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Stazione omicidi. 3 in 1
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E-book1.216 pagine17 ore

Stazione omicidi. 3 in 1

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Vittima Numero 1 - Vittima Numero 2 - Vittima Numero 3
3 romanzi in 1

Autore finalista al Premio Strega

Questa non è la solita storia di nera.
È la ricostruzione di una carriera criminale, dalla bassa manovalanza dei furti negli appartamenti fino al controllo del traffico di droga della capitale.
Flavio Gambari viene dalla Roma bene, è il rampollo di una famiglia ricca. Vasile invece viene dai bassifondi: è stato venduto ancora bambino come schiavo in un campo rom. Due vite lontane, un’amicizia impossibile, cementata dal sangue. Insieme, i due scaleranno le gerarchie del crimine romano, passando per ricatti, estorsioni, rapimenti e omicidi, spacciando una nuova e potente droga in ogni quartiere della Città Eterna, facendo scorrere un fiume di denaro e di pallottole. L’ispettore Pelizzi si mette presto sulle loro tracce, ma per Flavio e Vasile, figli della Roma violenta, c’è solo un comandamento: la legge del più forte.

Un autore bestseller
Il maestro del thriller italiano

«La trilogia di Massimo Lugli è un viaggio nel lato più oscuro della città, un corpo a corpo sui marciapiedi di Roma violenta.»
la Repubblica

«Lugli è uno dei migliori cronisti-segugi al lavoro a Roma.»
Corrado Augias

«Lugli ha fiato narrativo, ha tenuta, appassiona.»
Giovanni Pacchiano, Il Sole 24 ore

«Con l’istinto del grande cronista, Massimo Lugli ha trasformato in romanzo il mondo di “mafia capitale”.»
il Venerdì
Massimo Lugli
Giornalista di «la Repubblica», si è occupato di cronaca nera come inviato speciale per 40 anni. Ha scritto Roma Maledetta e per la Newton Compton La legge di Lupo solitario, L’Istinto del Lupo, finalista al Premio Strega, Il Carezzevole, L’adepto, Il guardiano, Gioco perverso, Ossessione proibita, La strada dei delitti, Nelmondodimezzo. Il romanzo di Mafia capitale, Stazione omicidi. Vittima numero 1, Vittima numero 2 e Vittima numero 3, e nella collana LIVE La lama del rasoio. Suoi racconti sono contenuti nelle antologie Estate in giallo, Giallo Natale, Delitti di Ferragosto, Delitti di Capodanno e Delitti in vacanza. Cintura nera di karate e istruttore di tai ki kung, pratica fin da bambino le arti marziali di cui parla nei suoi romanzi.
LinguaItaliano
Data di uscita22 mar 2017
ISBN9788822707291
Stazione omicidi. 3 in 1

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    Anteprima del libro

    Stazione omicidi. 3 in 1 - Massimo Lugli

    1658

    Prima edizione ebook: marzo 2017

    © 2016, 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0729-1

    www.newtoncompton.com

    Massimo Lugli

    Stazione omicidi

    Vittima numero 1

    Vittima numero 2

    Vittima numero 3

    Newton Compton editori

    Indice

    Stazione omicidi. Vittima numero 1

    Stazione omicidi. Vittima numero 2

    Stazione omicidi. Vittima numero 3

    Stazione omicidi

    Vittima numero 1

    Prologo

    Cammina ondeggiando, farfugliando, imprecando, una litania minacciosa fatta di gorgoglii indistinti, parole senza senso, ansiti, grugniti. Qualcuno gli lancia un’occhiata distratta e timorosa e si scansa, una donna prende per mano la bambina e si allontana, un negoziante si affaccia sulla porta della tabaccheria e scuote la testa, con aria di disapprovazione.

    «Che palle, ancora ’sto matto…».

    Giorgio tracanna il resto della Nastro Azzurro da 75 cl e scaglia la bottiglia vuota contro una Citroën Picasso nuova fiammante parcheggiata a poca distanza dai giardinetti di piazza Mazzini. Rumore di lamiera, ammaccatura sulla fiancata, qualche altro passante che si avvicina per godersi la scena. Giorgio guarda la macchina con occhi folli e l’aggredisce come un nemico, prende a calci il paraurti, sferra pugni e calci alla cieca, si ferisce a una mano. La mano schizza sangue dappertutto, continua a colpire senza curarsi delle nocche che si spaccano, della pelle che si sbuccia, delle ossa che si frantumano. Raccoglie la bottiglia spezzata e col bordo tagliente come un rasoio riga l’intera fiancata sinistra. Un frammento di vetro gli apre il palmo, altro sangue sgorga dal taglio ma non ci fa caso, non sente dolore, solo rabbia e voglia di uccidere. Dal bar si precipita fuori un uomo massiccio, brizzolato, sulla cinquantina, con un completo color antracite, da avvocato, che si scaraventa contro Giorgio imprecando.

    «Pezzo di merda, la mia macchina…». Giorgio lo guarda, sbalordito da quell’intrusione che, per un attimo, lo strappa dai suoi incubi, scuote la testa inebetito prima che un diretto sferrato con tutto il peso del corpo lo centri alla mascella. Cade sull’erba, sputa sangue e pezzi di dente, si guarda attorno senza capire da dove gli è arrivato il cazzotto, poi si rialza e si catapulta addosso all’avvocato che si è dimenticato di lui e sta guardando lo scempio della sua auto con gli occhi pieni di lacrime. I due rotolano a terra, una lotta goffa e ansimante, cercando di immobilizzarsi a vicenda, graffiando, sbavando, ansimando. Giorgio affonda i denti in un braccio muscoloso fasciato dalla manica del completo color antracite, morde come un pitbull, cerca di strappare carne e stoffa. L’altro urla come se lo stessero castrando. Qualcuno accorre ma si tiene a distanza. Sangue e cocci di vetro dappertutto. La furia di quel ragazzo macilento e pencolante, il pazzoide di Prati, che ogni tanto perde la brocca e dà fuori di matto, fanno paura. Giorgio riesce a piazzarsi con le ginocchia sulle spalle dell’avvocato, gli stringe le mani alla gola, comincia metodicamente a strangolarlo. Un barista esce di corsa, una bottiglia di Mistrà impugnata come una clava, vibra una randellata alla testa di Giorgio ma manca il bersaglio e lo prende alla clavicola. La bottiglia resta intatta. L’avvocato è cianotico, tenta di agguantare un po’ d’aria dalle narici dilatate, apre e chiude la bocca come una cernia. Sirene in arrivo. Coro di Era ora.

    Due poliziotti, un uomo e una donna, balzano a terra da una delle volanti. L’agente sventola un manganello senza sapere bene cosa fare, un capannello di gente ha circondato i due, qualcuno cerca, senza convinzione, di strappare l’avvocato alla stretta di Giorgio, ma si ritrae quasi subito davanti a quella figura spaventosa, insanguinata, inumana. La poliziotta, una brunetta graziosa, piccolina, con una massa di capelli ricci tenuti a bada nella coda di cavallo, si ricorda dello spray al peperoncino, in dotazione da pochi mesi. Estrae la bomboletta dalla custodia, si avvicina a Giorgio tenendosi comunque a distanza di sicurezza e gli spruzza un getto nebulizzato di capsicum in piena faccia. Il ragazzo si porta le mani al viso che brucia come fuoco, si sente la pelle scorticata, gli occhi gli si chiudono automaticamente, respira a fatica, i polmoni in fiamme, si butta a terra singhiozzando come un bambino. L’avvocato ne approfitta per strapparselo di dosso, gattona lontano, si rifugia tra le braccia compassionevoli di un gruppetto di passanti, si scola un bicchiere d’acqua arrivato da chissà dove.

    I due poliziotti si lanciano su Giorgio, cieco, semisoffocato, impotente. Lo schiacciano faccia a terra, gli torcono le braccia dietro la schiena cercando di non far caso al sangue che imbratta le divise, gli fanno scattare le manette ai polsi, più strette di come sarebbe necessario. L’acciaio azzanna la carne, solchi rossi sulla pelle traumatizzata. Giorgio si scuote come un bufalo, tenta di rimettersi in piedi, riesce quasi a scrollarsi i due poliziotti di dosso, si alza in ginocchio, i polsi ammanettati, gli occhi chiusi, ruggendo, piangendo, ululando bestemmie. L’agente perde il controllo e gli sferra un calcio alla pancia che lo fa piegare in due, incurante dei cellulari che riprendono tutta la scena. Una grana in più per la questura di Roma quando i filmati faranno il giro dei social network.

    Un’ambulanza si ferma in doppia fila accanto alle volanti, bloccando completamente il traffico. Ormai la piazza è piena di gente, i giardinetti sono diventati un piccolo teatro, qualche impiegato in pausa dà la voce ai colleghi col cellulare.

    «Scendi, stanno a ammazzà il matto». Il pubblico s’infoltisce. Due infermieri tamarri si consultano rapidamente col dottore, un trentenne spaurito tutto ossa e spigoli che prepara una fiala. Il più grosso, con un assurdo pizzetto tinto di biondo, si accosta cautamente, con passi da domatore di tigri. La folla trattiene il fiato, pregusta l’epilogo. Giorgio sente un fastidio sulla coscia, come una zanzara, poi tutto il corpo gli si fa molle, pesante, vischioso, la testa gli ciondola sul collo, quel briciolo di luce che gli rimane tra gli occhi congestionati dallo spray si offusca piano piano, una morbidezza lo avvolge e lui ci si tuffa dentro. Buio.

    PARTE PRIMA

    Il duca di She disse a Confucio: «Nella nostra regione c’era un uomo chiamato l’onesto. Quando suo padre rubò una pecora, egli testimoniò contro di lui».

    Il Maestro disse: «Nella nostra regione, invece, diverso è il concetto di onestà: il padre copre il figlio, il figlio copre il padre. Questa è l’onestà».

    Kong Qiu (Confucio), Massime

    Capitolo 1

    Due bambini, ancora vestiti da femminucce per scacciare il malocchio, inseguono un grosso topo azzoppato da una sassata. Al campo di via di Salone ha piovuto da poco: grandi pozze d’acqua punteggiano la strada sterrata diventata un pantano, i mucchi di immondizia si sfaldano, fradici d’acqua, la legna dei fornelli da campo stenta ad accendersi, i panni appesi, che qualcuno non ha fatto in tempo a portare dentro, penzolano molli come stracci. Alcuni khorakhanè si sono già messi a lavare le macchine inzaccherate dal diluvio. Le carrozzerie lucenti dei SUV, delle Mercedes, delle BMW fresche di concessionario tornano a brillare sotto le amorevoli passate di spugna, stracci e pelle di daino.

    Un ratto tenta una fuga disperata, incalzato da urla, scalpiccio di piccoli piedi nudi, gridolini eccitati. Un altro sasso, scagliato con precisione da un ragazzino di undici anni, coi capelli quasi rasati a zero tranne un lungo codino che gli arriva alle spalle, lo centra in pieno e lo scaraventa a un metro di distanza, insanguinato e zampettante. È lungo almeno venticinque centimetri, grasso, il pelo lustro e viscido di fango, la bocca che scopre i denti lunghi, affilatissimi, duri quasi come il diamante. Un bambino di cinque anni con una lunga gonna a fiori che struscia fino a terra e un’assurda camicetta rosa trasparente, si china sul topo e lo infilza lentamente con un bastone appuntino e indurito sul fuoco, godendosi l’agonia dell’animale che squittisce sempre più forte e agita le zampe e la lunga coda. Poi il bambino solleva la preda, ancora viva, impalata sul bastone e si avvia saltellando insieme agli altri in una sorta di danza di guerra. Urla, richiami, imprecazioni, musica sparata dagli stereo delle roulotte e delle auto, odori di cucina, uomini che tornano al campo dopo una giornata di lavoro, carichi di filo di rame o rottami di metallo, donne affacciate sulla porta, adolescenti filiformi col pancione, incinte di sei o sette mesi: è l’ora di cena, la più animata, la più festosa, il momento delle chiacchiere, delle visite di cortesia, delle vanterie, dell’acquavite di prugna o di patate, delle liti che scoppiano all’improvviso, brevi e violente come temporali estivi.

    Vasile guarda i bambini che seguono il topo infilato su un bastone come una bandiera e fa cenno a Salsiccia, con aria disgustata.

    «Secondo te che ci fanno? Se lo mangiano?».

    Salsiccia alza le spalle massicce. E grosso ma flaccido, colorito malsano, pancia debordante. L’hanno chiamato così fin dal primo giorno e il nomignolo gli calza a pennello.

    «Boh. Può essere… ’Ste merde sono capaci di tutto».

    «Secondo me anche i grandi li mangiano. Anzi, i bambini cacciano i topi per loro. Lo spezzatino di ieri aveva un colore del cazzo… E la carne era grigia, così dura che sembrava di mangiare uno straccio».

    «Ma vaffanculo… Lo dici per farmi schifare…».

    «Col cazzo. È la pura verità. Quando sono entrato, ieri, Mina stava cucinando e appena mi ha visto ha nascosto quello che stava tagliando. Secondo me era un topone bello grasso come quello». Poi allunga una strizzata ai rotoli di Salciccia che sobbalza e lo allontana con una manata.

    «Bello grasso come te… Un giorno o l’altro mi sa che ci finisci anche tu, nello spezzatino», lo sfotte Vasile.

    «Cacati in mano».

    «Prima tu. E datti uno schiaffo».

    Tacciono per un po’. Vasile si fruga nelle tasche, trova l’ultima sigaretta, la spezza in due, si tiene la metà senza filtro e passa l’altra a Salsiccia che accetta con un gesto di gratitudine. Fumano in silenzio, guardando lo spettacolo desolante del campo. I lampioni, i pochi rimasti ancora intatti, sono già accesi. Settembre si è annunciato con una scarica di temporali, tra due mesi arriverà il gelo, si accenderanno le stufette e, di sicuro, prima o poi qualcuno ci resterà secco, soffocato dalle esalazioni di monossido di carbonio. Succede quasi ogni anno.

    «Stasera vengono i carabinieri», annuncia Salsiccia.

    «Chi te l’ha detto?»

    «Guerrino. Ha un amico brigadiere, se lo cura e gli passa un po’ di roba ogni tanto. Vengono a fare il controllo di quelli ai domiciliari… Vedrai se stanotte non sono tutti dentro, buoni buoni».

    «Li arrestassero tutti».

    «Già».

    I controlli ai domiciliari scattano in media ogni due mesi, preceduti, regolarmente, da misteriosi avvertimenti che passano di bocca in bocca e, ormai, non sorprendono più nessuno. Divise, torce elettriche, cani antidroga popolano la notte del campo e tutto si risolve in una stanca routine di appelli nominali, voci assonnate, facce incazzate che compaiono sulle porte delle roulotte per farsi registrare dai carubba. Solo ogni tanto qualche imbecille si fa beccare fuori dal campo, resta latitante qualche giorno, viene regolarmente blindato mentre se ne va a zonzo in borgata, passa qualche giorno al gabbio per evasione e poi ritorna, puntualmente, agli arresti casalinghi. Gli avvocati dei rom sono maestri nell’ottenere i domiciliari per i loro clienti. Il campo è una miniera d’oro: cause a ripetizione, soldi in contanti, niente ricevute, niente tasse. Per gli avvoltoi in toga, gli zingari sono i clienti migliori.

    «Come ti è andata oggi?». Vasile schiaccia la cicca sotto la suola delle All Star, modello cinese da dieci euro, che si stanno già scollando dopo dieci giorni. Scarpe di merda. Come tutto il resto. Salsiccia sbuffa, contrariato.

    «A cazzo. Come al solito. Ho cercato di castigare un vecchio sull’autobus, quello mi ha svagato e m’ha allungato una cinquina…». Gira la guancia paffuta per mostrare a Vasile un invisibile segno della sberla. «Tutti si sono messi a strillare e per poco non chiamavano le guardie».

    «T’è andata bene… Ti potevano blindare».

    «Mi sono messo a frignare, gli ho fatto pena, alla fine mi hanno mollato».

    «Secondo me gli hai fatto schifo».

    «Può essere, comunque l’ho sfangata. Quando sono tornato senza niente Omar mi ha fatto il culo».

    «Sempre la stessa merda…».

    «Già. Se continuo così mi sa che mi ridanno indietro e rivogliono i soldi dai miei».

    «E non ti sta bene?».

    Salsiccia guarda l’amico in tralice, non capisce se sta scherzando o no. Ma Vasile gli fa un cenno col mento, non scherza affatto.

    «Non è meglio dai tuoi che in questa merda?», lo incalza.

    «No. A casa ci torno col cazzo. Perfino qui si sta meglio».

    Vasile annuisce cupo. Anche coi suoi, merda pura. Scenate, sbronze, freddo, miseria e tutto il resto. Coi rom, se non altro, ha pranzo e cena assicurati e il tetto della roulotte sopra la testa. Il problema sono le mazzate. Peggio che a casa: nel campo tutti menano tutti in continuazione. I mariti picchiano le mogli che si sfogano coi figli. I ragazzi più grandi mettono sotto i piccoli a forza di legnate, le donne si accapigliano tra loro graffiandosi e tirandosi i capelli, rancori vecchi o recenti esplodono all’improvviso in risse, pestaggi, aggressioni, qualche coltellata. La violenza è sempre nell’aria, onnipresente, regola i rapporti, definisce le gerarchie. Vasile è tosto, viene dalla strada, si fa rispettare a capocciate e zampate nei coglioni dai coetanei ma le prende regolarmente dagli adulti. Calci, schiaffi e cinghiate quasi ogni sera al minimo pretesto: un lavoro andato male, un colpo sfigato, una risposta sbagliata oppure soltanto perché Omar ha la sbronza storta o gli rode il culo. A volte non c’è neanche bisogno di un pretesto. Una fracca di legnate per buonanotte e basta.

    «Prima o poi me ne vado da qui», promette più a se stesso che a Salsiccia.

    «Sicuro… Quando finisce il contratto».

    «No, prima, mi sono rotto le palle…».

    «Anche io, se per questo, ma dove cazzo andiamo?»

    «Boh… Lontano da ’sta fogna».

    «E come?». Salsiccia lo guarda con aspettativa. Si è sempre fidato di Vasile, non è uno che parla a vanvera.

    «Non lo so, Salcì, ma un’idea intanto m’è venuta». Il ciccione gli fa cenno col mento di proseguire.

    «Uno scavalco. Villa all’Infernetto, roba di lusso. È vuota fino al venti settembre, stanno tutti in vacanza».

    «Cazzo come l’hai sgamato?».

    Vasile tace, con aria saputa, come se avesse chissà quali misteriose fonti. In realtà è stata una botta di culo: uno scalatore gagè, uno di quelli che lavorano da soli e si arrampicano come ragni tra grondaie e balconi, lo conosce e gli ha chiesto di fare il palo. Hanno fissato per il diciotto, ma Vasile vuole anticipare il colpo, prendersi tutto e steccare, al massimo, con quell’imbecille di Salsiccia, anziché beccarsi solo le briciole come al solito. Lo scalatore gli darebbe si è no il dieci per cento del bottino ma lui ne ha abbastanza di quelle merdate.

    «Com’è il posto?», esita Salsiccia.

    «Preciso. Perfetto».

    «Ci sono i cani?»

    «No, niente cani di merda».

    «Avranno l’allarme, le grate…». Vasile lo guarda con disprezzo: piantagrane, cacadubbi, fifone fino in fondo. Ma ha bisogno di qualcuno che non glielo butti nel didietro alla prima occasione, non tenti di fotterlo, non lo venda ai rom: per una cosa simile lo gonfierebbero come una zampogna.

    «Senti, dell’allarme chi se ne fotte. Anche se è collegato alla questura col cazzo che le guardie arrivano prima di un’ora… E le grate, ’sti cazzi, le sfondiamo».

    «Dici?»

    «Che palle che sei. Lascia stare, trovo qualcun altro».

    «No, davvero, dicevo così. Ci sto».

    «Sicuro?»

    «Sicuro».

    «Oggi è il dieci… Lo facciamo dopodomani».

    «Andata». Si sputano sulla mano destra, se le stringono e la portano al cuore. È fatta.

    «Bella Ma».

    «Bella Fla».

    Si danno il cinque, più diversi non potrebbero essere. Flavio fa un cenno col mento, Mario annuisce.

    «Ci facciamo un aperitivo?».

    Flavio sbircia il Daytona. Sono le 13:30, gli studenti del Tasso sono già sciamati in via Sicilia, il solito casino di chiacchiere, sigarette, motorini. I suoi l’aspettano a pranzo, visto che viene zio Francesco e sua madre s’incazzerà come una biscia se fa tardi anche oggi, ma non può fare la figura del pidocchio. Non con un tamarro come Mario che per incontrarlo è arrivato fino dalla borgata in Culonia, dove abita.

    «Sicuro, offro io», acconsente. I due si avviano a piedi verso piazza Fiume. Visti da dietro sembrano una coppia di comici: il coatto di mezza età, basso e quadrato, gilet di pelle Hells Angels, calzoni extralarge coi tasconi rigonfi, la barba a punta alla Mefistofele, il codino che comincia a striarsi di grigio e il ragazzo snello, biondo, bello come un arcangelo, fico come un tronista: 1,79 di muscoli, jeans a sigaretta, giubbino Polo, Adidas Stan Smith immacolate. Entrando, per riflesso condizionato, Flavio cede il passo all’altro e gli lancia un’occhiata di spregio puro. Con quello che fa, che cazzo di bisogno c’è di conciarsi come un buffone, pensa e tace.

    «Un Negroni», ordina Mario tuffando le mani tozze nella ciotola dei salatini e ignorando il cucchiaino nonostante l’occhiataccia del barista. «Anche per me», gli fa eco l’altro. L’alcol gli fa schifo ma ordinare un Crodino davanti a quello scimmione è fuori questione.

    «Allora, come butta?»

    «Solito».

    «Ancora non ti sei rotto?». Mario fa un gesto col pollice, in direzione del liceo. Flavio sbuffa.

    «Ultimo anno. Prendo la maturità e mi sparo tre mesi negli States, i miei me l’hanno promesso».

    «Grande Fla… Io, tre anni fa, sono stato in America, a Sturgis, per il ritrovo degli Hog. Da paura».

    Flavio immagina la ressa di motociclette, ciccioni pieni di birra, pelle nera, catene, zoccole in hot pants e tutto quell’armamentario da anni Settanta, reprime la smorfia, scola il cocktail in tre sorsi e pensa che i convenevoli sono durati abbastanza. Il solo farsi vedere assieme a Mario gli pesa parecchio, ma se lo deve curare.

    «Ce l’hai?»

    «Sicuro».

    «Com’è?»

    «Buono».

    «E l’altra cosa?»

    «Tra dieci giorni, due settimane al massimo. Gira male, da questa estate».

    «Vabbè. Mi fai sapere».

    Con un gesto distratto e furtivo, Flavio caccia dalla tasca i due pezzi da cento e glieli allunga. Mario intasca e finisce di bere. Uscendo, passa a Flavio un pacchetto di Marlboro che sparisce all’istante nel giubbotto blu.

    «Dove c’hai la moto?»

    «Dal meccanico. Sto in macchina». Mario indica una C1 sgarrupata lasciata alla chissenefrega nello spazio dei taxi. Altro batti il cinque, altri saluti.

    «La prossima volta offro io però».

    «Come te pare. T’aspetto per quella cosa».

    Andando a riprendere l’SH125 appena ritirato da Siromoto, Flavio tasta furtivamente il contenuto del pacchetto. Il solito puzzone marocchino che sa di suola, di sicuro, ma tanto in giro non si trova di meglio e Mario, almeno, non è uno che stecca pesante.

    «Signorino, i suoi sono già a tavola col signor Francesco».

    Felipe ha una vaga aria di rimprovero stampata su quel grugno da babbuino. Flavio lo ignora, si toglie il giubbotto e lo lancia verso una sedia nel vestibolo. Solo quando atterra si rende conto che il fumo è nella tasca e si precipita a raccoglierlo.

    «Lasci, faccio io…», interviene Felipe, premuroso, da vero servo qual è, ma Flavio l’ha già raccolto, ha palpato il pacchetto per assicurarsi che ci sia e ha appeso ordinatamente il giubbino all’attaccapanni, cosa che non fa mai, con grandi incazzature di sua madre.

    «Era ora… Stavamo per chiamare gli ospedali».

    Il tono gioioso di suo padre è smentito dallo sguardo al vetriolo e dalla furia con cui arrotola gli ultimi spaghetti ai quattro formaggi dal piatto ormai quasi vuoto. Sua madre, al solito, ha l’aria di una che ha inghiottito un manico di scopa tutto intero, neanche l’ultimo lifting di due mesi fa riesce a nascondere le rughe di rabbia attorno agli occhi, agli angoli della bocca che piegano pericolosamente in basso. Il suo piatto, come sempre, è stato appena sporcato e smaltirà le calorie di quell’unico boccone di pasta con almeno due ore di cardiofitness, GAG, body sculpture o qualche altra cazzata del centro benessere.

    Zio Francesco straborda sulla sedia, dilaga sulla tavola ed è l’unico che sembra rilassato.

    «Allora, nipote? È un secolo che non ti vedo, sei cresciuto ancora… Come va la scuola?», farfuglia senza smettere di masticare. A Felipe, che aspetta impalato in giacca e guanti bianchi, dev’essere venuto il gomito del tennista a forza di versargli il vino e deve ancora servire il secondo. Una bottiglia di Amarone è già agli sgoccioli.

    «Tutto regolare, zì», mugugna Flavio. La madre inarca un sopracciglio.

    «Ti spiacerebbe non esprimerti come uno scaricatore?», stride. Flavio nemmeno risponde e si rovescia nel piatto almeno due etti di pasta. Lui non ha problemi di peso, basta la muay boran a tenerlo in forma.

    «Mi piace invece, sintetico, efficace… I ragazzi parlano così», gorgheggia zio Francesco che non ha mai avuto figli e, secondo Flavio, è anche mezzo frocio.

    «E allora? Come ti va al Tasso? Ti trovi bene?»

    «Così. Appena ripreso l’anno, non facciamo un c… niente», si trattiene a stento Flavio.

    «Be’ comunque è il miglior liceo classico di Roma… Non per niente ci sono stato io», approva lo zio, che evidentemente è in vena di ciance prima di chiudersi col fratello in studio per elaborare chissà quali strategie finanziarie d’altissimo livello.

    «E dopo la maturità? Hai qualche idea?», insiste Dupalle.

    «Be’, intanto voglio andare tre mesi negli States per l’inglese…».

    «Se prenderai sessanta agli esami», interviene il padre, acido. Il ritardo proprio non gli è andato giù.

    «Ah pà sei antico… Oggi il voto si calcola in centesimi».

    «M’ero scordato… Allora se vuoi farti il viaggetto porta a casa 100 e lode», ghigna l’ingegner Alfredo Gambari, che non gradisce essere colto in fallo neanche sulle stronzate. La madre si pulisce gli angoli della bocca col tovagliolo e fa cenno a Felipe di portare via le scodelle. Straccetti della macelleria Feroci ai carciofi, insalata mista, carrello dei formaggi, gelato di Giolitti, caffè, ammazzacaffè. Quando Flavio riesce finalmente a rintanarsi in camera sua è passata un’ora e mezzo. Con un sospiro di sollievo chiude a chiave, scarta la piccola mattonella di marocchino che, tutto sommato, sembra meno secca e svaporata di quella di un mese fa, spacca una sigaretta su una rivista, sbriciola un po’ di roba sotto la fiamma di un accendino e comincia a rollarsi un bombardone.

    «Ciao, zì».

    «Ma come cazzo ti sei ridotto?».

    Bruno Pelizzi guarda con un misto di disgusto e compassione il nipote steso su un lettino dell’astanteria del Policlinico. Flebo, mano fasciata fino al gomito, occhio pesto, una grossa benda insanguinata sulla fronte che gli copre metà faccia, criniera di capelli impastati e luridi. Quello che non vede può solo immaginarlo, coperto pietosamente dal lenzuolo grigiastro tirato su fino al collo. Tutt’intorno, la solita bolgia dolente e incazzata dei pronto soccorso romani: gemiti, imprecazioni, richiami, camici bianchi e divise verdi che corrono avanti e indietro evitando accuratamente di rispondere alle richieste dei pazienti, gente che aspetta da tre, quattro, cinque ore una visita o una radiografia, ambulanze che scaricano lettighe e ripartono immediatamente in sirena, un gatto obeso accoccolato tranquillamente nel corridoio, indifferente a tutto quel casino insensato.

    «Ho sclerato, zì…», mugola Giorgio, scoprendo il buco dove prima c’era un incisivo.

    «Lo vedo…».

    «M’era presa brutta… Non lo so», il ragazzo alza le spalle come per dire ormai è passata. Bruno trattiene a fatica lo sganassone, gli prudono le mani.

    «Quel tizio a cui hai sfasciato la macchina… Ti ha denunciato. Lesioni, aggressione, danneggiamento, stavolta ti fanno un culo così».

    «Ma se è lui che ha menato me…». Giorgio accenna alla mascella gonfia e alla benda sul viso. «E poi, ’sti cazzi… Che mi fanno? Peggio di così».

    Le labbra dell’ispettore Bruno Pelizzi sono un taglio. Pallido di rabbia, siede con cautela sul bordo del letto ignorando il sorriso di quel nipote fuori di testa.

    «Eri fatto? Di’ la verità porca troia… Ancora quella merda», sibila.

    Giorgio tace con aria colpevole.

    «Di’ ’sta cazzo di verità… Eri drogato o sei semplicemente matto? A forza di calarti quello schifo ti si è squagliato il cervello?»

    «Solo due chicche zì… M’ha preso male… Ero pulito da due settimane giuro».

    Bruno si alza, smania, guarda il soffitto, stringe i pugni cercando di calmarsi, poi torna a sedere.

    «Io non ce la faccio più con te Giò. Sull’anima di mio fratello, giuro che non ce la faccio. Non ti posso coprire in eterno, ho il mio lavoro, ho i cazzi miei… Guarda, ascolta, parlo sul serio…».

    «Appena mi lasciano uscire smetto, giuro zì», lo interrompe il nipote, supplichevole.

    «Sicuro. Come la volta prima e quella prima ancora… Mi sono rotto i coglioni, basta, io mi arrendo. Ti vuoi ammazzare? Vuoi ammazzare qualcuno e farti vent’anni di gabbio? Cazzi tuoi. Io ci ho provato, mio fratello dal cielo lo sa quanto ci ho provato… Adesso basta, ci rinuncio, io…».

    Un russare sommesso l’avverte che sta parlando a vuoto. Il nipote s’è appisolato stringendogli l’avambraccio. Con delicatezza, Bruno Pelizzi si libera, depone un bacio leggero sulla fronte di quel ragazzo allo sbando, dà un’occhiata disgustata alle lenzuola luride e incrostate di sangue secco e si incammina verso l’uscita. Sulla porta, quasi si scontra con un infermiere massiccio dall’aria truce, con una sigaretta dietro l’orecchio e i capelli unti di gel.

    «Scu…». La parola gli resta in gola. Bruno lo ha afferrato per il bavero e sbattuto contro il muro.

    «Lo vedi quel ragazzo sulla branda al centro?», gorgoglia.

    «Er matto? Si ma…».

    «È mio nipote… Perché nessuno gli cambia le lenzuola? Fanno cacare».

    L’infermiere soffoca il risolino di scherno. La stretta incrudelisce.

    «Che… Lenzuo… Io…».

    «Come ti chiami?»

    «Chi, cioè, io?»

    «Come cazzo ti chiami, ci senti?»

    «Pantarella Alfonso», squittisce l’infermiere, semisoffocato.

    «Stammi a sentire, Pantarella Alfonso. Sono l’ispettore Bruno Pelizzi, squadra mobile e il matto è mio nipote. Domani torno, giuro su Dio che se non lo trovo lavato, pulito e con le lenzuola fresche di bucato me la prendo con te. Scopro dove abiti, vengo a casa tua e ti faccio il culo, qualcosa di sicuro la trovo e se non la trovo me la invento. Sono stato chiaro?».

    L’infermiere gorgoglia qualcosa di indistinto.

    «SONO STATO CHIARO?»

    «Sì».

    Bruno allenta la stretta, prende il portafogli, sgancia cinquanta euro all’infermiere, costernato. Se qualcuno ha assistito alla scena si guarda bene dal commentare.

    Capitolo 2

    «Facciamo stanotte».

    Salsiccia guarda Vasile con la sua aria idiota. Le sette ore al semaforo a lavare vetri gli pesano come macigni nelle spalle, nelle braccia, soprattutto sul fianco ciccioso dove, a forza di sporgersi per passare la spazzola sui parabrezza, in un movimento continuo, faticoso e asimmetrico, a poco a poco si forma una fitta che diventa una lama e punge, taglia, squarcia. È tutto sbilenco, mal paciato, frullato come un frappè e vorrebbe solo mettere qualcosa sotto i denti, schiantarsi sulla sua branda, morire.

    «Sto a pezzi, Vasì», traccheggia. Ma si è già arreso. Gli occhi dell’amico sono due frecce.

    «’Sti cazzi… Vatti a riposare. Ci vediamo qui alle undici e andiamo a prendere l’autobus».

    «Ma proprio stasera? Cioè, dico, magari domani è meglio. È domenica e…».

    «Stammi a sentire palla di lardo. Ho organizzato tutto. Ferri, tubo, ciò pure uno spray per i cani tante volte…».

    «I cani? Cazzo, mica m’avevi detto che…». Lo schiaffetto doloroso sull’orecchio gli tappa la fogna.

    «Non ho detto che ci stanno i cani. Sono passato tre volte in due giorni e non ho visto un cazzo di cane, e comunque io ci so fare, non mi mordono. Piantala di cacarti sotto».

    «Non mi caco sotto», sbotta Salsiccia, umiliato.

    «Invece sì. Sei un cacone di merda. Non so perché ho deciso di farla con te, ’sta cosa… E adesso non ti puoi tirare indietro… La dritta è buona, i padroni sono fuori per il weekend ma forse tornano domani, quindi è stanotte, ci siamo capiti?».

    Salsiccia annuisce sconfitto. Quando Vasile fa quella faccia non c’è ma che tenga.

    «Bravo… Vatti a sdraiare. Ti voglio in forma. Alle undici, preciso. Se mi fai aspettare cinque minuti ti sfondo».

    «Alle undici, capito».

    Salsiccia si avvia verso la roulotte trascinando i piedi e Vasile si domanda ancora una volta perché ha scelto proprio un coglione come lui. Ma ormai è fatta e, almeno, è sicuro che Salsiccia non lo tradirebbe mai, più per paura che per amicizia o lealtà. La lealtà, nel campo, è merce di scarto. Vasile guarda le donne avvizzite e affaccendate, gli uomini tracotanti, sinistri, pericolosi, i bambini laceri e schiamazzanti, gli adolescenti gasati in perenne attesa di diventare adulti e contare anche loro qualcosa come i padri e gli zii, nei consigli degli anziani, la melma, la merda, i rifiuti, i cani scheletrici aggressivi come belve, le macchine tirate a lustro, le roulotte fatiscenti, i gabinetti chimici sfondati che rigurgitano escrementi, i fili elettrici penzolanti, i lampioni rotti, lugubri come forche, il brulichio invisibile ma perenne di topi, parassiti, scarafaggi, cimici, pidocchi, formiche, i panni lavati al secchio e stesi ad asciugare… Basta con tutta questa merda. Basta. Da domani cambia tutto. Sorride sghembo, immagina, pregusta. Finito. Tutto finito. Solo poche ore.

    «Super Pill? Che cazzo è?»

    «Una bomba. Ecstasy, mefedrina e Viagra. Non solo ti sballa ma stai a cazzo duro una notte sana».

    «Fattela tu… Io non ne ho bisogno. Mi tira già abbastanza, grazie».

    «Anche a me, cazzo credi? Mica ho bisogno di steccarmelo».

    «E allora a che ti serve il Viagra?»

    «Aumenta l’effetto… Non so bene che c’entri ma è una specie di amplificatore dell’ecstasy. Dilata i vasi sanguigni, fa scorrere meglio l’anfetamina in vena, qualcosa del genere. Pensa che qualche giorno fa hanno blindato tre tizi che facevano i colpi in banca e, prima delle rapine, si calavano due Viagra a cranio per darsi la carica».

    «La gang dei cazzi duri… Li avranno riconosciuti dal rigonfio sotto i calzoni».

    «Bella stronzata di battuta…».

    «Già perché la storia della Super Pill invece…».

    «Ti dico che è vero, ’tacci tua, non mi credi mai…».

    «Infatti mi sembra una bufala. Chi te l’ha detto?»

    «Uno che le fabbrica. Lavora in una casa farmaceutica. I laboratori devono essere sorvegliati ventiquattro ore al giorno, no? È per via delle culture, dei funghi, di tutte quelle merdate lì, insomma. Ci sono ’sti chimici, quasi tutti giovani assunti da poco, che fanno i turni di notte a sorvegliare le provette, si rompono le palle e passano il tempo a inventarsi nuove molecole da sballo. Molte chicche da discoteca vengono da lì».

    «Lo vedi che cazzeggi? Le importano da Amsterdam, lo sanno tutti».

    «Sei tu che cazzeggi… La polvere d’angelo e l’ecstasy sono importate, e qui hai ragione, ma poi ci sono ’sti chimici che le studiano, le modificano, le cambiano e le mettono in commercio… Guarda che non dico stronzate, ne conosco un paio. È tutta una gara con gli sbirri perché molte sostanze non rientrano nelle tabelle di legge e quindi, ufficialmente, non sono delle droghe e possono essere vendute liberamente, perciò se ti dico…».

    «Questa l’hai vista al cinema. O in quella serie tivù».

    «Non è vero: è il film che ha ripreso la realtà, mica il contrario. Cazzo sei veramente di coccio, Flavio».

    «E tu de teck, Matteo…».

    «Sì, nelle mutande. Anzi, di cemento, vuoi provare?»

    «’Fanculo. E comunque chi la spinge, ’sta Super Pill? Il tuo amico?»

    «No. Lui e gli altri la producono solo. Per questo non li beccano. Vedi che non è come nel film?»

    «E allora?»

    «Vendono all’ingrosso. A quanto ne so la smerciano a certa gente di Torbella che ha messo su tutta una rete di spacciatori al dettaglio».

    «Meraviglioso. Proprio quello che ci mancava, comprare dai malavitosi di merda. A proposito, passa ’sto cannone, te lo stai a fumà tutto da solo».

    «Scusa, m’ero distratto. Oh, tra l’altro mica male ’sto fumo…».

    «Grazie al cazzo, io ho i contatti veri, mica le stronzate che dici tu».

    «Non dico stronzate… E comunque, se non ti interessa chi se ne frega… Vorrà dire che sabato notte la prendo solo per me, poi ti faccio sapere».

    «E dove?»

    «Dove cosa?»

    «Dove la trovi no? Sei proprio strafatto…».

    «In effetti sto bello sballato. Comunque pensavo di farmi un giro in quei posti tamarri… Sai tipo Goa, Le Terrazze, Spazio 900… Di sicuro trovo qualcuno che la spinge, stanno sommergendo Roma, la gente non vuole altro».

    «Bei postacci del cazzo. L’unica cosa che si rimedia è una saccagnata».

    «Hai strizza?»

    «Ce l’avrai tu… Solo che non mi va di farmi lamare il culo dal primo boro sbronzo che si fa rodere… E poi ’sto weekend sto incasinato, mi tocca andare all’Argentario coi miei».

    «E tu di’ che non puoi… Inventati qualcosa, no? Dài che se hai casa libera magari becchiamo un paio di tipe e ce le scopiamo da te».

    «E che gli dico a quei rompicazzo? Mi stanno appresso col fucile…».

    «Cazzo ne so? Che stai male…».

    «Non funziona. Sono capaci di chiamare il medico».

    «Fa’ una sega al termometro».

    «Nuova come idea, complimenti… M’hanno svagato a quattordici anni. T’ho detto, i miei sono due nazisti».

    «E digli che devi studiare… Lunedì ti interrogano, hai un compito in classe, qualche stronzata così. Ti devi preparare bene, non ti puoi distrarre, hai bisogno di tranquillità per ripassare, bla bla. Vedrai che abboccano».

    «Sai che non è una cattiva idea? Quasi quasi ci provo…».

    «E provaci… Oh, al massimo ti dicono di no. Vai, Fla, sabato notte tutta vita».

    «Vediamo… Ma mi sa tanto che ’sta Super Pill è una cazzata».

    «Provare per credere… E intanto perché non attrezzi un’altra canna?»

    «Daje… Ma la prossima volta il fumo lo compri tu».

    «Sei il solito rabbino».

    «Senti chi parla…».

    «Ma se pago sempre io…».

    «Vabbè, sabato ti offro una superbomba, contento? Tu pensa a liberarti coi tuoi».

    «Ne fai una questione personale… Ti sei fissato con questa storia».

    Bruno Pelizzi stringe le labbra in una smorfia di disappunto, si trattiene a fatica.

    «Mio nipote non c’entra… È solo uno dei tanti. Deve darmi retta dottor Cairo, mi lasci lavorare, non chiedo altro». Odia supplicare, ma è proprio quello che sta facendo. Per Giorgio, per gli altri come lui.

    «Niente da fare, ispettore… Abbiamo altre grane più grosse da risolvere. La storia di Torbella come va?», taglia corto Gianni Cairo che non vede l’ora di levarselo dai piedi. Ottimo elemento, grintoso, tenace, intraprendente, ma quando va in fissa diventa una piattola.

    «Va, dottore, ci stiamo lavorando… Il problema è il solito, quelle maledette vedette. Le hanno appostate dovunque, non riusciamo a mettere il naso in quel cazzo di quartiere che ci svagano all’istante».

    «Mi faccio prestare qualche macchina dalla omicidi… Magari mandiamo Abdel». L’ispettore Abdel Marassi, l’unico di pelle scura di tutta la questura di Roma, è prezioso come infiltrato ma, anche se non è mai comparso sui giornali o in tivù, la mala stanziale si è passata la voce e ormai, in molte zone, è bruciato anche lui. Lo sbirro negro, la guardia infame from Somalia, il bongobongo con la Beretta. Bruno Pelizzi fa un gesto scoraggiato.

    «Non c’è bisogno di Abdel. Ci pensiamo noi, dottore, prima o poi li becchiamo tutti. Ma tornando a quella faccenda di prima…». Il pugno del dirigente fa sobbalzare la scrivania.

    «Quella faccenda non esiste, Pelizzi. Come cazzo te lo devo spiegare? La roba chimica non è una priorità. ’Sta città di merda è inondata di cocaina e tu stai appresso alle pillolette dei ragazzini, cazzo».

    L’ispettore inghiotte saliva, incazzatura e rispostaccia.

    «Se mi fa parlare cinque minuti, cinque minuti soli, dottore, forse…», azzarda.

    «E parla. Ma poi si fa come dico io». Gianni Cairo evita stoicamente di massaggiarsi la mano e si augura di non essersi incrinato un dito. Dirigere la sezione narcotici della mobile, a quarantaquattro anni, è uno stress mostruoso e non può permettere che uno dei suoi uomini migliori si metta a remare contro.

    «Non si tratta più di pillolette e spaccio occasionale, dottore», attacca Pelizzi. «Le droghe da discoteca, ormai, sono un affare all’ingrosso. I canali sono gli stessi della coca, le gang ci si stanno buttando a pesce, comprano all’ingrosso, rivendono al dettaglio, fanno una montagna di soldi. Le molecole sono sempre più sofisticate, i cocktail molto più potenti e micidiali di dieci anni fa e quelle schifezze sono più facili da importare e da occultare rispetto alle sostanze tradizionali. Nel giro di un anno o due le pillole avranno sorpassato il giro d’affari della coca, dell’eroina e dell’erba messe insieme e noi stiamo qui a girarci i pollici». Poi capisce di aver fatto un passo falso e cerca di fare precipitosamente dietro front. «Cioè, mi scusi, nel senso che c’è il rischio di sottovalutare il fenomeno e…».

    «Hai finito?»

    «Mi creda, dottor Cairo, se soltanto potessi…». Il funzionario guarda malinconicamente la sacca sportiva dimenticata in un angolo. Anche oggi niente allenamento. Se continua così diventerà un ammasso di ciccia, con l’ipertensione e l’enfisema, come tanti suoi colleghi.

    «Va bene, Pelizzi, vedo che hai fatto i compiti. Otto e mezzo. Bravo. Ma adesso ascolta me. Non dico che hai torto, mi dispiace per tuo nipote ma…».

    «Mio nipote non c’entra e quelli, se permette, sono affari miei». La voce dell’ispettore, adesso, è una sega da ferro. Cairo mette le mani avanti in un gesto di scusa.

    «Certo, certo Pelizzi. E a proposito, come sta?»

    «Lo dimettono dopodomani. Il TSO scade. Il PM l’ha denunciato a piede libero».

    «Be’ se non altro non va in galera, sono contento per lui e per te. E tu stagli appresso. Quanto alla faccenda delle pillole, va bene, sono sicuro che qualcosa di vero c’è… No, non m’interrompere, diciamo pure che hai ragione. Ma non c’è bisogno che ti spieghi come funzionano le cose, no? È una vita che sei qui. I carabinieri hanno appena fatto un botto da cinque chili di coca. La finanza sta appresso alla tratta internazionale dell’hashish e un mese fa ha beccato quella nave a Civitavecchia con due tonnellate… Questi si chiamano risultati. Hai presente quando il ministro chiama il capo della polizia per fargli un pompino, il capo si complimenta col questore, il questore fa le fusa al dirigente della mobile e sono tutti felici? Be’, è quello di cui abbiamo bisogno ora. Noi stiamo dietro ai tre, quattro etti e non ci si incula nessuno. E secondo te quanto gliene può fregare al ministro di qualche sacchetto di pilloline?».

    Pelizzi grugnisce qualcosa. Se l’aspettava ma almeno ci ha provato.

    «Se il ministro avesse un figlio che…».

    «Non ce l’ha. Il figlio è un neurochirurgo che magari sniffa intere proboscidi di coca e buon pro gli faccia. E comunque le direttive sono chiare». Fa un cenno con l’indice verso il pavimento, verso il primo piano, la stanza del questore. «Vogliono risultati. Vogliono sequestri. Vogliono vedere questa scrivania che rigurgita sacchetti di polvere bianca con tante telecamere e macchine fotografiche intorno. Quindi, te lo dico per l’ultima volta, falla finita con queste stronzate».

    Pelizzi annuisce e gira sui tacchi, ingrugnito. Ha già la mano sulla maniglia quando il suo capo lo richiama.

    «Ispettò».

    «Dica, dottore».

    «Facciamo così: tu chiudi la storia di Torbella. Portami qualcosa di grosso. Arresti, fermi, denunce ma soprattutto roba. Tanta roba. Se va bene, ti do la mia parola che ti lascio carta bianca per almeno due mesi. Potrai lavorare sulla storia delle chicche quanto ti pare e nessuno ti romperà le palle. Ma prima, chiudi Torbella e non mi deludere. Intesi?»

    «Intesi, dottore. Grazie».

    «Allora dammi ’sta cazzo di mano».

    Si stringono la mano un po’ impacciati, poi l’ispettore esce. Gianni Cairo sospira, guarda la sacca da palestra e l’orologio e decide di andare a farsi un cheeseburger, ’fanculo anche alla linea.

    L’autobus li molla sulla Colombo, una scarpinata di almeno mezz’ora per arrivare alla villa ma non hanno fretta. Vasile si sistema lo zainetto che gli sega le spalle: dentro ci sono i ferri che ha rimediato per il lavoro: piede di porco, pinza tagliafili, un grosso tubo Innocenti, cacciavite, spadini, tagliavetri, ventosa e uno spray urticante che ha comprato in armeria. Salciccia gli cammina a fianco, con la sua andatura tutta storta. Ha un problema con le anche o coi piedi, forse appiattiti da tutta quella ciccia, corre male, si stanca presto, si caca sotto e Vasile, per l’ennesima volta, rimugina che si è scelto proprio un compagno del cazzo ma ormai è fatta: non gli resta che sperare, tentare di tenerlo bello gasato e pregare il Dio dei ladri.

    «Sei carico Salcì?». Gli allunga una pacca sulla spalla lardosa mentre s’incamminano lemme lemme sullo stradone che porta a Mostacciano. Le zoccole tutte in tiro della Colombo se le sono lasciate alle spalle da un pezzo, qui ci sono solo lampioni, alberi, qualche macchina che sciabola la notte coi fari.

    «Sicuro che non c’è nessuno?». La faccia di Salsiccia sembra una piadina, tant’è pallida.

    «Vuota. Deserta. Disabitata. Come cazzo te lo devo dire?», lo rimbrotta. «Piantala co’ ’sta strizza, mi fai venire il nervoso».

    «Non è strizza è che…».

    «È che ti pisci sotto, ecco cosa».

    «Vaffanculo. Non voglio finire al gabbio, tutto qui».

    «Neanche io… E piantala allora, ce la tiri a tutti e due».

    Mezzanotte e venti quando, finalmente, arrivano. E restano di sasso.

    La villa di fronte illuminata a giorno. Musica. Stereo. Ragazzi impaccati che entrano, escono, chiacchierano, fumano, cazzeggiano. Tope in pantacollant, leggings o gonna inguinale, rigorosamente su tacchi dodici. SUV. Scooteroni. Qualche grossa naked scintillante. Una festa.

    «Merda. Guarda ’sti stronzi», rosica Salsiccia. «Ci tocca mollare».

    «Mollare ’sto cazzo», s’invelenisce Vasile. «Ho detto stanotte e stanotte lo facciamo, porca puttana».

    Vasile sbianca ancora di più, indica il movimento, boccheggia.

    «E come? Questi ci cioccano che neanche siamo entrati».

    «Prima o poi si levano dalle palle, sta’ sicuro… Basta aspettare», replica Vasile, ma neanche lui si sente tanto sicuro.

    «E che facciamo, restiamo qui?»

    «No. Prima o poi qualcuno ci svaga di sicuro. Andiamo a mangiarci un panino, dài, offro io». Gli occhi di Salsiccia, finalmente, s’accendono di un barlume d’entusiasmo. Mangiare. La sua unica, vera gioia.

    Tornano indietro a suola e tacco, vagano nel buio, sbagliano strada un paio di volte e, finalmente, trovano un bar ancora aperto. Il barista gli prende le misure e inalbera la faccia da pitbull.

    «Levatevi dalle palle», li saluta garbatamente. Vasile infila la mano in saccoccia, il barista sbianca ma lui tira fuori un paio di banconote da dieci tutte stropicciate e le sbatte sul bancone. Il barista sospira ma arretra d’un passo e tiene d’occhio la mazza da baseball accorciata che nasconde sotto la cassa. Alla terza rapina ha deciso che basta così, al prossimo che ci prova gli sfonda il cranio.

    «Che c’è da mangiare?».

    Il barista accenna a qualche pizzetta unta e secca, un paio di tramezzini giallastri, due panini scorticati con una fetta di prosciutto e una di formaggio così sottili che ci si vede attraverso.

    I due ragazzi ordinano, aspettano che i panini si scaldino, masticano svogliatamente, ingollano sorsate di Peroni. Salsiccia finisce in tre bocconi, chiede un tramezzino al tonno, si lecca le dita. Vasile ha lo stomaco stretto come il culo di una gallina ma si sforza di ingoiare quella robaccia. A metà panino dà forfait, rischia di vomitare.

    «Lo vuoi? Non mi va più».

    «Sicuro… Cos’è, non hai fame? Ti è venuta la strizza?», lo stuzzica Salsiccia a bocca piena.

    «Ho cenato… Mica sono sfondato come te», grugnisce Vasile, ma lo stomaco gli rimescola tutto. Ci mancavano solo i testa di cazzo della festa. Sbircia il finto Rolex da cinque euro e si domanda quanto dovranno aspettare. Minimo le tre, meglio le quattro. A quell’ora di sicuro saranno tutti sotto le pezze.

    «E adesso che facciamo?». Quando escono dal bar è solo l’una e mezzo. Il barista s’affretta a calare la saracinesca, ringraziando il cielo di non aver dovuto usare la mazza. Con i ragazzini è sempre un casino: provano a rubare e se, giustamente, li prendi a mazzate, poi ti ritrovi in un mare di merda. Ancora una volta si domanda chi glielo ha fatto fare di accettare quel posto. Solo per arrivarci ci mette un’ora e un quarto coi mezzi ma almeno il principale, dopo i primi sei mesi, l’ha messo in regola o quasi: mezzo orario denunciato, metà contributi versati ma è già parecchio, di questi tempi.

    «Che facciamo?», si lagna ancora Salsiccia. Vasile si sente prudere le mani, non lo regge più.

    «Aspettiamo. Anzi, sai che ti dico? Mi è venuta un po’ di cecagna. Ci facciamo una pennichella?».

    Salsiccia alza le spalle. Ormai spera solo che l’amico rinunci. Non è serata, se lo sente da quando hanno lasciato il campo ma vaglielo a spiegare a quell’invasato. Quando si mette in testa una cosa non lo smuovi neanche col trattore.

    Vagano senza meta nel buio del quartiere, individuano una panchina, si stravaccano. Vasile sistema bene lo zainetto, hai visto mai che qualcuno glielo freghi mentre dorme. Tanto sa benissimo che non chiuderà occhio: troppa tensione, troppa adrenalina. Comunque fa la sua brava scena, tanto per rassicurare l’amico, stende le gambe, chiude gli occhi e dopo un po’ si mette a respirare piano, come se si fosse appisolato. Mille flash nel cervello: loro due che spaccano la porta, entrano, trovano subito un montarozzo di gioielli abbandonati su un comodino, si riempiono le tasche, beccano le chiavi di una macchina, una Mercedes o una BMW, se la squagliano tranquilli e paciosi, con lo stereo in sordina e il motore che ronfa piano come un gattone che fa le fusa.

    «Che dici, se c’è una macchina la…», propone dimenticandosi che stava fingendo di dormire. Ma Salsiccia non lo ascolta: la testa gli è ricaduta sul mento, un filo di bava gli penzola dalla bocca. Dorme.

    Il rettangolo di cemento circondato da un peristilio di colonne e illuminato di lampi fucsia, verde e arancione balugina su piazza Marconi, incombe sulla folla assiepata all’ingresso, sulle auto e le moto accatastate alla rinfusa, sulla fila in perenne attesa della cernita dei buttafuori. Muscolati, palestrati, accigliati, incazzati, gli uomini della Security Team in felpa nera sui toraci ipertrofici si godono il loro potere assoluto, troneggiano sulla calca dei comuni mortali, biascicano frasi indistinte agli auricolari. Una volante passa e se ne va. Routine. Due coattoni sbronzi come cammelli s’appiccicano di brutto, trattenuti dagli amici, parte una testata, una ragazza bionda strilla con voce acuta, due schieramenti si fronteggiano a spintoni, un piede guizza verso un bassoventre ma manca il bersaglio, voci arrochite dal fumo e dalle chicche che salgono di tono poi la rissa si placa così com’era cominciata, tra sguardi assassini e minacce di morte. Un tizio smilzo corre verso una Abarth 500, prende qualcosa da sotto un sedile, torna indietro roteando un bloccasterzo giallo a forma di clava ma viene intercettato, fermato e disarmato da un paio di buttafuori che lo trascinano fino alla macchina e lo infilano dentro di forza. La Abarth schizza via lasciando mezzo chilo di gomma bruciata a terra.

    «Qua finisce in merda… Troppi coatti», brontola Matteo, le orecchie intronate dalla musica house, l’aria inciocchita a forza di shottini da cinque euro a botta. Vodka lemon, vodka orange, vodka fragola, vodka e basta.

    «Ormai tutta Roma è così, escono solo loro», filosofeggia Flavio, appena un po’ più sobrio, visto che guida lui. Ha fregato le chiavi della BMW del padre, come fa almeno una volta alla settimana: se lo beccano senza patente è già un casino ma senza patente e pure sbronzo è una catastrofe, il vecchio è capace di spedirlo dritto all’Accademia militare.

    «Cos’hai rimediato?». Lo sguardo di Flavio è famelico ma si smorza davanti alle due pilloline bianche. «Solita robaccia, sarebbe questa la Super Pill?», sfotte. «Tanto valeva andarmene all’Argentario».

    «Il tizio che la spinge se l’è squagliata…», si giustifica l’amico. «Colpa della rissa. Quei tamarri hanno cominciato a fare gli stronzi nel locale, li hanno sbattuti fuori e tutti gli spacciatori hanno preso il volo». Flavio annuisce, vecchia storia. Risse e scazzottate sono una catastrofe per chi spinge roba nei locali, col rischio di polizia e perquisizioni, anche se gran parte delle liti hanno un movente chimico o alcolico, il carburante delle baruffe è sempre quello.

    «Ponte Mollo? Proviamo lì?», propone Matteo. Flavio guarda l’orologio. Le due e mezzo, la notte è appena iniziata, la movida raggiungerà il clou tra un paio d’ore per poi spegnersi gradualmente soltanto all’alba, lasciandosi dietro un tappeto di cocci di bottiglia, pacchetti di sigarette vuote, vomito, pisciate e qualche ferito al pronto soccorso.

    «E proviamo… Qui mi sono rotto», acconsente Flavio, incamminandosi verso la BMW che ha prudentemente lasciato a distanza di sicurezza. Prima di salire, controlla meticolosamente la carrozzeria con un po’ di batticuore ma è tutto a posto, neanche un graffio. Il rischio peggiore è che qualche stronzo si diverta a ricamare la vernice con le chiavi o a bucargli le gomme. Le multe per divieto di sosta corre a pagarle in tabaccheria a tempo di record e guida come un pensionato, per evitare di farsi beccare dai vigili.

    Imboccano viale Marconi a passo d’uomo, nel casino del sabato notte. Il piacione imperversa: sguardi vogliosi, battute, schermaglie, tentativi di rimorchio da macchina a macchina, squinzie e shampiste parate da rockstar che occhieggiano, sgallineggiano, civettano a distanza, Golf e Mercedes straripanti di coattume all’arrembaggio, scooter, scooteroni, motorini, moto che dribblano pericolosamente sfiorando i paraurti. Il solito casino. La BMW arriva sul lungotevere e punta verso nord, lo stereo che pompa il reggaeton di Enrique Iglesias, i finestrini abbassati tanto per sbirciare qualche topa. Matteo tira fuori una sigaretta e l’accendino ma Flavio lo stoppa al volo.

    «Sei scemo? Se mio padre sente l’odore mi s’incula».

    «Che palle che sei co’ ’sta storia di tuo padre», farfuglia Matteo. Gli occhi gli si chiudono, la chicca neanche la sente, così impara a comprare dal primo che passa. Flavio guida concentrato, prima, frizione, freno, il berretto col logo Adidas calato sugli occhi a nascondere la faccia anche se le possibilità di un controllo sono remote. I gessetti, di notte, hanno ancora meno voglia di lavorare che di giorno. Il vero guaio sarebbe un incidente e con tutti quegli impasticcati e sbronzi al volante è un miracolo che non sia mai successo. «Allora la prossima volta prendiamo la macchina dei tuoi…», grugnisce di rimando.

    Arrivano davanti allo stadio dopo tre quarti d’ora buoni. Flavio cerca un posto dove mollare la BMW e riesce miracolosamente a incastrarla tra una microcar e una fila di scooter. Andare avanti verso piazza Ponte Milvio è un rischio grosso, troppi vigili o agenti della polizia Roma Capitale, come si fanno chiamare adesso. Scarpinano nel buio verso il luna park della piazza, circondata di strisce bianche e rosse, una bolgia di pub, ristoranti, chioschetti, cingalesi che vendono merdate, gente che sbarella, bottiglie di birra e di vino portate dai supermercati o bicchieroni di plastica comprati nei locali accatastati ovunque. La folla è leggermente più civile rispetto allo Spazio 900, gruppetti di ragazzini del Fleming un po’ spaesati, pariolini, borgatari appena più tranquilli che alla Magliana o all’Eur ma pulotti e carubba in abito simulato sono dappertutto e Matteo cerca disperatamente qualche faccia conosciuta per rimediare le chicche.

    «Ci vediamo qui tra mezz’ora», urla cercando di sovrastare il casino e indicando la grande statua di bronzo del Cristo che sembra piazzata a guardia del ponte, coi suoi grappoli di lucchetti dell’amore, proprio all’inizio della ciclabile. Flavio annuisce, entra nel chiosco, si spara una Ceres e se ne resta lì a ciondolare: il compito di trovare la roba spetta all’amico, lui non è mai stato un granché in queste cose, mentre Matteo conosce tutti, sa chi contattare e dove comprare e raramente prende una bufala.

    Si ritrovano quaranta minuti dopo. Matteo è raggiante, Flavio immusonito. È riuscito ad attaccare bottone con una tipa bruttarella ma con un’aria da zozzona. Neanche il tempo di offrirle una birra che è spuntata fuori una testa di cazzo sulla trentina, l’ha guardato come uno scarafaggio, ha preso sottobraccio la zoccola e addio.

    «Trovate?»

    «Sicuro… Te l’ho detto che ti devi fidare».

    «Fa’ vedere…».

    «Sei scemo? Andiamo in macchina».

    Ritrovano la BMW dopo aver vagato un quarto d’ora buona nel buio, Flavio col cuore in gola e la strizza che l’abbiano rubata o magari portata via col carro attrezzi ma è ancora al suo posto, meravigliosamente intatta. Appena dentro, Matteo scarta un rettangolino di stagnola. Due pilloline celesti con la sigla SP.

    «Sembrano le solite chicche».

    «Col cazzo… La vedi la sigla, Super Pill». Matteo se ne cala subito una, stappa una lattina che ha comprato da un ambulante, un gorgoglio di schiuma rigurgita sul sedile, Flavio bestemmia, si sfila la felpa Gap e strofina furiosamente. Poi accende la lucetta interna e sospira di sollievo: la macchia non si vede.

    «Ti ho detto di starci attento, cazzo… Dài, dammela», ringhia.

    «Mi devi quaranta euro».

    «’Sto cazzo… Hai detto che offrivi tu, per una volta».

    «Vabbè, ma sei proprio un rabbino».

    «E tu uno scozzese che vive a Genova».

    Inghiotte la chicca con una gollata di birra e si affretta a partire. La BMW torna indietro, attraversa il ponte, punta di nuovo verso sud. Flavio spera solo che la botta gli arrivi vicino a casa: non l’ammetterebbe mai neanche sotto tortura ma ha una strizza mostruosa di guidare quando è fatto. Accompagna l’amico a casa, saluta in fretta e punta verso la villa. Mentre il cancello si apre lentamente, comincia a sentire l’anfetamina che gli urla nelle vene e gli pompa nella testa.

    Una goccia d’acqua sulla fronte. Vasile emerge lentamente dal sonno, fa un gesto come per scacciare una mosca ma un’altra goccia gli cade dritta sul naso e lo costringe ad aprire gli occhi. Sta piovigginando. Salsiccia è spaparanzato accanto a lui, sulla panchina che ha occupato quasi completamente, il corpaccione riverso in una posa sbilenca, le gambe semipiegate di lato. Vasile scuote la testa, come un cane che si scrolla dall’acqua, e guarda l’orologio. Le lancette fosforescenti segnano le 5:50. La pioggia continua a cadere, debole ma insistente, Salsiccia dorme come un cinghiale e Vasile pensa che per svegliarlo ci vorrebbe una secchiata d’acqua, gli afferra una spalla e lo scuote rudemente. L’amico gorgoglia qualcosa, protesta, fa per girarsi dall’altra parte.

    «Svegliati, cazzo, è ora di lavorare…».

    «Ma che…? Merda, dormivo… Dove…», farfuglia Salsiccia, intontito. Avrebbe solo voglia di rimettersi giù.

    «E sveglia, porca troia, è quasi mattina. Dobbiamo andare». Salsiccia si tira a sedere a fatica e si stropiccia gli occhi cisposi, rabbrividisce, si stiracchia.

    «Quanto ho dormito?», mugugna.

    «Troppo. Dobbiamo andare…».

    Salsiccia lo guarda senza entusiasmo. «Senti, Vasì, so’ tutto rotto. Perché non lo facciamo un’altra volta, eh? Fa un freddo di merda e piove, non è la notte giusta».

    «Meglio. Con la pioggia la gente se ne sta a casa e si fa i cazzi suoi, datti una mossa».

    Si alza, si sistema lo zainetto coi ferri e si incammina con decisione. Salsiccia lo segue brontolando. Del colpo non gliene frega più un cazzo, ha freddo, ha paura, ha fame ma capisce che non c’è niente da fare. Vasile è completamente partito. Quando si fissa in quel modo, non c’è Cristo che tenga. Salsiccia si dà una grattatina scaramantica sopra i calzoni e, giacché c’è, recita un’avemaria in silenzio. Sa di essere un vigliacco, ormai se n’è fatto una ragione e ha bisogno di Vasile. Senza di lui, tra i ragazzi del campo, sarebbe carne da macello.

    Arrivano davanti alla villa dopo una ventina di minuti. Ha quasi smesso di piovere, almeno quello, ma l’umidità si taglia col coltello, l’erba e le piante stillano acqua, i lampioni riverberano una luce arancione circonfusa di una nebbiolina inconsistente.

    Salsiccia punta dritto al cancello. Vasile lo afferra per un braccio e lo tira indietro.

    «Sei coglione? Prima facciamo un giro, vediamo se ci sono le telecamere».

    «Ma mi avevi detto che…».

    «Meglio controllare».

    Camminano lungo il perimetro del muro, tenendosi sul lato opposto della casa. Nessuna telecamera in vista. Attraverso le grate, vedono un parco ben tenuto e una grossa macchina scura ma niente cani. Salsiccia si sente appena un po’ sollevato.

    «Scavalchiamo?».

    Vasile indica il cancello. Niente di complicato, le sbarre sono ben distanziate, senza punte di lancia in cima. Un’arrampicata sul velluto.

    «Senti, non sarebbe meglio che io… Insomma, se arriva qualcuno? Magari resto a fare il palo, no?», esita Salsiccia che sta per pisciarsi sotto. L’amico lo guarda con disprezzo.

    «Lo sapevo. Sei un cacasotto del cazzo…».

    «Non è vero è che…».

    «Vaffanculo. Ma sì, meglio così, faccio da solo. Se vedi le brutte, almeno fammi uno squillo. Hai campo?».

    Salsiccia controlla il cellulare. Tre tacche su quattro. Annuisce, preparandosi a una breve attesa in mezzo alla strada. È andata bene. Se il colpo riesce spartiranno il bottino, sennò avrà tutto il tempo per squagliarsela.

    Vasile gli lancia un’altra occhiataccia, gli volta le spalle e comincia ad arrampicarsi, lesto come uno scoiattolo. In un amen è già dall’altra parte. Salsiccia sente il rumore attutito delle finte Nike che atterrano sull’erba.

    «In culo alla balena», sussurra nel buio ma l’altro è già lontano.

    L’ingresso principale della villa ha una serratura europea, protetta da una placca quadrata d’ottone fissata da quattro viti a croce. Niente block security. Prima di mettersi al lavoro, Vasile ispeziona tutto l’esterno alla ricerca di finestre semiaperte o di una porta secondaria, magari lasciata senza mandata di sicurezza. Capita spesso: i coglioni pieni di grana spendono una fortuna in sistemi d’allarme a ultrasuoni o a vibrazioni, collegati con i vigilantes o la questura, ma dimenticano di inserirli, oppure lasciano le porte blindate da duemila euro col semplice scatto, senza mettere il paletto: la stragrande maggioranza dei furti viene messa a segno così, la migliore alleata dei topi d’appartamento è la distrazione. Vasile tasta la bomboletta spray che ha in saccoccia, poi tira fuori il cacciavite e toglie rapidamente la placca d’ottone. La butta nel prato e inserisce con cura il tubo di metallo nella serratura nuda. Tra la porta e il congegno c’è giusto lo spazio per farlo passare. Vasile inspira forte, cerca di ricordarsi le lezioni di Amelio, il professore di scasso e borseggio, fa leva con tutte le sue forze. Il crack dell’acciaio che si schianta gli sembra una cannonata. Resta in silenzio per qualche istante, aspettando una luce improvvisa, una sirena, un urlo, un abbaiare o, Dio ne scampi, un colpo di pistola. È il momento più critico, quando non sei né fuori né dentro. Mentalmente, calcola il tempo che ci vuole a tornare al cancello di corsa, scavalcare e buttarsi in strada ma non succede niente e, a poco a poco, si rassicura. Con un altro cacciavite, più sottile e a punta piatta, estrae i pezzi della serratura dal loro alloggiamento, fa scattare il meccanismo, apre, entra.

    Buio, silenzio, odore di pulito, di lusso, di soldi. Vasile estrae la piccola torcia elettrica ma ci ripensa. Dalla portafinestra di vetro corazzato entra una luce lattiginosa e sa che gli basta aspettare qualche minuto per abituare gli occhi e vederci abbastanza bene. La villa, a quanto ne sa, è deserta ma la prima lezione, insegnata a cinghiate da Amelio, è di non fidarsi mai.

    Col cuore a mille, ispeziona l’ingresso, entra in un salotto, si guarda attorno come un predatore. Pezzi d’argenteria, vasi di cristallo, un gigantesco schermo ultrapiatto. Tutta roba troppo pesante e di poco valore. Vicino alla porta c’è uno svuota tasche con qualche chiave ma nessuna sembra quella di una macchina.

    Le sei del mattino. Vasile si sente più sicuro ma sa che si deve sbrigare, mai restare troppo tempo sul posto. Alcuni imbecilli mangiano, bevono, cacano sui divani per puro sfregio ma sono tutte cazzate e il professore, una volta che era in buona, gli ha raccontato la storia di un fregnone che si è scolato due bottiglie di champagne durante uno scavalco, si è acciocchito e s’è svegliato sulla volante con le manette ai polsi. Lui si sente un professionista e sa cosa fare: cerca i soldi, i gioielli, la roba piccola che s’inguatta bene e si smercia meglio. La roba che si trova nelle camere da letto o, se va male, nelle casseforti. Se è così vuol dire

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