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Hated. Gli occhi del demone
Hated. Gli occhi del demone
Hated. Gli occhi del demone
E-book285 pagine3 ore

Hated. Gli occhi del demone

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Info su questo ebook

Un demone del vento e una ragazza destinata a diventare una Cacciatrice s’innamorano, nonostante i pregiudizi. Alla ricerca di un luogo dove poter vivere in pace, i due vagano in un mondo preda dell’odio fra le loro razze: dovranno affrontare i tranelli e le crudeltà di esseri senza scrupoli, dovranno scegliere se credere nell’istinto che li conduce l’uno verso l’altro o nella ragione, che sembrerebbe volerli allontanare.
Isy e Veil vivono un amore assoluto, potente, puro e passionale, messo a dura prova da un mondo cupo, sterile, in cui i sentimenti sono una zavorra di cui liberarsi al più presto, per poter sopravvivere.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2022
ISBN9788832783049
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    Anteprima del libro

    Hated. Gli occhi del demone - Angelica Elisa Moranelli

    cophatedlogogufo

    Angelica Elisa Moranelli

    Hated

    Gli occhi del demone

    logofrontespizio

    Homo Scrivens

    Direttore di collana: Aldo Putignano

    Editing: Serena Venditto

    Revisione bozze: Donatella De Tora

    Layout: Ugo Ciaccio

    Autore: Angelica Elisa Moranelli

    Titolo: Hated. Gli occhi del demone

    ISBN 9788832783049

    I edizione Homo Scrivens, novembre 2019

    I edizione ebook, novembre 2022

    ©2019 Homo Scrivens s.r.l.

    via Santa Maria della Libera, 42

    80127 Napoli

    www.homoscrivens.it

    pagina Facebook: Homo Scrivens

    Riproduzione vietata ai sensi di legge

    (art. 171 della legge 22 aprile del 1941, n. 633)

    Con un sospiro mi capiterà di poter dire

    chissà dove tra molti anni a venire:

    due strade divergevano in un bosco, e io –

    io ho preso quella meno battuta,

    e da qui tutta la differenza è venuta.

    (Robert Frost)

    Che tu venga dal cielo o dall’inferno, che importa,

    Bellezza! Mostro enorme, pauroso, ingenuo!

    Se i tuoi occhi, il sorriso, il piede m’aprono la porta

    di un Infinito adorato e che non ho mai conosciuto?

    (Charles Baudelaire)

    PROLOGO

    Buio.

    Luce.

    I lampi sono pallidi artigli che dilaniano le tenebre.

    Luce.

    Poi di nuovo buio.

    Il fragore del tuono fa tremare la terra e il mio cuore: sull’erba si allungano le ombre scheletriche delle querce.

    Cappuccetto, tieniti lontana dai boschi.

    La mia mano trema, stretta attorno alla torcia spenta.

    La pioggia mi ha inzuppato gli abiti, la sento sulla pelle e nelle ossa.

    Alzo gli occhi al cielo, cerco qualcosa che non sia buio e terrore: la luce antica di una stella, magari, o quella della luna, che ha guidato i miei passi nelle notti più buie.

    Non trovo nulla. Non c’è speranza nel cielo: è una notte fatta per gli incubi.

    La luna ha il volto di un cadavere, la sua luce livida annega tra le nubi; il mondo è come sospeso tra vita e morte, dopo il boato del tuono, sembra trattenere il respiro.

    È un ululato a riportare, di colpo, la vita sulla terra.

    Non lo vedo, il lupo, ma posso immaginarlo mentre urla la sua preghiera di cibo: ossuto, consumato come una vecchia reliquia, come un ricordo polveroso che non vuole estinguersi nel buio.

    Sono quel lupo, ansimo nella notte e ho paura di spegnermi.

    Mio padre mi ha detto: «Resta indietro e osserva» e io lo faccio, osservo anche se non voglio, anche se ho paura. Non posso distogliere lo sguardo o gli porterei sfortuna.

    Tremo, nascosta fra i cespugli, come un coniglio.

    Buio.

    Luce.

    Ora lo vedo.

    Nel bosco c’è il Lupo Cattivo, Cappuccetto.

    La luce terrea dei lampi illumina l’essere che mio padre sta cacciando.

    È un Thulir, un demone del vento.

    I capelli sono un lungo mantello che si confonde con gli abiti neri. La sua pelle, bianca come alabastro, brilla nella notte. Non si è accorto di noi, è inginocchiato e chino sul terreno, come in preghiera.

    Mio padre striscia nel buio per coglierlo alle spalle.

    Per un attimo, mi sembra ingiusto: piantare un coltello nella schiena è un modo vigliacco di combattere.

    Il Cacciatore ti salverà dal Lupo, Cappuccetto.

    Da due anni io e mio padre inseguiamo demoni. I Thulir sono i più difficili da abbattere, sono i più forti, i più letali, i più attraenti, i più preziosi.

    I monaci li pagano a peso d’oro: più di un anno fa, mio padre ne ha catturato uno abbastanza giovane e lo ha venduto a un Tempio. Ricordo quel giorno: il sole bruciava la pelle e il giovane Thulir, dopo la lotta con mio padre, era ferito a un fianco, la testa coperta da un sacco, le braccia dietro la schiena.

    Ringhiava qualcosa nella sua lingua, qualcosa che mi dava i brividi: non capivo e ne ero felice.

    Lo abbiamo portato in un Tempio, il più vicino: era grigio, asettico, con ampi finestroni quadrati oltre i quali si aggiravano ombre inquietanti. Sulla porta, un’insegna mezza sbiadita: Clinica Specialistica Psichiatrica.

    Lo ricordo ancora con terrore, come se avessi davanti l’architettura di un incubo.

    Mio padre mi ha impedito di entrare con lui.

    «Aspetta qui» mi ha detto. «Non è posto per te, questo.»

    È uscito poco dopo: aveva venduto il Thulir, ma non sembrava felice.

    Con il denaro ricavato, però, ci siamo sfamati per mesi. Ricordo quel tempo di pace con una brama selvaggia e una nostalgia profonda: vorrei tornare a svegliarmi in un letto caldo e sentire il profumo del pranzo sulla tavola e osservare il viso un po’ meno stanco di mio padre.

    Ma il denaro finisce presto e così la pace: siamo tornati a cacciare, a inseguire demoni, ad affrontare Thulir.

    Questo è il primo che vedrò morire così da vicino. Sentirò il rumore della carne dilaniata? La puzza di bruciato? Le ossa frantumate?

    Buio.

    Luce.

    A mio padre non importa nulla di me. Vuole vendicarsi o, forse, solo morire.

    Stringo i pugni e serro la mascella, devo tenere a bada il panico; i cattivi pensieri portano sfortuna e mio padre, invece, ha bisogno di tutto il mio sostegno: non voglio che muoia, voglio che uccida il mostro, voglio andare via di qui con lui, sana e salva. Voglio continuare il nostro viaggio. Voglio una casa, di nuovo.

    Il Thulir, sempre chino sul terreno, dice qualcosa nella sua lingua. La notte, la tempesta, tutto tace, mentre le parole del demone danzano come foglie nel vento. Non ne capisco il significato, distinguo solo una parola: Veil. È un sussurro freddo che sa di odio, vendetta, disperazione.

    Osserva, mi ha detto mio padre e io osservo, obbediente, e reprimo la voglia di urlare. Quando il Thulir avverte la presenza del cacciatore è ormai troppo tardi.

    Così il Lupo Cattivo mangiò Cappuccetto Rosso in un sol boccone.

    Mio padre mi allena ogni giorno a lanciare il pugnale. La mia mira è ancora incerta, lui, invece, va sempre a segno. Succede anche questa volta: il pugnale si conficca, preciso, fra le scapole del Thulir, il demone con un urlo di rabbia si volta, ma i bracciali di Acciaio di Nebbia si chiudono sui suoi polsi, mentre le catene si tendono con uno spasmo che graffia la notte.

    Il Thulir emette un grugnito di rabbia e dolore, i polsi uniti, le braccia tese davanti a lui, come se stesse implorando. Il suo sguardo, però, non chiede pietà: gli occhi verdi come smeraldi, con la pupilla a fessura, urlano vendetta e assassinio.

    Mio padre trascina il Thulir sul terreno, l’Acciaio di Nebbia diventa rovente, sfrigola sulla pelle del prigioniero. L’odore di carne bruciata mi riempie le narici. Il demone solleva la testa, fissa mio padre e dice qualcosa, qualcosa che somiglia al sospiro di una strega: il suo viso affascinante si deforma per il dolore, poi gli occhi si sbarrano e le guance si gonfiano. Soffia l’aria fuori, come se volesse liberarsi dei suoi ultimi respiri.

    «Papà!» grido, scattando in piedi. «Attento!»

    Si dice che i demoni del vento possano avvelenare l’aria con il loro respiro. Mio padre sbarra gli occhi, lascia per un momento il capo della catena per portarsi la mano sul viso, per proteggersi. È un attimo: il Thulir afferra le catene con le mani emettendo un verso orribile, un urlo di rabbia e disperazione. Mio padre viene trascinato in avanti, cade in ginocchio, ma torna a stringere le catene con entrambe le mani, i muscoli delle braccia si gonfiano, l’intreccio di tatuaggi e cicatrici sembra prendere vita.

    Mio padre costringe di nuovo il demone per terra. È un cacciatore e conosce la danza della morte. Aggira il Thulir, si avvicina, chinandosi su di lui. Preme con lo stivale sulla sua schiena, mentre la puzza di sangue e carne bruciata diventa insostenibile. Mi costringo a non vomitare, stringendo i pugni sullo stomaco. I bracciali di Acciaio di Nebbia hanno il colore di un tramonto infuocato. Mio padre lascia le catene e afferra l’ascia che porta sempre legata al fianco. La lama a mezzaluna brilla nel buio, mentre cala, tagliando l’aria, e poi la testa del demone.

    Un rumore sordo, preciso, disgustoso.

    Il sangue schizza in alto.

    Chiudo gli occhi.

    Tu potrai andare nel bosco, Isy, non sei come Cappuccetto Rosso. Tu imparerai a uccidere il Lupo Cattivo.

    Quando riapro gli occhi, mio padre è ancora in piedi che si erge sul cadavere del demone, con l’ascia gocciolante in una mano e il viso e le braccia imbrattate di sangue rosso vivo, come quello di noi umani.

    Mio padre s’inginocchia davanti al cadavere, pulisce l’ascia sugli abiti del demone e se la lega di nuovo in vita, poi estrae il pugnale dalla schiena del Thulir e lo rinfodera ancora sporco di sangue. Dopo aver liberato il corpo dalle catene e i polsi dai bracciali, alza la testa e mi fa cenno di avvicinarmi. Io trascino i piedi nella sua direzione, con il cuore che ancora minaccia di esplodere. Vorrei piangere, ma so che mio padre mi direbbe che non ho più questo lusso, che devo sopravvivere.

    Così, in silenzio, mi avvicino.

    «Vedi, Isy. Questo è un Thulir adulto» mi dice mentre mi accoccolo davanti a lui, a mezzo metro dal cadavere del demone. Il sangue mi sporca gli stivali, si allarga sotto i miei piedi, rende la terra ancora più molle e viscida. «La sua forza ha raggiunto già il culmine, sta invecchiando e non vale la pena venderlo ai monaci del Tempio. Dobbiamo farlo a pezzi e gettarlo nelle profondità della terra, non deve ricongiungersi con l’aria. Laggiù c’è un vecchio pozzo, lo faremo lì. Ti insegnerò come. Un giorno dovrai farlo anche tu e senza il mio aiuto. Intesi?»

    Mio padre parla e io vorrei urlare: non voglio cacciare demoni, non voglio fare a pezzi corpi e seppellirli nei pozzi. Voglio guardare il cielo, correre in un prato senza il timore di essere raggiunta da qualcosa o qualcuno, mangiare tutti i giorni, sentire la pancia piena di cibo. Mia madre, voglio mia madre, le sue mani, le sue carezze, il sorriso e il suo libro, le storie che conteneva, che mi facevano sognare un mondo diverso.

    «Intesi?» ripete mio padre. Non mi fa più sconti, ormai. Devo crescere, niente piagnucolii, niente capricci: ho dieci anni e sono un’adulta.

    «Intesi» dico.

    Un fruscio ci fa voltare la testa. Lo vediamo entrambi, nello stesso momento. È un ragazzino che trema, stretto contro il tronco di un albero.

    «Ehi» dice mio padre, alzandosi in piedi. «Stai bene? Sei ferito?» Fa un passo verso lo sconosciuto, poi aggrotta la fronte, la sua espressione cambia e a me viene la pelle d’oca. Subito dopo ha di nuovo i bracciali di Acciaio di Nebbia in mano. «Era tuo padre, quello?» chiede, con la voce che è diventata una lama affilata. Quando il ragazzino annuisce, capisco che non è affatto un ragazzino: è un mostro. Il giovane Thulir si lascia catturare e, quando è ridotto in schiavitù, mio padre alza la testa e mi fa un cenno. Vado da lui, come sempre, senza oppormi.

    «Guardalo bene» mi dice, stringendomi il braccio sopra il gomito e costringendomi a chinarmi sul mostro.

    Il Thulir alza la testa di scatto, sangue e fango gli imbrattano la pelle, gli abiti e il viso delicato. I nostri sguardi s’incrociano, il suo è limpido, puro come gli occhi di un angelo: ha pupille a fessura e iridi verdi come smeraldi, come tutti i Thulir. È lo sguardo di una creatura che non intende morire, anche se la Morte è proprio lì, davanti ai suoi occhi. È bellissimo, talmente bello che la paura mi artiglia il cuore. Provo un terrore sordo e cerco di ritrarmi, ma mio padre mi stringe ancora più forte il braccio, fino a cacciarmi un gemito di dolore.

    L’Acciaio di Nebbia, il metallo di cui sono fatte le catene che si usano per catturare i demoni, stringe polsi e mani del Thulir e sfrigola come metallo incandescente sulla sua pelle. La puzza di carne bruciata mi riempie i polmoni e mi provoca un nuovo, violento conato di vomito.

    «Devi guardarlo, Isy» dice mio padre. «Guardalo e non dimenticare: la sua è una bellezza corrotta. Quando incontrerai creature con gli occhi così, dovrai ridurle all’obbedienza e se non ci riesci, dovrai ucciderle».

    Non piove più, la coltre di nubi preme su di noi rendendo l’aria soffocante. È ancora buio e l’unica fonte di luce sono le fiamme ardenti del fuoco, nel quale si è consumata la testa del Thulir, e gli occhi del giovane demone, che non ha smesso un istante di fissarmi. Mi fissa anche ora che siamo separati dal fuoco e dalla distanza. I suoi occhi superano le fiamme, cercano i miei, non so perché. Spaventata e colpevole, ecco come mi sento.

    Sposto lo sguardo, concentrandomi su una vecchia cortina di ferro, quasi del tutto cancellata dal sottobosco. Il filo spinato spunta fra la vegetazione come un ricordo non gradito. Agli uomini piaceva dividere la terra, un tempo, li faceva sentire forti e al sicuro. Il mondo era un luogo ordinato: file di pali, steccati, case, palazzi, tutti al loro posto, le strade avevano nomi, i cimiteri raccontavano storie. Ora niente è in ordine, i palazzi sono crollati, le luci si sono spente, i nomi sono stati dimenticati. I demoni sono usciti dal buio e hanno invaso la terra. Se la sono ripresa, in realtà.

    «Isy» dice di colpo mio padre. Il suo tono è secco e basso e contiene un dolore antico. «Il demone… è giovane, non vale ancora niente, ma puoi sfruttare la sua forza, usarlo per procurarti del cibo e difenderti dai nemici. Quando il suo potere sarà al culmine lo venderai ai monaci del Tempio».

    Non mi è mai piaciuto il verbo sfruttare, sa di peccato e di schiavitù e io odio le catene, le regole e le strade. Mi piace il vento, mi piacciono i boschi selvaggi e i cieli carichi di stelle. Ma non posso pensare a questo, ora. Non è questo che mi ha fatto rabbrividire. Puoi sfruttare, puoi difenderti, puoi vendere: tu, solo tu, tu sola. Non più noi.

    Vorrei chiedere, ma ho paura, così ascolto il silenzio e la foresta, il vento caldo che muore tra le foglie. Osservo le mani di mio padre riattizzare il fuoco. Mani grandi, spaccate, bruciate: sono brune e profumano di resina.

    Non dico nulla. Ho sonno e mi stendo.

    La notte umida mi bagna il viso e il corpo: non importa, domani sarà una giornata calda, domani il sole proverà a bruciarci vivi, domani mi sveglierò in un altro triste sogno.

    Dormo poco, forse solo qualche minuto, poi la voce di mio padre, ancora più bassa, ancora più secca, mi sveglia.

    «Sei stata coraggiosa, oggi, ad avvertirmi del veleno» dice.

    Apro gli occhi. Il fuoco è solo una bava di fumo grigio che si gonfia al mutare del vento, il teschio del Thulir, annerito dalle fiamme, mi fissa. Mi tiro su e mio padre mi passa una mano fra i capelli, sciogliendo i nodi. Non lo faceva da tempo, dal giorno prima che la mamma venisse uccisa: è un ricordo che soffocherei, se sapessi come fare. La finestra aperta, il tramonto placido, la foresta sussurrante, le prime stelle: e io e lui sul patio, mentre mamma canticchia in cucina.

    «Riuscirai a cavartela» dice ancora mio padre.

    Alzo la testa per guardarlo. È cereo e le labbra sono scure e screpolate: mi aggrappo al suo braccio, la pelle è umida di sudore e gelida. «Papà?» esclamo. Non risponde, gli occhi scrutano l’oscurità senza vedere più nulla. «Papà!» urlo.

    Mio padre scivola all’indietro: il cacciatore cade come una delle sue prede, seguo il movimento del suo corpo finché non tocca il terreno. Gli scuoto le spalle, gli prendo il viso tra le mani: un rivolo di sangue gli cola dal naso e dalla bocca e m’imbratta le dita. Rosso vivo, come il sangue dei demoni, così rosso e così caldo sulle mie mani bianche e fredde.

    «Papà!» continuo a singhiozzare. Piango finché la gola non brucia, finché le lacrime non seccano sulle guance, finché le braccia, intorpidite, smettono di rispondere ai miei comandi.

    Quando riapro gli occhi, la sua pelle ha iniziato a perdere calore. Mio padre era un cacciatore al colmo della forza, ha lottato e ha ucciso molte volte, ha ammazzato demoni, ne ha catturati altri. Fino a qualche ora fa, ha parlato usando verbi al futuro: non sapeva ancora che il suo futuro si accorciava come una candela. Poi, davanti al fuoco, deve aver capito.

    Le parole che usiamo svelano le nostre intenzioni: mio padre era passato dal noi al tu, aveva visto. Ha avuto paura, alla fine, mentre capiva di essere arrivato al termine del suo viaggio? Spero di no. Spero sia con la mamma. Spero non debba subire mai più il silenzio della foresta e le albe incolori, il freddo della notte e i tristi pasti muti, spero che dimentichi il mondo. Spero sia felice, almeno un po’. Spero anch’io di non aver paura, quando arriverà la fine.

    Il giovane Thulir è seduto oltre il fuoco ormai spento, oltre il teschio annerito, nella stessa posizione di prima. Gambe incrociate, polsi uniti. Mi guarda ancora. Non sembra esserci nulla nella sua espressione, ma posso immaginare la gioia: una vita per una vita, sembra dire il suo sguardo.

    E ora Cappuccetto Rosso è sola col Lupo Cattivo, nella foresta.

    L’ho seppellito sotto una quercia, accanto a una cabina energetica sepolta dalla vegetazione. Ho inciso il suo nome sul metallo, con la punta del pugnale che apparteneva a lui.

    Aned, il nome di mio padre.

    Il tempo lo cancellerà, ma io lo porterò inciso nella carne, per sempre.

    Prendo la mappa disegnata da lui e segno con una croce il posto dove riposa.

    Ci tornerò, un giorno, ma ora devo andare.

    Mai trascorrere due notti nello stesso posto, diceva papà. Mai tornare nella casa che hai abbandonato.

    Le braccia mi fanno male: non è stato semplice trascinare il suo corpo, sentirlo raffreddarsi, osservarlo mentre diventava cianotico e rigido, ora dopo ora, tutte quelle necessarie a scavargli la fossa. Alla fine non era più mio padre: era un corpo duro, ostile, un manichino mostruoso senza più voce. Mi mancherà lo spazio che occupava nel mondo, percepirò per sempre il vuoto accanto a me, è questo il peso che vorrei non dover portare.

    Per tutto il tempo che ci è voluto, e seppellirlo ha richiesto molto tempo, il Thulir ha continuato a fissarmi, senza emettere un solo sospiro. Quando mi avvicino a lui, i suoi occhi si spalancano, irradiando una luce di angoscia e dolore.

    «Mi chiamo Veil» dice, a voce bassa, come se esistesse una possibilità, per noi, di allearci nello stesso dolore. Tuo padre è morto stanotte, davanti ai tuoi occhi sembra dire come il mio. L’idea che possa credere una cosa del genere mi fa rivoltare lo stomaco. Non lo guardo in faccia, afferro le catene e lo costringo ad alzarsi.

    «Non mi interessa come ti chiami» rispondo. «Tu finirai in un Tempio».

    PARTE I

    GLI OCCHI DEL DEMONE

    1.

    Dieci anni dopo

    Piove, come quel giorno, e c’è lo stesso greve silenzio che sa di morte.

    La lama del pugnale si conficca nella corteccia con un colpo

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