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Storie vere per donne inventate
Storie vere per donne inventate
Storie vere per donne inventate
E-book209 pagine2 ore

Storie vere per donne inventate

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Info su questo ebook

Nelle sere d'inverno, con le mie cuginette sedute attorno al braciere, ascoltavamo le fiabe e i racconti di nonna, zie, mamme Era un momento fatato. Ce ne stavamo in cerchio a scaldarci, rapite da quelle storie appassionanti. Stavamo attorno alla "conca", con la brace viva che scintillava nei nostri occhi e le "scorcie" di limone che ardevano scoppiettando, inebriandoci e impregnando la stanza di un odore acre, ma particolare, un odore antico. Quelle storie incantavano noi bimbe come fiabe arrivate da lontano, mentre nonna ci assicurava fossero tutte vere, e ci arrabbiavamo quando le grandi usavano il labiale per non farsi sentire: "Si vasaru" "Nisciu incinta" Ricordo perfettamente ognuna di quelle storie, quasi sempre storie di donne, donne che ai miei occhi da bambina si raffiguravano come eroine combattive, come l'Angelica dell'Orlando furioso. Ricordo ogni singola storia e di come, bambina, fantasticavo su quelle donne. E di quelle donne vi narrerò... Storie vere per donne inventate.
LinguaItaliano
Data di uscita25 set 2018
ISBN9788827846476
Storie vere per donne inventate

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    Anteprima del libro

    Storie vere per donne inventate - Lia Mendola

    Francesca

    Astura e v’arrifriscanu…Cevusi…cevusi

    Era la voce che mi svegliava tutte le mattine, la voce del venditore di gelsi, arrivava dalla campagna con un bel panaro pieno di cevusi e abbanniava:

    "Astura v’arrifriscanu"

    Come diceva mia madre mangiare quel frutto al mattino presto ti rinfrescava la giornata, il suo sapore aveva un effetto dissetante. Con una lira ti vendeva due foglie grandi, piene di gelsi bianchi o rossi.

    Insieme a mamma mi alzavo molto presto al mattino, c’era tanto da fare, accendevo u fuculàru , una costruzione in pietra, non molto grande, che aveva sopra tre spazi, tre buchi di grandezze diverse dove si posizionavano le pentole di coccio o rame, sotto aveva uno sportellino di ferro dove inserivo la carbonella e i legnetti per accendere il fuoco.

    Cominciavano così, sempre uguali, sempre le stesse le giornate nel piccolo paese dove abitavo, Prizzi, un paesino siciliano di montagna non troppo distante da Palermo.

    La mia vita scorreva tranquilla, ero una ragazzina assennata, come diceva mamma; a soli quattordici anni gestivo la casa, i fratelli, non avevo grilli per la testa, ero rassegnata alla vita che mi aspettava.

    Sapevo che prima o poi avrei dovuto sposarmi, accudire un marito, fare dei figli.

    Sogni???? Cos’erano?

    Era il 1927 e le ragazze non avevano aspettative di emanciparsi, o vedere il mondo, in quel paesino. Io non mi ero mai mossa da Prizzi, non avevo mai visto il mare, eppure ero nata in un’isola. Non conoscevo il mare, strano per una isolana!

    Ero sempre stata nel mio piccolo guscio, in quel paesino che non dava, a quell’epoca, neanche la possibilità di concepire il termine libertà ad una ragazza.

    Del mare ne avevo sentito parlare da mio padre che fece il militare in marina e poi durante la guerra, la Grande Guerra, era stato imbarcato su una nave e trasferito in una base importantissima qui in Italia, e fu così che mio padre si innamorò di una città che non aveva mai visto ma che gli trasmetteva pace, e ogni tanto nelle sere d’inverno attorno al braciere ci raccontava di quella grande distesa d’acqua e di quella città.

    Una città lontana, ci raccontava papà, che per arrivarci dovevi attraversare il mare con la nave, giorni e giorni di viaggio, e io non capivo come, non avevo mai visto il mare, figuriamoci una nave.

    Papà la descriveva paragonandola a una noce grandissima in grado di portare nel suo interno tante persone, io e i miei fratelli riempivamo un secchio d’acqua e dopo aver svuotato una noce la poggiavamo delicatamente sull’acqua facendola galleggiare.

    Papà quando parlava di quella città lontana si trasformava, diventava un poeta, lui che non era neanche istruito. Quella città lo aveva incantato con i suoi colori, i suoi sapori e col calore e l’umanità della sua gente. Quella città, così lontana ai miei occhi da bambina, era Taranto, chiamata anche la Città dei due mari, il mare Grande e il mare Piccolo, col suo ponte che collegava due Borghi, un ponte che era un miracolo: si APRIVA al passaggio delle grandi navi. Mi aveva anche spiegato come funzionava, che era attivato da due turbine idrauliche, delle grandi pale, poste sul Castello degli Aragona diceva papà, io ci capivo poco, per me era solo un miracolo.

    Papà quando ci raccontava di quella città sembrava che leggesse un libro, invece non facevi fatica a capire che era il suo cuore che narrava…

    Taranto, con il suo litorale, riuniva nature differenti, singolari, zone acerbe e deserte con scogli a strapiombo sul mare e, se guardavi bene bene, anche lì trovavi dei frutti, i mitili, le cozze, frutti che nascevano solo in mare e poi quelle lunghe distese di sabbia sottile e minutissima che si fondeva col miracolo di quella distesa d’acqua che papà chiamava mare e il suo colore azzurro intenso e il verde della campagna si fondevano sposandosi  in uno scenario  particolare e unico di quella città, colline, estese valli e fasce rocciose formavano invece il panorama dell’entroterra, con dei magnifici particolari paesini, e delle  grotte carsiche, dove sicuramente erano vissuti uomini primitivi. Ci narrava che se ti allontanavi di qualche chilometro dalla città, vedevi delle piccole case bianche a forma di cono che lui chiamava trulli, ci parlava di quella città costruendo piano piano un meraviglioso collage.

     Il mare, il ponte, la campagna i trulli cose diverse tra loro ma legati armoniosamente in un meraviglioso mosaico e le caselline dorate, argentate, colorate di quel fantastico mosaico si fondevano tra loro come un disegno vivo, pulsante, vibrante. E poi c’erano loro, i tarantini, persone che ti facevano sentire a casa nonostante il periodo terribile di quella guerra, gente aperta, solare e sincera.

    Gente di mare!

    Aveva conosciuto un uomo, un siciliano sposato con una donna tarantina e trasferito lì da tempo oramai, Totuccio, lavorava all’arsenale, dove costruivano le navi, quelle grandi noci che immaginavo da bimba; era maestro d’ascia, Anna, la moglie, era una persona leale, onesta, gioiosa.

    Per mio padre quella fu la prima opportunità di confrontarsi con gente diversa, gente che viveva dall’altra parte del mare.

    Trovò, con Anna e Totuccio, una famiglia, avevano due bimbe piccole, erano veramente delle grandi persone. Se non fosse stato per loro, diceva papà, sarebbe morto di solitudine, con loro si sentiva a casa! A casa sua.

    Anna lo aiutava a scrivere le lettere che ci mandava e ogni tanto lo incoraggiava, in una lingua a noi sconosciuta.

    "Dopə lə tronərə e lə tərlambə venə 'a vunazzə

    Come dire che dopo ogni tempesta arriva il sereno, la guerra sarebbe finita e lui ritornato da noi.

    Rimasero in contatto tutta la vita, si scrivevano continuamente. Ci avrebbe portato un giorno, ci diceva, invece un’estate vennero loro a trovarci rendendoci felici e arricchendoci l’anima.

    Si contavano sulla punta delle dita le persone che in quel periodo erano uscite da quel paese per vedere un altro pezzo d’Italia, papà era uno dei pochi e per questo gli venne data la nciuria, il soprannome, lo chiamavano Vittorio l’italiano, in fondo non erano neanche settanta anni che si era costituito il regno d’Italia, forse per questo, quando passavi dalla piazza, sentivi qualche anziano imprecare

    "Tutta colpa di Garibaldi stavamu megliu suli e indipendenti"

    Ma questa è un’altra storia…

    A pensarci bene quel racconto di papà, le parole che usava e la passione che ci metteva, era come aver letto il primo libro della mia vita, io che non sapevo né leggere, né scrivere. Ma sapevo firmare, quello sì, la perpetua del paese un giorno, dietro richiesta di papà, mi aveva insegnato a mettere la firma, quel giorno mi ero sentita orgogliosa, istruita, mamma e nonne non sapevano ancora farlo.

    La vita di tutti i giorni era sempre quella, sempre uguale, alzarsi, pulire, preparare il pasto agli uomini che si svegliavano all’alba per andare a faticare in campagna.

    Avevo tre fratelli più grandi di me Alfio, Salvatore e Vincenzo. Ciccina mi chiamavano, facendomi arrabbiare, Ciccina perché? Era così bello in mio nome… Francesca.

    Tutti i pomeriggi finiti gli obblighi di donnina di casa sedevo in terrazzo con mamma a ricamare, lei era bravissima, intaglio, punto erba, punto pieno, sembrava nata solo per fare quello, mi istruiva bene, preparavo il corredo per quando mi sarei sposata.

    Era in quelle occasioni, in quei pomeriggi passati a ricamare, che lo notavo, seduto alle finestre della casa dirimpetto alla mia, una casa bella, tutta gialla, le persiane verdi e il portoncino dello stesso colore che spiccavano in quel giallo delicato quasi trasparente, e dei balconi meravigliosi, grandi, pieni di piante, di plumerie gialle e bianche che ne sentivi l’odore anche dal mio di balcone, tante erano, e tutte curatissime. E dietro quelle persiane vedevo un uomo, un bell’uomo, sempre nella stessa finestra, sempre seduto e sempre intento a guardarmi:

    Ma sempre seduto era?

    Questa cosa mi faceva pensare, non l’avevo mai visto alzato, forse non era seduto:

    Macari era curtu?

    O forse aveva male alle gambe? Chissà…

    Non facevo in tempo ad alzare lo sguardo che mamma mi riprendeva:

    "Francesca non guardare, calati l’occhi"

    Abbassavo lo sguardo e continuavo a ricamare.

    Nessuno parlava mai di quest’uomo, non facevo domande in merito, da tempo avevo intuito che non avrei ricevuto risposte.

    Era il figlio del parrino, credevo da ingenua adolescente che don Nunzio avesse tenuto a battesimo tutti i bimbi del paese e solo per questo venisse chiamato parrino, ma ahimè non ci volle tanto tempo a capirne il vero motivo.

    Arrivava l’inverno e poi la primavera, finiva l’estate per far posto al mite autunno, aspettavo Natale e Pasqua e tutto scorreva in una tolleranza quasi logorroica. Così visitavo le mie giornate!

    Rassegnata e sottomessa alla mia condizione di fimmina…

    Aspettando cosa? Crescere, sposarsi, allevare dei figli per poi morire e magari, se ero stata perfetta, essere ricordata come la buonanima.:

    Siamo destinate, tutto comincia e tutto finisce

    Così diceva nonna Concetta. 

    Uscivo la domenica mattina presto, con mamma per andare a messa, la prima messa, quella delle 6.

    Dopo la messa si tornava di fretta a casa, bisognava preparare il pranzo della festa, lo aspettavo tutta la settimana quel pranzo, pasta al pomodoro con melanzane fritte e ricotta salata, scoprii col tempo che era la famosa e apprezzata pasta alla Norma. Di secondo la mamma ci preparava bruciuluni ri cutini) rotolo di cotenna di maiale con ripieno di pan grattato tostato, uovo sodo a fettine, passolina e pinoli…cotto nel sugo, ma in realtà per mangiarlo dovevi aspettare la cena.

    A quei tempi mi sembrava una gioia il pranzo della domenica, durante la settimana il sugo te lo sognavi, patate, pasta alla carrettiera, aglio olio e pan grattato tostato al posto del formaggio; non c’erano molte possibilità economiche e facevamo la spesa nell’unica drogheria del paese che ci faceva credito. Andavamo con il quadernino e segnavamo tutto quello che compravamo, solo che alla fine del mese la putiara, la bottegaia, metteva cinque lire in più per il credito.

    La mamma era sempre preoccupata che la bottegaia potesse chiederle in saldo in anticipo.

    Ci arrangiavamo con i prodotti dell’orto, melanzane, sparacerri, tinnirumi e zucchine, zucchine e ancora zucchine; fritte, lesse con la pasta, trifolate e i miei fratelli, quando si sedevano a tavola, esclamavano:

    Conzala comu voi, sempri cucuzza è…

    Ricordo ancora quelle domeniche, tutte uguali ma tutte belle, con tutta la famiglia riunita, con le nonne che venivano a trovarci e finivano sempre per litigare e noi ragazzi che non aspettavamo altro che vederle battibeccare tra loro, nonna Concetta e nonna Sarina

    Mi che stolita!

    "Cu parrò m’arricriò la istruita della famiglia"

    Bell’affare abbiamo fatto a imparentarvi con voi

    Nonna Concetta, la nonna materna, era tremendamente deliziosa a volte mamma le chiedeva:

    "Mi prepari lo sfincione per i bimbi?"

     "Camurria chiedi a tua suocera! Ma sempre a me? Sempre a me vero? E che è u cchiù fissa ratta u caciu?"

    E intanto aveva già tirato fuori il lievito, la farina e cominciato a impastare quella pizza che solo lei era in grado di cucinare così perfettamente.

    Erano così le nonne, si punzecchiavano per qualsiasi cosa, soprattutto la domenica quando venivano a trovarci e continuavano per tutto il pranzo, fin quando mamma non prendeva le redini in mano:

    "Amunì e finitela tutte e due! u signuri lassa fari, ma no suprafari… Ma tutte le domeniche la stessa camurria? E basta!"

    Noi piccoli ridevamo, era divertente vederle, sentirle, anche se sapevamo che era tutta una finta, in realtà quando non si vedevano per un giorno si cercavano accertandosi che all’altra non fosse successo nulla di male. 

    La domenica mamma mi permetteva di mettere il vestito buono, l’unico che avevo, man mano che crescevo ci faceva la iunta, lo allungava adattandolo con stoffa che arrivava da altri vestiti e quando diventava troppo piccolo lo passava a una delle cuginette.

    La domenica pomeriggio, ogni tanto arrivavano in paese, i pupari, l’opera dei pupi, e papà ci portava allo spettacolo. Se chiudo gli occhi oggi ancora ricordo ogni singola storia, ogni singolo personaggio, le gesta dei paladini di Francia, Orlando, Rinaldo

    Vile guerriero combatti

    Sfodera la spada vigliacco

    Ma la mia preferita era lei, Angelica, la bella Angelica che fece innamorare tutti, Angelica piena di beltà e carattere, la ammiravo e allo stesso tempo la invidiavo. Non sarei mai stata come lei, bella, coraggiosa, indipendente. Sapevo di non avere speranze, la mia vita era rassegnatamente scritta, come per ogni donna, in quel periodo, in quel paese.

    E proprio una di quelle domeniche la mia vita cambiò, successe qualcosa che mi scrollò per sempre da quel torpore e quella rassegnazione che mi aveva accompagnato per tutta la vita, e piano piano cominciai a sentirmi anch’io come l’eroina dei miei sogni, Angelica.

    Quella domenica un episodio inimmaginabile agli occhi della ragazzina che ero, avrebbe per sempre cambiato la mia vita; qualcosa di apparentemente terribile, anche se a volte è proprio dalle cose tremende che si comincia a vivere, che si cambia il percorso della vita, proprio come sosteneva papà…

    Di `na rosa nasci `na spina. Di `na spina nasci `na rosa.

    Erano le 5,40 e con mamma ci eravamo preparate per andare a messa, era una bella mattinata di maggio, cominciava a sbocciare la vita

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