulla guancia, «poi ci vediamo in questura.»

    CAPITOLO 2

    Africa centrale, 1991

    Sono vivo. Quando tutti sono scappati mi sono nascosto tra di loro, che almeno mi facessero da scudo. Uscendo dalla foresta, verso le baracche sono inciampato e cadendo ho colpito una radice nodosa. Prima di perdere conoscenza ero sicuro che ci avrebbero raggiunto e che non mi sarei mai svegliato. Invece sono ancora qui. Vivo. Il dolore lancinante che mi martella le tempie lo conferma. Appena mi muovo un nugolo di mosche si solleva ronzando, sono interessate alla ferita alla tempia. Agito il braccio per scacciarle e mi alzo, stordito ma consapevole che non posso attardarmi. Devo rispettare quest’occasione che mi è concessa e so per certo che non sarà facile.

    Inspiro. Un fetore dolciastro ammorba l’aria, e per poco non vomito. Mi rimane in gola come melassa appiccicosa, sono così assetato che non riesco a deglutire. Il caldo è opprimente, come una mano gigantesca che mi schiaccia al suolo.

    Devo muovermi. Sono scalzo. Perché sono scalzo? Qualche pezzente mi avrà fregato le scarpe. Le calzature sono un lusso in questo merdoso angolo di Africa.

    Metto a fuoco quello che mi circonda, devo coprire gli occhi, il riverbero del sole mi brucia le retine. Pochi metri più avanti la foresta lascia il posto al villaggio, una strada di terra gialla s’infila tra le case di mattoni e lamiere arrugginite. Dovunque cadaveri massacrati da una furia immonda. Corpi dilaniati a perdita d’occhio e la terra impregnata di sangue nero.

    Emerge un ricordo: l’aereo presidenziale che precipita e l’inizio di quella mattanza, il resto è ancora nebuloso.

    Devo proseguire, andarmene da qui. Per farlo sono costretto a camminare tra i corpi, sono così tanti che li calpesto, sento le ossa e la carne morta sotto i piedi nudi. Un osso si spezza sotto il mio peso, lo schiocco mi penetra nel cervello. Provo ribrezzo e un conato mi assale, ma devo dominarmi.

    Devo vivere e cibarmi dell’anima dei traditori.

    I miei piedi ritrovano il terreno polveroso. Un’ombra passa sul sole, poi un’altra e un’altra ancora. Proteggo gli occhi con la mano e osservo il cielo. Avvoltoi e marabù volteggiano guidati dall’odore della morte, li aspetta un banchetto sontuoso. Mi fermo a un incrocio. Davanti a me la strada si perde sfocata nella calura; a destra, dopo una discarica a cielo aperto, distinguo il campanile di una chiesa. Ho bisogno di una via d’uscita e scelgo la strada di destra.

    Mi avvicino, davanti alla cappella di legno scrostato si stende un altro tappeto di carne, intrecciato con braccia, gambe e busti, macchiato del colore della morte: lì il pasto dei necrofagi è già iniziato. Passo accanto a un marabù che scuote il becco torcendo la carne da strappare.

    Entro nella chiesa, i banchi sono gremiti di cadaveri, alcuni riversi, raggiunti mentre scappavano, altri in posizione fetale richiusi in un guscio spezzato dalla furia del machete. Una donna è inginocchiata, le mani sono giunte in preghiera, la testa è mozzata e mi guarda con gli occhi sgranati dal sedile del banco successivo. Ho visto delle fosse comuni, ma non ho mai visto niente del genere.

    Mi addentro verso il presbiterio. Lì l’espressione della violenza assume una forma più creativa, una rappresentazione che trascende l’epurazione razziale. Un uomo, il sacerdote di quella mutilata congregazione, è seduto, appoggiato al pulpito. Ha lo sguardo fisso nel vuoto, lacrime di sangue attorno agli occhi tumefatti e senza palpebre. Lo hanno costretto a guardare il suo gregge mentre veniva scannato.

    È ancora vivo, muove le labbra ma è in stato di shock.

    A terra, accanto a lui, trovo un portafoglio e un passaporto. Interpreto quella scoperta come un segno. Devo assumere la sua identità. Soldi non ce ne sono, ma quello che mi interessa è il documento. Con l’identità e gli abiti del sacerdote posso sperare di arrivare alla zona controllata dai Dutu, che sono più tolleranti nei confronti dei preti e spero mi lascino passare. Da lì potrei cercare di raggiungere il confine con l’Uganda, il lago Victoria e la Tanzania sulla sponda orientale.

    La sola idea di toccarlo mi disgusta, ma lo devo spogliare. Lo sfioro e lui si adagia sul pavimento. Stringo i denti e trattengo il fiato per non vomitare, lo prendo per le gambe e lo distendo supino. Tolgo il collarino bianco, sbottono la camicia e con molte difficoltà riesco a sfilarla. Stessa cosa con scarpe e pantaloni che ripongo sull’altare per non sporcarli. Si lascia denudare come un bambolotto snodato. Passo in sacrestia e trovo un rasoio a serramanico sul bordo di un lavandino. Per ciò che devo fare la lama è troppo corta ma lo prendo, mi servirà dopo. Esco dalla porta posteriore, un mucchio di pietre, ai margini di una fossa nella terra scura, mi suggerisce una soluzione.

    Due sono troppo pesanti, riesco a sollevare la terza con fatica. La porto dentro e torno dal prete. Lo osservo, torturato, sfregiato, ora anche nudo e umiliato. Mi avvicino alla testa, sollevo il masso più che posso e con tutta la forza di cui dispongo lo scaglio sul suo cranio. Il prete accenna un gemito, braccia e gambe hanno un sussulto, le ossa si frantumano come il guscio di una noce. Sposto la pietra per assicurarmi del risultato. È buono, ma non ancora perfetto. La testa è schiacciata per metà. Ripeto il gesto due volte fino a che quello che ne rimane non assomiglia a niente di umano.

    Mi siedo a riprendere fiato. Grondo sudore, le mosche non mi danno tregua. Devo fare alla svelta e andarmene. Mi guardo attorno. Alcuni banchi più indietro scorgo un machete piantato sul piano dell’inginocchiatoio. Lo afferro e capisco perché è rimasto lì, non ne vuol sapere di staccarsi. Cambio posizione, lo strattono con entrambe le mani e dopo molti tentativi cede.

    Torno al cadavere e senza pensarci su, con due colpi secchi, trancio le mani che devo far sparire. Le avvolgo in un pezzo di t-shirt. Prima però torno in sacrestia. Apro il passaporto e osservo la foto. Il prete si chiamava René Clement, quattro anni più giovane, completamente calvo e francese. Avere una patetica e petulante madre belga ha finalmente un senso. Alla calvizie si può porre rimedio. Vado al lavandino, non c’è acqua corrente, solo una brocca di acqua marrone e una saponetta. Mi bagno i capelli e incomincio a sfoltire. Quando non rimangono che radi ciuffi, aggiungo sapone per ottenere un po’ di schiuma e tolgo quello che avanza. Mi ferisco molte volte e spero di non prendermi qualche malattia. Quando la mia testa assomiglia a una palla che luccica al sole, indosso gli abiti del sacerdote. Mi stanno leggermente larghi, ma nessuno ci farà caso. A nessuno interesserà. Raccolgo il fagotto inzuppato di sangue, lo tengo con due dita, è sangue di un bianco, ma preferisco comunque evitare di sporcarmi.

    Esco e mi guardo attorno, ancora silenzio, ancora caldo. Non vedo anima viva, che per ora è una cosa positiva. Mi incammino tra le baracche svuotate di ogni segno di vita. Volute di fumo acre emergono tra le lamiere accatastate.

    Un cane rognoso salta fuori da un anfratto scuro e si avventa su di me, si ferma a distanza di sicurezza e mi abbaia contro. Mi fermo e lo osservo. Spina dorsale e costole sono evidenti sotto la pelle grigia e tirata dalla fame. Non amo gli animali ma li rispetto. Accettano la loro natura, niente false morali.

    Getto a terra, davanti a lui, il souvenir che ho preso a René. Il bastardo si avventa su una mano, la afferra e s’infila nel suo buco. Aspetto. Esce un’altra volta, circospetto, addenta anche l’altra e sparisce di nuovo. Quando sento che sgranocchia il suo pasto me ne vado.

    CAPITOLO 3

    Padola, 24 dicembre 2012

    Un ragazzino grassottello, il portiere della squadra verde, piagnucolava appoggiato al palo della porta tenendosi una caviglia. Alcuni dei suoi compagni gli stavano attorno per consolarlo, altri alzavano gli occhi al cielo, insofferenti.

    Gli avversari lo guardavano con aria di scherno.

    «Dai Polpetta, che non ti sei fatto niente» disse gesticolando il più alto del gruppo.

    «Vai a quel paese!» Anche dolorante non se la sentiva di dire parolacce.

    «O giochi o esci.»

    «Gioco, che credi?» Provò il piede sul terreno e verificato che fosse tutto a posto si piazzò tra i pali della porta.

    Una partita di calcetto è una cosa insolita a Natale, pensò Marika. Il campo però era sgombro dalla neve a causa dell’inverno mite. Fatta eccezione per le piste, innevate artificialmente, la valle era più grigia e marrone che bianca.

    Infilò gli scarpini e chiuse l’automobile con il telecomando.

    Si guardò nello specchietto per sistemarsi il berretto sulla massa di ricci neri. Non si era mai posta problemi a essere l’unica atleta mulatta del bellunese, ma fare sci di fondo con la pettinatura afro le sembrava eccessivo.

    Raccolse gli sci e raggiunse la pista. Passando accanto al bar del centro sportivo due ragazzi la salutarono e lei ricambiò con un gesto della mano.

    L’aria frizzante e il calore del sole la riempivano di energia. Chiamò il padre e lo avvertì che avrebbe tardato. Riposto lo smartphone nel taschino sul braccio, agganciò gli sci e si mise in marcia. Dopo poche spinte aveva già preso il ritmo, inoltrandosi nel percorso che correva lungo il fiume. Presto le canzoni del bar e gli schiamazzi dei ragazzini si dissolsero nel gorgogliare dell’acqua schiumosa e nella musica degli auricolari.

    Un paio di chilometri per scaldarsi e poi aumentò il ritmo.

    I muscoli rispondevano bene, col fiato non aveva problemi.

    Superò agilmente la collinetta vicino alla segheria.

    Si lasciò portare dagli sci nella discesa successiva prendendo velocità. In prossimità di una nicchia con una Madonna rallentò per farsi il segno della croce. Il percorso da quel punto in tersecava il fiume due volte, spostandosi da una sponda all’altra, e cominciava a salire. Finito lo slancio, si mise a scalare il pendio a spina di pesce. Un nuovo tratto pianeggiante passava accanto alla colonia salesiana; era affascinata da quell’edificio, che sembrava uscire da una fiaba, con le sue guglie e i suoi merli.

    Salendo, la pista usciva dal bosco e attraversava il prato retrostante le terme, anche lì non c’era nessuno. Tutto chiuso.

    Si accorse che il sole sarebbe presto finito dietro alle nuvole che nel frattempo erano scese dal passo. Poco male, se il tempo avesse peggiorato avrebbe saltato il pranzo e finito un po’ prima. Una brezza umida confermò la sua idea.

    Doveva però macinare più chilometri, altrimenti l’allenamento sarebbe stato inutile, vigilia o non vigilia. Il tracciato a quel punto rientrava nel bosco. Per un istante si convinse di aver visto qualcuno tra gli alberi alla sua destra. Non rallentò, sapendo che era facile confondersi in quelle condizioni. Pochi metri più avanti successe di nuovo. A quel punto si fermò per controllare, ma la fitta penombra non l’aiutava.

    Tolse gli auricolari e sentì una voce. Guardò nella direzione da cui proveniva e vide un uomo carponi che sembrava in difficoltà, tossiva e gemeva di dolore.

    «Ehi! Le serve aiuto?» gridò strizzando gli occhi. Senza nemmeno aspettare una risposta staccò gli sci e si avvicinò. «Le serve una mano?»

    L’uomo si alzò senza voltarsi.

    Marika non se l’aspettava e indietreggiò: «Finalmente!» disse.

    In quel momento qualcuno la afferrò alle spalle schiacciandole sulla faccia un panno dall’odore pungente. Non fece nemmeno in tempo a reagire, sopraffatta da quella sostanza chimica e dallo spavento.

    Si afflosciò tra le braccia del suo aggressore. Per i pochi istanti di coscienza che le rimasero si sentì trasportare in spalla. Poi nel buio l’ultimo pensiero corse al padre. Se non fosse svenuta sarebbe scoppiata a piangere.

    CAPITOLO 4

    Belluno, dicembre 2013

    Sulla scrivania dell’ispettore c’erano un Mac color ghiaccio, a cui teneva particolarmente, e un telefono, al quale avrebbe rinunciato volentieri. La scrivania di Remo era ingombra di incartamenti, pile di documenti e appunti.

    «Remo, non c’è bisogno che te lo dica» disse Gava giocherellando con una penna.

    «Alle scartoffie penso io. Lo so.» Di Lorenzo già lavorava al computer.

    «Bene. Io devo scappare. Ho un appuntamento.»

    «Con una donna?» Smise di digitare.

    Leonardo ci rifletté per un istante.

    «In un certo senso.» Indossò il giaccone e si fermò sulla porta.

    «Come in un certo senso?»

    «Per ora non posso dirti di più.»

    «Gava, lo sai che quando sull’annuncio c’è scritto con sorpresa non intendono una bottiglia di spumante, vero?»

    «Non ci avevo mai pensato; ma non è quello che intendevo, anche se non ci sei andato lontano.»

    Guardò l’orologio e uscì. Lasciata la questura, si avviò verso via Feltre, in direzione della prefettura.

    Sapeva che il prefetto aveva un solo motivo per convocarlo. Di Lorenzo ci aveva visto giusto, la sparatoria nell’autorimessa non era passata inosservata.

    Superò di slancio via Pesaro infilandosi tra le bancarelle natalizie di piazza dei Martiri e le persone che, come in pellegrinaggio alla Mecca, si muovevano lentamente circumnavigando l’albero di Natale. Il profumo delle frittelle e della porchetta gli ricordò che ancora non aveva mangiato. Fu tentato di fermarsi davanti a un baracchino che sfornava panini caldi a ritmo serrato, ma rinunciò, convinto che fosse meglio affrontare quella imminente strigliata a stomaco vuoto. Osservando quattro ragazzi, seduti sul bordo della fontana in mezzo al parco, si rese conto di sentirsi come uno studente che doveva affrontare un professore deluso, un insegnante di cui non aveva timore e che lo aveva perdonato altre volte.

    Pochi minuti più tardi svoltava l’angolo di via Duomo. Un gruppo di signore imbacuccate si attardava davanti al furgone di un venditore di formaggi. Scansò un’ auto dei Vigili Urbani che attraversava la piazza e rallentò nei pressi della fontana.

    La facciata veneziana di Palazzo dei Rettori e l’imponente Torre dell’Orologio raccontavano una storia secolare, alla quale Leonardo sembrò di mancar di rispetto, tanto era banale la ragione per cui era lì. Si infilò sotto gli archi ed entrò nel palazzo. Salì senza fretta i gradini della scala rinascimentale che conduceva al primo piano. Nel corridoio l’odore del legno antico si mescolava con quello stantio dei tappeti. Dopo la Sala Grande proseguì verso l’ufficio del prefetto che si trovava nell’ala opposta, accanto alla Torre dell’Orologio.

    Si presentò alla segretaria, una donna rubiconda sulla cinquantina con un paio di occhiali da lettura in bilico sul naso minuto.

    «Buongiorno, sono l’ispettore Gava. Il prefetto mi ha convocato.»

    «Ne è sicuro? Sull’agenda non risulta» disse la donna senza nemmeno controllare.

    «Non verrei mai qui per una visita di cortesia...»

    «Non so come occupa il suo tempo, ma se non ha un appuntamento il dottor Gabbani non può riceverla.»

    Leonardo era allibito.

    «Potrebbe gentilmente chiamarlo e avvisarlo che sono qui?» disse appoggiandosi alla scrivania.

    La segretaria lo guardò con aria indispettita.

    «Attenda.» Alzò l’interfono e con tono deferente chiese conferma.

    «Vada, il dottore l’aspetta.»

    Senza salutarla entrò nell’ufficio. Lo trovò affacciato a una finestra, con le mani in tasca, impeccabile in un completo nero di sartoria.

    Gava conosceva Gabbani e aveva imparato a diffidare della sua calma e dei suoi modi signorili. Come tutti in polizia sapeva delle sue inclinazioni sessuali, ufficialmente mimetizzate da un matrimonio decennale. E come tutti ne conosceva la sagacia e la spietatezza.

    Uno squalo dai modi cortesi è sempre uno

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