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Asterizontes
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E-book153 pagine1 ora

Asterizontes

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Fantasy - romanzo breve (99 pagine) - Un'avventura epica ispirata alla mitologia greca. La lotta dell'eroe Orion contro la stirpe impura degli Asterizontes, dalla terra alle profondità dell'Ade e sino alle stelle.


Asterizontes, coloro che sono destinati alle stelle, figli degli dei e degli uomini. Alcuni sono acclamati come eroi, altri sfuggiti come mostri. Calcano la terra dei mortali portando il peso di antiche gelosie e folli amori, combattendo le guerre sanguinarie dell’eterna marea di luce e ombra. Un tempo erano sacri guerrieri di Artemis, sterminatori di abomini, ora sono uno sparuto manipolo che annaspa nel rimorso, finché una donna smarrita porta loro una terribile notizia. Saprà l'eroe cieco Orìon scoprire la verità e trovare vendetta? Potrà il fedele, semi umano Seirios dimostrare il suo valore? E Schiè, la cacciatrice, riuscirà a sopire il fuoco della sua ira?


Valentino Eugeni, classe 1975, è nato in un piccolo e ridente paese adagiato sul collinare entroterra marchigiano. È autodidatta in tutto, curioso in maniera parossistica, eclettico, eccessivo e innamorato della lettura e gattaro impenitente, come, del resto, Edgar Allan Poe, Howard Philips Lovecraft e Terry Pratchett. Eugeni è giocatore di ruolo da quando esisteva solo D&D prima edizione e si é nutrito di tutto l’immaginario che usciva dalla penna di Weis e Hickman da La sfida dei gemelli a tutte le saghe di Dragonlance e compagnia. Tra i suoi amori letterari Isaac Asimov, Lovecraft, Frank Herbert, Robert Ervin Howard. Ama lo stile crudo e immaginifico di Clive Barker, ma anche Gaiman al quale si ispira molto come stile e idee.

LinguaItaliano
Data di uscita2 feb 2021
ISBN9788825414646
Asterizontes

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    Anteprima del libro

    Asterizontes - Valentino Eugeni

    9788825409437

    Asterizontes

    πρόλογος

    Fu predetto: – Che il seme del cielo non corrompa la progenie della terra, poiché forieri di rovina e notte eterna sono i figli delle stelle.

    L’eco della lancia spezzata lo investe come un’onda di piena. Lui si volta, il cuore stretto nel pugno di un gigante, gli occhi arsi dal sudore e dalla fatica. Lo vede cadere, cadere come un tronco abbattuto, come una torre espugnata, e poi la mole scura, orrida, del mesos che lo afferra, stritola e scuote, spezzandolo in due.

    Ode la sua voce urlare, vede il bronzo infranto scintillare di sangue, e corre, corre tra la polvere e il fumo acre delle bestie arse. Corre.

    Ciò che trova tra le sue braccia è un fantoccio, una farsa, un oggetto di rosso e cenere che un tempo era suo padre. Grida. Si alza come una furia, infiammato dalla vendetta.

    Le zanne del mesos dal volto orribile strappano in un sol colpo la panoplia e le sue carni. Con la mano nella polvere intrisa del sangue dei suoi compagni afferra un legno e colpisce, colpisce, finché il fiato muore nel suo petto, finché la voce si fa roca e il cranio del mesos si infrange come un vaso d’argilla.

    Un lampo accecante, freddo come un taglio di lama, e poi gli occhi bruciati e un buio rosso.

    Caldo. Buio.

    Suo padre ha le mani aperte come a offrire un dono. La cintura gemmata dei Kinegoi penzola dai suoi palmi lordi di sangue e sabbia.

    Sei felice ora, Orìon? Non è questo quello che volevi?

    α

    Orìon si sveglia. D’istinto porta la mano alla cintura, ne sente il cuoio arso dal sole, la fibbia rovente. Ha in bocca un sapore acido, in testa mille incubi confusi dal vino. Passi leggeri ma decisi si avvicinano sulla terra friabile. Riconosce il flebile scricchiolare degli schinieri, e il respiro corto di chi porta notizie.

    A tentoni trova la radice dove si è addormentato, ne saggia la forma, la consistenza rugosa della corteccia, e si tira a sedere con un gemito. Sul collo e sul petto avverte gli umori appiccicaticci del vino.

    Il ragazzo ossuto che siede al suo fianco si fa vicino, lo aiuta a sollevarsi.

    – Padrone – dice il ragazzo a bassa voce. – Schiè è tornata.

    – Lo so, Seirios, lo so. – Risponde Orìon.

    Sente sul viso il calore del sole, il frusciare degli ulivi, l’odore lontano del mare: sono ancora accampati a Cuma, ora ricorda.

    – Sei uno spettacolo indegno. – La voce della cacciatrice è bassa e carica di spregio, le sue labbra fanciullesche sono piegate in una smorfia di profonda delusione. Seirios ringhia, il suo volto spigoloso e pallido si contrae. Orìon lo invita alla calma appoggiandogli una mano sulla spalla.

    – Fammi alzare.

    – Sì, padrone. – Risponde abbassando il capo. Lo aspetta mentre si alza, e lo conduce dinanzi alla cacciatrice. Lei lo attende con le mani sui fianchi e l’arco a tracolla, nei suoi occhi neri c’è tutto il disprezzo del mondo.

    Orìon è alto, possente, collo di toro e gambe veloci, ma il suo bel volto è deturpato da una cicatrice nera e tumefatta che gli ha chiuso gli occhi per sempre.

    – Hai anche notizie per me, oltre che insulti, Schiè?

    La cacciatrice serra i pugni come a trattenersi dal colpirlo.

    – Odio vederti così! – sibila la donna.

    – Io odio non vederti.

    – Ti comporti come un ubriacone maledetto da Dionysus!

    Seirios mostra i denti aguzzi, e Schiè porta la mano all’elsa dello xiphos.

    – Bada a te, mesos. Ricorda cosa sei!

    – Silenzio! – Orìon alza la voce, sente come un pugno colpirlo alla testa, ma continua perentorio: – Seirios, abbi rispetto per la cacciatrice. – Ordina. – E ricorda che non sono un bambino da accudire.

    – Sì, padrone. – Le spalle magre del giovane si incurvano per un istante. Schiè sbuffa di compiacimento.

    – E tu Schiè – la voce di Orìon è ancora più tagliente. – Non dimenticare chi hai davanti.

    Schiè apre le braccia in un gesto irriverente.

    – Non dimentico chi sei, Orìon figlio di Kogràtos, stratego dei Kinegoi, sacri cacciatori di Artemis. – Schiè si guarda intorno con un gesto plateale ad abbracciare gli ulivi che li circondano. Delle schiere dei Kinegoi rimangono solo Attalos, l’arcade muto, e il vecchio Cosmas dai capelli bianchi.

    A uno a uno i suoi uomini lo hanno abbandonato, scuotendo il capo, rinnegando i voti. Orìon può ancora sentire i loro bisbigli, il disprezzo rabbioso con cui lo apostrofavano appena si allontanava, convinti che non potesse udire le parole di scherno e frustrazione.

    – Chi avete portato? – Conclude Orìon dopo aver ascoltato i rumori portati dal vento caldo. Attalos e Cosmas stanno adagiando a terra un ingombrante fagotto.

    La cacciatrice risponde con un grugnito, fa un cenno con la mano al ragazzo affinché Orìon la segua.

    Attalos si avvicina, ha i capelli brizzolati appiccicati dal sudore, e il volto bruciato dal sole solcato da mille rughe di fatica. Sulla gola ha una cicatrice, come una spina di pesce, da orecchio a orecchio. Prende la mano di Orìon e la punta verso terra.

    Stesa su di un giaciglio improvvisato, una donna dal peplo turchese giace addormentata. I capelli e la pelle portano i segni del mare, non ha calzari a coprirle i piedi feriti.

    Chinato al suo fianco Cosmas le regge la testa e le inumidisce le labbra riarse con acqua e cedro. Il vecchio guaritore solleva gli occhi grigi su Orìon.

    – Ha farneticato tutto il tempo mentre la portavamo qui, poi è svenuta. – Dice alzandosi. – Credo abbia solo bisogno di riposare.

    Schiè appende l’arco e la faretra a un ramo. – L’ho trovata in un relitto, una piccola barca, nella cala rocciosa. Sai, non avevo nulla da fare e ho pensato di fare una passeggiata.

    Orìon le fa cenno di tacere, si abbassa e muove le mani fino a trovare il corpo dinanzi a sé. Le sfiora il volto, i capelli, le vesti e mentre le sue dita la osservano la sua bocca si serra, la fronte si corruga.

    – Seirios? – Chiama e punta gli occhi ciechi sul ragazzo. Questi si getta a quattro zampe dinanzi alla donna e, dopo un rapido annusare, ringhia: – Mesos, padrone, sento odore di mesos.

    Un silenzio scuro e triste come un sudario cala sui tre cacciatori.

    – Attenderemo il suo risveglio. Io devo riposare. – Ordina Orìon e, malfermo sulle gambe, si rialza.

    Schiè lo segue caracollare verso il suo giaciglio, Attalos e Cosmas scuotono il capo.

    β

    È solo un neonato.

    È uno di loro. Sai cosa deve essere fatto.

    Noi serviamo la giustizia, non il sangue.

    Se lo lasci in vita, sarà una minaccia per l’uomo. Credi che Artemis ci ordini di uccidere per diletto? Vuoi disobbedire al tuo voto, Orìon?

    No padre, e lo sai. La minaccia in questa valle è stata scongiurata. I cacciatori festeggiano, mangiano e danzano vittoriosi alla luna piena. La nostra theos è appagata e le genti salve. Questa creatura è innocente.

    Porta i segni dei mesos, i capelli di fuoco, la pelle bianca. Non sarà mai uno di noi!

    Sarà chi decide di essere, padre…

    Vuoi dargli un nome?

    Sì. Ha i capelli di fuoco. Si chiamerà Seirios.

    * * *

    – Padrone? – Seirios lo chiama con dolcezza. Ha lavato il volto, le braccia e i piedi del suo padrone con un panno bagnato. Il suo sonno è stato agitato da sogni e ricordi, come spesso accade in quel periodo dell’anno, e Seirios sa a cosa pensa il suo padrone, anche per questo lo ama. Sono trascorsi sette anni ormai.

    – Padrone? Svegliati.

    – Sono sveglio.

    – La donna ha aperto gli occhi. Schiè chiede che tu vada a interrogarla.

    – Cos’hai Seirios? – L’uomo solleva le sopracciglia folte. Il ragazzo abbassa appena il capo, si passa la lingua sui denti.

    – Non mi piace il modo in cui ti parla, padrone.

    Orìon scompiglia i capelli stopposi del ragazzo. – Ogni buon capo ha bisogno di uno sfidante che lo tenga vigile.

    – Vorrei ti portasse rispetto.

    – Vorrei meritarmelo. – Replica triste. – Su, adesso andiamo, o comincerà a urlare.

    Seirios ridacchia e si avvia verso il giaciglio della donna seguito dal suo padrone che si appoggia alla sua spalla.

    Lei siede su una clamide piegata, ha in mano una ciotola di fagioli e farro, e mangia con lentezza. Gli uomini le gettano occhiate sporadiche. Schiè siede in disparte, dinanzi al fuoco, fissando le fiamme. Il sole sta tramontando oltre la baia di Cuma e il cielo si è tinto di ogni sfumatura di rosso. Nel vederlo arrivare la donna si alza in piedi e china il capo umilmente.

    – Benvenuta. – Saluta Orìon.

    Lei alza il volto e fissa a lungo la cicatrice come se guardasse in uno specchio d’acqua o un profondo pozzo. Poi porta le dita alle labbra, le bacia per salutare un uomo rispettabile.

    – Grazie per avermi salvato la vita. – Dice con calore.

    – Di questo devi ringraziare Schiè.

    – Che so essere al tuo comando, mio signore Orìon.

    – Conosci il mio nome, ma io non conosco il tuo.

    – Il buon Cosmas mi ha spiegato chi sei. Il mio nome è Merope. – La voce dolce della donna si incrina, un vaso le cui crepe si allargano di istante in istante. – Vengo dal villaggio di Anà nell’isola di Kàpros.

    – Cosa

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