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Il Principio della Scacchiera
Il Principio della Scacchiera
Il Principio della Scacchiera
E-book597 pagine8 ore

Il Principio della Scacchiera

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Info su questo ebook

Nelle terre dell’Erial la magia è racchiusa in quattro gemme, ciascuna di un diverso colore.

Chiunque le incontri nel proprio cammino si deve confrontare con il potere che possono regalare anche se questo può significare perdere la propria identità.

Un uomo privato della propria memoria intreccia la sua esistenza con questo mistico potere mentre le quattro gemme si muovono come pedoni su una scacchiera, spostando i destini dei loro proprietari verso lo scontro finale, il cui esito sarà deciso dalle posizioni che dovranno rispettare.
LinguaItaliano
Data di uscita25 gen 2019
ISBN9788827865774
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    Anteprima del libro

    Il Principio della Scacchiera - Stefano Corti

    Indice

    Sarah

    Aliza

    Eritus

    Acqua

    Visite inattese

    Alazir

    Oltranza

    Velocità

    Viaggio

    Tosse

    Pot-Loi

    Funerale

    Guarigione

    Frecce

    Omicidio

    Partenza

    Fuga

    Incontri

    Cambiamenti

    Operazione

    Casa

    Riunione

    Scacchiera

    Città

    Corsa

    Rovine

    Strategia

    Re

    Il Cuore della Foresta

    Nik

    Vortici

    La pietra verde

    Sangue

    Lenzuola e pugnali

    Risveglio

    Risoluzioni

    Saluti e incontri

    Risvegli: uno

    Risvegli: due

    Risvegli: tre

    Potere

    La luce dell’Erial

    Viaggio

    Carri

    La città doppia

    Vulcano

    La Notte del Mondo

    Partenza

    Saluto

    Grano

    Kosmera

    Attesa

    Migrazione

    Il Sangue della Terra

    Bosco

    Ritorno: uno

    Ritorno: due

    Ricordi

    Ponte

    Amyrr

    Klee

    Allarme

    Decisioni

    Passaggi

    Destino

    Assedio

    Fiamme

    Separazioni

    Gran Sacerdote

    Amicizia

    Sacrifici

    La Luce e la Foresta

    Missione

    Scheletri

    Il re dell’Erial

    Amuleto

    La Notte e il Sangue

    Tredalonigor

    Ratti

    Riflessioni

    Fuga

    Il re bianco

    Riunioni

    Il bianco e il verde

    Ricerca

    Allineamento

    Partenza

    Artigli

    Cavalcata

    Scontro

    Tredalonigor

    Sogni

    Erela

    Il palazzo reale

    Talismano

    Il verde e il nero

    Il principio della scacchiera

    Macerie

    Evan

    Eritus

    Casa

    Stefano Corti

    Il Principio della Scacchiera

    Youcanprint Self-Publishing

    © 2015 by Stefano Corti

    Impaginazione: Silvia Corti

    Copertina: Daniele Serra

    ISBN | 9788827865774

    Prima edizione digitale: 2019

    © Tutti i diritti riservati all’Autore

    Youcanprint Self-Publishing

    Via Marco Biagi 6, 73100 Lecce

    www.youcanprint.it

    info@youcanprint.it

    Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore.

    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.

    At first it seemed a little speck,

    And then it seemed a mist;

    It moved and moved, and took at last

    A certain shape, I wist.

    S. T. Coleridge - The Rime of the Ancient Mariner

    Sarah

    Il vento aumenta. Un vento teso, che cresce passo dopo passo. Da ore è il loro compagno di viaggio, ostile e determinato, che svolge la sua opera con precisione meticolosa.

    Il vento infatti solleva polvere e pietre, piccole ma letali, pronte a cogliere anche il più fugace spiraglio tra le vesti per offendere, mordere e graffiare.

    La polvere invece si insinua negli anfratti del corpo, fuori e dentro, negli occhi e nei polmoni.

    Il vento, a chi avesse la ventura di trovarsi in quei luoghi, apparirebbe malvagio senza alcun errore. Chi si trovasse immerso in quell’elemento, solo all’apparenza privo di ordine, potrebbe percepirne dei pensieri, o più correttamente dei sentimenti, misti di odio e di rancore.

    Quattro figure chine avanzano in quel turbine di pensieri e di polvere, di pietre e di sangue: il loro.

    Sono quattro figure che sfidano quell’elemento leggero e mortale, che tuttavia avanzano perché consapevoli dell’impossibilità del ritorno.

    Una fune unisce le loro vite e i loro destini, ciascuno tenta di proteggersi con un manto dalla straziante erosione.

    A tratti il vento cala improvvisamente, ma è un gioco beffardo perché quel vento, con strategia, riduce il suo impeto con lo scopo di riaccendere un soffio di speranza, per annientarla subito dopo riprendendo il suo precedente vigore.

    Il dolore è intenso, nessuno parla, tutti riversano ogni grammo di energia per portarsi avanti.

    Non c’è il sole in quella terra, la polvere nasconde l’orizzonte alla vista. L’elemento che li circonda parrebbe nebbia, se non fosse così tagliente e violento.

    Poi cadono, il capofila sprofonda in quel nulla che è la polvere intorno. La fune che li lega fa il resto, accumunandoli alla stessa precipitosa caduta verso il basso.

    -Tutto bene?- chiede il capofila, stupendosi di sentire la propria voce. Si guarda intorno, il vento è meno forte, sono caduti in una fossa, un anfratto abbastanza profondo da proteggerli.

    Scosta il manto dal viso, per verificare se il respiro ora sia più facile e infine scopre per intero il suo volto, tempestato di polvere mista a sangue. Scopre i capelli, lunghi e scuri.

    -Sarah?-

    Si sente chiamare alle spalle. Si volta. I suoi compagni sono rimasti a terra dopo la caduta. Anche lei è rimasta a terra, in bilico tra cedere alla disperazione o godere di quell’inaspettato riposo del vento.

    -Sarah-, riprende la voce alle sue spalle, -dove siamo?-

    Sarah respira profondamente, dopo che per ore la polvere glielo ha impedito e sente il suo organismo festeggiare.

    Prende ancora fiato, prima di rispondere, poi scandisce poche parole, scuotendo la testa.

    -Non lo so.-

    E si lascia cadere a terra. Ha scelto la disperazione.

    Aliza

    Una ragazza esile, vestita di scuro esce nella notte da un vicolo e procede a passo incerto sulla strada principale, illuminata da torce.

    Soffoca un singhiozzo, poi procede più spedita. Raggiunto un portone, lo apre e lo varca. Giardino, pergolato, un’altra porta. L’ingresso a un salone.

    Si guarda intorno, nella stanza illuminata. Vede subito la figura austera, immobile vicino alla grande finestra nel lato opposto.

    Si ferma, riflette. Pesa le parole una per una, prima di iniziare il suo discorso. Poi attacca:

    -Padre...-

    -Silenzio!-

    Smette immediatamente di parlare, ma non chiude la bocca, segno che non desisterà facilmente. Col busto proteso in avanti tenta un passo in avanti, ma un cenno imperioso della mano la ferma.

    L’uomo è vestito di nero, la giacca di velluto sottilmente orlata in fili d’oro. La testa calva, la mascella dura e spigolosa, lievemente sollevata in una smorfia di disgusto. La mano destra è posata sull’elsa di una spada molto corta. Al riverbero delle torce l’elsa brilla di una sinistra luce nera.

    -Pensavo di potermi fidare di te-, esordisce l’uomo.

    Lei lo guarda, sorpresa. Di che parla?

    -Questa notte hai ucciso un uomo-, prosegue.

    -Io avrei cosa?- domanda la ragazza, sinceramente stupita.

    -Non ti ho detto di parlare. La tua condotta irresponsabile ha causato la morte di un uomo.-

    -È stato Gison! E lo avete mandato voi!- il volume della sua voce è alto, ma trema appena, qualcosa non sta andando nel verso giusto. Confusa, distoglie lo sguardo da quella mandibola e fissa il pavimento, per raccogliere le idee. Perché sta accusando lei? Con voce più leggera la ragazza cerca di spiegare: -Padre, è stato Gison, non io. Ha ucciso lui Albert, perché mi state accusando...-

    -Basta!!-

    Lui ora ha urlato. Nella sua voce quel tono è un brivido sul corpo della ragazza, che d’istinto fa un passo indietro.

    -Gison!- dice l’uomo rivolgendosi verso una porta chiusa. -Entra!-

    -Gison qui? Ma come...-

    -Ho detto SILENZIO!!!-

    Gison apre la porta ed entra silenzioso nel salone. Il suo movimento è sicuro e veloce, quasi felino.

    -Mi hai deluso, Aliza-, prosegue la mascella, -Ti avevo proibito di vedere ancora quell’uomo. E questa volta credevo mi avresti obbedito-, dice ostentando un tono di delusione.

    -E invece hai deciso di agire diversamente da come ti avevo ordinato. Lo hai voluto incontrare stanotte nonostante il mio divieto e così hai firmato la sua condanna. Ritieniti responsabile della sua morte.-

    Aliza gli rivolge lo sguardo, non più sorpreso ma carico di odio.

    -Ma la cosa più grave è che hai ignorato i miei ordini. Ho avuto pazienza finora, ma finalmente capisco che non è il modo giusto per trattare con te. Gison, portala nelle cantine.-

    Senza alcuna esitazione, Gison afferra il polso della ragazza.

    Aliza strattona istintivamente per liberarsi, ma la presa dell’uomo è salda e il suo sguardo privo di emozioni: il sicario esegue il suo ordine senza mostrare alcun sentimento.

    L’uomo calvo si volta, sdegnato. Guarda fuori, nel giardino, illuminato dalle torce.

    Sospinta da Gison, la ragazza ha un sussulto nel raggiungere la porta delle cantine. Chiama il padre ad alta voce.

    L’uomo non si volta. Seguita a osservare la notte nel giardino.

    Figlia mia, pensa, ho capito di avere sbagliato. La nostra è una vita spietata e non possiamo permetterci sentimenti deboli. Agirò diversamente. Da oggi.

    Così come aveva agito suo padre, che un giorno lo aveva fatto bastonare dai servi fin quasi a ucciderlo.

    E come sempre a quel ricordo sale il disprezzo per se stesso. I servi erano intorno a lui, con pesanti bastoni, il padre poco distante. Si preoccupava che il suo ordine fosse compreso ed eseguito correttamente.

    Lo aveva supplicato, ma i servi lo avevano percosso comunque. Lo aveva pregato, ma la forza dei colpi non si era ridotta. Si era inginocchiato e aveva pianto, i servi avevano aumentato il vigore. A metà del trattamento aveva smesso di urlare e di agitarsi. Non avrebbe più implorato.

    Aveva aspettato la fine di quella violenza.

    Aveva aspettato di guarire dalle ferite e dalle fratture.

    Due mesi dopo aveva pugnalato il padre, un solo colpo tra le scapole: lo stesso pugnale del padre, dall’elsa nera. Lo aveva estratto dal suo corpo solo quando ogni movimento era cessato.

    Le urla della ragazza interrompono i suoi pensieri.

    La sua famiglia, una linea spietata di sangue.

    Eritus

    Come ogni mattina Eritus si desta poco prima del sorgere del sole, indossa abiti puliti ed eleganti e si reca nella sala da pranzo con passo deciso.

    Sente pesanti rumori provenienti dalla cucina e vi si affaccia, con volto amabile e sorridente. La cuoca, molto meno felice nello sguardo, gli mostra un lungo coltello da cucina, muovendolo un gesto ostile dal basso verso l’alto. L’espressione è feroce come lo sono i suoi gesti: si volta dandogli le spalle senza dire una parola. Con un solo colpo di coltello divide in due qualcosa, su cui Eritus preferisce non indagare per non esacerbare l’animo della donna.

    Nonostante i modi della cuoca Eritus capisce che la colazione sarà servita in perfetto orario e si compiace di questo. Si muove quindi rapidamente per controllare l’apparecchiatura, valutare la disposizione delle stoviglie e della porcellana.

    Soddisfatto, lascia la stanza. Sa che di lì a poco il duca farà la sua comparsa per la colazione e non vuole farsi notare. La presenza di Eritus, che interpreta l’attività del maggiordomo come una missione, deve essere costante e costantemente invisibile.

    La stalla è la sua seconda tappa.

    Si presenta sulla soglia, per incrociare lo sguardo dello stalliere, che lo vede e pigramente alza la mano come dire tutto a posto. E per Eritus è importante che tutto sia a posto nelle stalle e nella villa, perché oggi il duca deve andare a cavallo, a Città dell’Erial, al cospetto del re sulla cui salute si discute animatamente.

    -Eritus!- è la voce del duca che chiama. Eritus compare nella sala da pranzo in un batter di ciglia.

    -Accidenti Eritus! Vivi dietro le porte? Come fai a comparire così velocemente?-

    L’accusa di origliare non è nuova, la incassa senza battere ciglio.

    Dal momento che Eritus non sembra voler rispondere alla battuta, il duca riprende: -Eritus, oggi niente cavallo, puoi far preparare la carrozza? Parto con mia moglie e i miei figli.-

    Eritus fa un cenno di assenso con la testa: -Per quanti giorni devo organizzare i vostri bagagli?

    Il duca riflette un istante: -Una settimana. Il re si è aggravato e ci è stato chiesto di rimanere nella capitale per ogni evenienza.-

    -Capisco-, dice Eritus con tono grave e lascia la cucina per dare le nuove diposizioni.

    Quando il duca e la sua famiglia lasciano la casa Eritus assume il controllo della villa e incessantemente passa da un ambiente all’altro per seguire le azioni del personale rimasto, affinché tutto proceda ordinatamente come sempre.

    Verso sera fa rientro nella sua stanza, si chiude dentro e chiude le tende. Alla debole luce della lanterna, si corica sul letto ed estrae dal petto un ciondolo di metallo, un medaglione in argento interamente ricoperto di simboli.

    Lo rigira tra le dita, osserva con cura ogni segno, alla ricerca di un dettaglio che possa suscitare ricordi alla sua memoria vuota.

    Il medaglione, assieme a pochi abiti laceri era tutto quello che possedeva quando quattro anni prima il duca lo aveva trovato, riverso sulla strada, a breve distanza dal confine col Raashbey.

    Non era ferito, ma completamente disidratato. E nella sua memoria, nessun ricordo.

    Da allora, ogni sera, ripete questo rito nella speranza di ritrovare se stesso.

    Come ogni sera, i ricordi non arrivano, il significato dei simboli rimane oscuro. Eritus ripone il ciondolo sotto le vesti, assicurato al collo con una catenella.

    Spegne la candela e si assopisce, alla fine della sua giornata priva di ricordi.

    -Anikh neveh os Reconor.- pronuncia una voce nella sua testa, destandolo. Apre gli occhi nel buio, allarmato. Respira lentamente, rimanendo in ascolto. Per lunghi istanti non muove un muscolo, nella sua ricerca della fonte di quelle parole nate all’improvviso.

    Ma dalla oscurità che lo circonda non proviene altro suono e col tempo che passa si convince di avere sognato e forse anche di aver parlato nel sonno.

    Acqua

    Quattro corpi esausti riposano in una grande fossa circolare dopo la lunga battaglia. Incapaci di muoversi, hanno concluso con l’abbandonarsi al sonno, accolti dall’insperato rifugio nel terreno.

    Poco sopra infuria ancora il vento. Nei loro sogni prende la forma di una belva inferocita che con rabbia e violenza raspa nella terra, cercando di individuare la sua preda. Furibondo per l’incapacità di riuscirci, si accanisce contro qualsiasi ostacolo, sia esso roccia o arbusto.

    Uno dei quattro emerge da quel sonno privo di riposo. Senza neppure aprire gli occhi, prende d’istinto l’otre dalla cintura e lo porta con affanno alle labbra, bevendo avidamente il suo contenuto.

    Contenuto che termina troppo presto, molto prima di estinguere la sua sete.

    L’uomo si muove rapidamente, tastando gli altri per risvegliarli.

    -Abbiamo finito l’acqua!- è l’allarme che l’uomo lancia ai compagni. All’udire quelle parole compiono d’istinto lo stesso gesto di bere, ciascuno dal proprio otre, per verificare la ferale notizia.

    -Ma come!- esclama uno di loro.

    -Non è possibile!- rincara l’unica donna del gruppo.

    Il quarto uomo non dice nulla.

    -Il vento, è colpa del vento!- riprende il primo.

    -Hai ragione!- risponde la ragazza, -È un vento forte e asciutto. Abbiamo bevuto troppo, lungo il cammino...- si interrompe per fissare il cielo, ancora oscurato dalla tempesta, poi prosegue, -Se il vento non cala non possiamo spostarci. Senza acqua non resisteremo...-

    La sua voce si perde tra i sibili.

    Il quarto uomo non prende parte alla discussione.

    La ragazza esausta, guarda a terra. Poi solleva gli occhi verso gli altri e si spaventa, perché tutti guardano lei per ricevere speranza.

    E con sorpresa, quegli sguardi la scuotono dal suo stato, le infondono una nuova energia che le permette di inarcare le spalle con un profondo respiro, di riguardare a uno a uno i suoi compagni e infine dire: -Devo fare qualcosa!-

    La ragazza, che adesso sente di essere nuovamente Sarah, appoggia la mano sulla parete di roccia che li protegge dal vento e mormora alcune parole: -Sol Supremo, ascolta la voce di tua figlia: sostieni i nostri sforzi, guida il nostro cammino. Ti imploriamo clemenza, per la nostra condotta, invochiamo il tuo perdono e il tuo sostegno! Manda tra noi la tua acqua, che possa far rinascere in noi la vita.-

    Al termine di queste parole allontana la mano e la roccia scoperta mostra un colore nuovo, più scuro, che seguita a scurirsi fino a trasudare gocce d’acqua, che subito si riuniscono a formare una minuscola sorgente. Il flusso diventa uno zampillo e solo a quel punto Sarah si rivolge ai suoi compagni: -Presto, riempite i vostri otri. L’acqua sparirà presto.-

    Animati da nuova speranza, i due uomini più vicini porgono i loro otri verso l’acqua, in modo che essa possa riempirli.

    Solo il quarto non si muove, neppure volge lo sguardo a seguire gli avvenimenti.

    Sarah nota il suo comportamento e lo richiama: -Evan, ti prego, fai come noi. Riempi l’otre.-

    Evan rimane con lo sguardo sul cielo, scrollando le spalle.

    Passano lunghi istanti, in cui tutto sembra fermarsi in attesa della sua risposta.

    -Proseguite senza di me-, dice e si tira il mantello sopra la testa.

    Sarah si alza in piedi e raggiunge Evan. Lo afferra per il bavero della giacca, quasi sollevandolo di peso.

    -Evan, ti devo staccare la testa dal collo? Il vento ti ha forse oscurato la mente?-

    Evan, preso alla sprovvista, fa per replicare, poi rinuncia. La ragazza prosegue: -Abbiamo preso una decisione, tutti insieme. Quella di venire con te.-

    -Sarah, io...- replica lui, con voce quasi di supplica. Non conclude la frase perché lei lo lascia improvvisamente cadere a terra, per proseguire sferzante:

    -Togliti quel tono da pianto. Sei sicuro di essere mio fratello? Vedi di ritornare te stesso, perché sappi che senza di te non sopravviveremo.-

    Lui non risponde, la guarda negli occhi. Poi guarda verso Abian e Shon: anche loro hanno scelto di seguire il suo destino. Hanno abbandonato la loro casa per rimanere con lui.

    Così che capisce che anche per loro deve trovare la forza di rialzarsi.

    Preso un grande respiro, punta i piedi a terra e lentamente solleva la schiena ergendosi in tutta la sua altezza. Guarda ancora una volta i compagni e dice: -D’accordo, continuiamo.-

    Visite inattese

    Eritus vaga per la villa per verificare che tutti gli seguano le consuete attività anche in assenza del duca.

    Compare spesso all’improvviso, in silenzio, alle spalle dei lavoratori della villa. Verifica con incessante zelo se concludono i lavori loro assegnati. Quando coglie qualcuno oziare, lo rimprovera con decisione.

    A metà giornata Eritus pranza in una piccola stanza assieme a Eli e Annah, la governante della casa principale.

    I loro posti sono sempre gli stessi: ai due capi del tavolo Eritus e Annah, mentre Eli siede nel lato più lungo, quello vicino alla porta della cucina.

    Eli prepara i pasti per tutti gli uomini della villa, aiutata da altre due donne.

    Eritus guarda Annah mentre mangia, affascinato dai movimenti lenti e delicati con cui adopera le posate.

    La ragazza sente su di lei il suo sguardo e questo è sufficiente per farla arrossire. Per timore che l’uomo possa vedere la sua reazione, china in avanti la testa e la mantiene bassa sopra il suo piatto.

    Eritus la guarda ancora a lungo, prima di concentrarsi nuovamente sul suo cibo. Cerca il sale, non lo trova. Si volta verso Eli, per chiederle di portarlo a tavola.

    Eli si solleva con un ringhio e si allontana in cucina.

    Quanto sono diverse, pensa Eritus tra sé e sé: Annah leggera e chiara, col rossore facile.

    Eli, muscolosa e determinata.

    -Non fate niente mentre sono in cucina-, scherza Eli, con il risultato di far diventare paonazza Annah.

    Al termine del pranzo, dopo aver riassettato, le due ragazze si allontanano per riprendere le loro attività.

    Eritus rimane ancora seduto al tavolo, per lasciarsi andare a sogni a occhi aperti: immagina di passeggiare lungo la riva di un fiume con Annah che cammina al suo fianco, presi per mano.

    Annah sorride con la testa lievemente chinata, lo sguardo rivolto a terra.

    Eritus scuote la testa con violenza, a voler scagliare lontano quel pensiero. Con tristezza, allontana l’immagine del fiume, della riva, delle mani intrecciate. Nel suo sogno a occhi aperti guarda Annah con drammatica intensità, rimasta ancora nei suoi pensieri perché non osa cacciarla. Lei lo guarda con tenerezza, allunga le braccia verso di lui.

    Eritus scatta in piedi, per allontanarsi da quella immagine: -Non posso!- dice al suo sogno, mentre davanti a lui ricompare il tavolo, le sedie, la piccola sala.

    Poi la vera Annah lo chiama, dalle camere di sopra. Il tono della ragazza, più che le parole lo spingono a raggiungerla in un soffio di secondi.

    -Cosa succede?- le chiede, osservando un alone di preoccupazione sul suo viso. Annah non risponde, si limita a indicare con la mano un punto oltre la finestra.

    Eritus si sporge e vede diversi uomini a cavallo, una decina, fermi nello spiazzo di fronte alla villa.

    Un’altra manciata di secondi ed Eritus è sulla soglia, davanti ai nuovi arrivati. Alcuni smontano da cavallo.

    -È la villa del duca di Grinover?- parla uno di loro.

    Velocemente Eritus osserva il gruppo: hanno le armature dell’Erial, i colori sono quelli giusti, le insegne corrispondono.

    Ne segue i movimenti, tre sono rimasti a cavallo, gli altri, sette, si allontanano con circospezione. Osservano la casa, si guardano intorno studiando dettagli della casa e degli edifici circostanti.

    -Si-, risponde dopo la rapida ricognizione visiva, -Parlate con Eritus, il soprastante. Il duca non è in casa.-

    L’uomo a cavallo si guarda intorno, a verificare i movimenti dei suoi uomini. Poi guarda Eritus:

    -La villa è sotto sequestro per volere del Re, ho l’ordine di prenderne possesso in attesa di un supervisore. Radunate subito qui tutto il personale, da questo momento passate al nostro diretto servizio.

    Alazir

    Un rumore di passi interrompe il silenzio della sala.

    Passi lontani, ritmici, lenti e continui. Passi che si avvicinano.

    Alazir guarda la porta chiusa.

    Solleva la testa, in attesa, pur rimanendo ripiegato su se stesso, sopra l’ultimo gradino prima del trono.

    È solo, nel grande salone di marmo, ruota la testa osservandosi intorno, per trovare un’ulteriore conferma della sua solitudine.

    I passi, sempre più vicini, con ritmo inalterato, raggiungono la porta.

    Poi il silenzio improvviso. Alazir interrompe il respiro e concentra lo sguardo sulla soglia.

    La porta si apre, compare un funzionario, che subito parla con posa impettita: -Il Re dell’Erial è morto!- in realtà non parla, grida.

    Il funzionario richiude la porta e si allontana, facendo rimbombare ancora i suoi passi ritmici nell’atrio del palazzo.

    Alazir si solleva, maestoso, riprende fiato. Scende due gradini, poi si ferma e risale a guardare il trono, ora il suo. Lo accarezza con entrambe le mani senza cedere alla pur forte tentazione di sedervisi. Non ora, dice a se stesso dirigendosi al balcone.

    Fuori, la Città dell’Erial. Sotto, alcuni piani più in basso, una folla occupa la piazza che si apre di fronte al palazzo del Re.

    Alazir ritrova il sorriso, col pensiero di immaginare la reazione di quella folla alla notizia che a breve sarà ampiamente diffusa.

    Poi volge lo sguardo più avanti, supera le case che circondano il palazzo, oltrepassando con gli occhi quelle più distanti, più basse e più piccole. La città non ha mura, demolite molti anni addietro. Vista dall’alto appare come un cerchio, solcato da cinque strade principali che la dividono in altrettanti settori.

    Dove le abitazioni lasciano il posto alla campagna, queste cinque strade proseguono, allontanandosi verso altre destinazioni.

    Erial, la città Aperta, così la chiamava il padre. Il Re. Che aveva voluto eliminare le mura, per aprire la città all’esterno.

    Le sue cinque strade, gli raccontava nei suoi giorni d’infanzia erano come le cinque dita di una mano aperta che voleva simbolicamente rappresentare una offerta di aiuto, di protezione.

    E la città era stata esattamente questo per oltre venti anni.

    Una definizione che Alazir ha sempre odiato, da quando ritiene di avere memoria. E ora che guarda quella città, privata del suo re che così tanto l’ha trasformata, si abbandona all’impulso di mostrarle il suo pugno chiuso, in un gesto di sfida.

    -È tempo di cambiare le cose-, dice a voce alta verso l’orizzonte.

    -Presto le genti sapranno che Erial non è più un rifugio. Finalmente!-

    Nessuno ascolta le sue parole, nella sala vuota del trono di marmo.

    Apre il pugno e distende le dita, guarda ancora una volta la città dall’alto e poi con violenza le richiude.

    -È tempo di stringere a pugno la città!-

    E detto questo lascia la sala del trono, per raggiungere la famiglia immersa nel recente lutto.

    Oltranza

    Continuare sì, ma dove? Si chiedono i quattro ragazzi, che riprendono il cammino. Solo Sarah sembra conoscere la direzione giusta, quantomeno così afferma e così credono i suoi compagni di viaggio. Nel turbinio del vento non c’è sole, neppure un orizzonte. Le fosse nel terreno, tutte di diverso diametro e rigidamente circolari, si presentano sempre più frequenti.

    Quando le fosse sono sufficientemente profonde e ampie, i quattro si concedono una pausa al loro cammino. L’acqua dei loro otri si esaurisce rapidamente, sicché Sarah è costretta a ripetere più volte l’invocazione al dio Sol.

    -Secondo te abbiamo fatto molta strada?- chiede Shon guardando Sarah. La ragazza non risponde, assorta a osservare alcune pietre che manipola, ripetutamente raccogliendole e gettandole a terra. Il loro nuovo rifugio è una fossa ampia e molto profonda. Hanno deciso di concedersi un lungo riposo, mentre sopra loro il vento non è ancora stanco; Abian e Evan dormono vicini. Poco discosti Sarah e Shon aspettano il loro turno.

    -Cosa fai?- aggiunge Shon, ancora in attesa della risposta alla prima domanda.

    -È un metodo antico per conoscere la direzione giusta.- Risponde lei senza togliere lo sguardo dalle pietre, -non è semplice. Ho iniziato da poco a studiare questa pratica e non sono molto capace. Ma nella nostra situazione credo che questo sia l’unico metodo possibile per capire in che direzione muoverci.-

    -Stai usando poche pietre... è così complesso capire cosa dicono?-

    Sarah solleva lo sguardo verso Shon, con il sorriso appena accennato: -Non è importante solamente come si dispongono quando sono ferme. Devo anche valutare i loro spostamenti. Non risponderanno mai a una domanda del tipo dov’è la città di Pot-Loi?, perché non indicano la strada, la suggeriscono.-

    -Non credo di capire.-

    -Quando lancio le pietre, penso a varie domande del tipo qual è la direzione migliore? e poi lancio le pietre. Loro rispondono, ma non è detto che la risposta sia quella giusta.-

    -Continuo a non capirti, mi puoi spiegare meglio?-

    -Una domanda come qual è la scelta migliore non implica che lo sia per chi fa la domanda, in senso assoluto. Una strada potrebbe essere la migliore per te ma non per me. Il modo corretto di utilizzare questa tecnica non è quello di formulare una domanda perfetta, bensì quello di formulare molte domande e valutare le risposte per trovarne un senso comune.-

    -E hai capito qualcosa finora?- chiede Shon

    -Poco, devo essere sincera-

    -Sai almeno dove dobbiamo andare?-

    Una pausa, un sospiro, poi Sarah risponde: -Avanti. Dobbiamo andare avanti.-

    Shon guarda verso l’esterno della fossa, dove imperversa il vento. Rabbrividisce al pensiero di rituffarsi in quel mare in tempesta.

    -Ma non subito-, prosegue Sarah, -Prima dobbiamo riposare. Piuttosto, sveglia gli altri, è il nostro turno di sonno.-

    Velocità

    La visione della sala da pranzo occupata da un manipolo di soldati, malvestiti e maleodoranti ferisce profondamente l’animo di Eritus.

    Da quando si sono insediati hanno controllato ovunque e predato quanto possibile, ovvero tutto quello che potesse essere trasportato. Hanno inoltre preteso di essere serviti dal personale presente: tutti ora sono obbligati a rimanere nella villa, senza alcuna motivazione.

    Mentre guarda il quadretto dei soldati seduti attorno alla tavola, a Eritus vengono in mente le immagini della famiglia del duca, seduti nei medesimi posti, ma con quale differente portamento e dignità!

    Le risate sguaiate, fuori misura, le parole urlate dall’alcool, l’acre odore della sala, producono in Eritus un sotterraneo moto di rabbia.

    Mentre è lì, fermo, indeciso tra lasciare la sala al suo destino o vederla sgretolare pezzo a pezzo sotto la cieca azione dei soldati ubriachi entra Annah con un vassoio, diretta verso il tavolo.

    Eritus nota il suo procedere incerto, indecisa su come meglio avvicinarsi per depositare velocemente il vassoio e altrettanto velocemente defilarsi.

    Quando si avvicina al tavolo, propone in avanti il vassoio, sperando che qualcuno dei soldati lo prenda, invece le fanno gesto di portarlo dalla parte opposta, a servire per primo il comandante. Annah ha un istante di esitazione, perché per soddisfare quella richiesta deve attraversare uno stretto canale tra la parete e le sedie occupate dai soldati.

    Eritus la segue con lo sguardo, immaginando di capire la preoccupazione della ragazza, mentre si avventura in quell’angusto spazio.

    Un istante dopo Annah quasi scompare al suo sguardo, cadendo a terra assieme al vassoio che si infrange nel pavimento tra le risate dei soldati.

    Grida e fa per alzarsi, ma un soldato la blocca sul pavimento. Un altro si alza e si avvicina a lei, che si divincola urlando, cercando di liberarsi.

    Eritus istintivamente scatta in avanti, ma un soldato gli si para davanti.

    -Cosa fai, amico? Resta dove sei!-

    Il soldato ha messo mano a una daga, sfoggiandola davanti al viso di Eritus; ha bevuto parecchio, come anche gli altri. Per alcuni istanti i due si fronteggiano, poi Annah lancia un nuovo grido e a quel suono Eritus scatta.

    Senza alcuna razionale scelta, afferra la mano che brandisce la daga e con un secondo, fulmineo gesto, la ruota fino a un angolo innaturale. Un sordo rumore accompagna la frattura di alcune ossa.

    Il soldato, colpito prima dallo stupore che dal dolore, ha solo il tempo di dirigere lo sguardo verso la sua mano. Un istante dopo è trafitto dalla sua stessa daga.

    Eritus vede alcuni soldati muoversi verso di lui, altri rimanere immobili, il comandante scagliare lontano il bicchiere da cui stava bevendo, ma avverte qualcosa di anomalo in tutti i loro movimenti, perché gli appaiono eccessivamente lenti.

    Due soldati estraggono le loro spade in un tempo che a Eritus appare estremamente lungo, si avvicinano a lui e al soldato che sta ancora, lentamente, cadendo al suolo, seguendo una traiettoria che sembra interminabile.

    Eritus estrae senza fretta la daga dal corpo dell’uomo che ancora cade e senza alcuna esitazione colpisce a fondo entrambi i soldati, troppo lenti per schivare la sua mossa.

    Nessuna domanda si affaccia alla mente di Eritus, nessuno stupore lo interrompe, mentre con la mano libera afferra la spada del soldato morente più vicino. Si avvicina al tavolo, il comandante è ancora impegnato nel gesto di scagliare lontano il bicchiere, che appare sospeso nell’aria, il vino ancora quasi del tutto contenuto al suo interno.

    E il bicchiere è ancora in volo quando Eritus gli tronca la testa di netto con la spada appena conquistata.

    Quando il bicchiere si infrange raggiungendo infine il suolo, dieci soldati giacciono a terra.

    Eritus guarda le sue mani, con le spade ancora saldamente in pugno, il suo respiro normale. Per un breve istante crede di aver già visto la scena che ha appena vissuto, ma è solo un attimo.

    Poi si guarda intorno, la sala è ricoperta da macchie di sangue, lui stesso sporco dello stesso colore. Annah si rialza, lo fissa con lo sguardo impaurito.

    Eritus la guarda, depone con delicatezza le spade sul tavolo.

    -Annah, credo che dovremo lavorare a lungo per ripulire questa sala.-

    Viaggio

    Aliza sospinge il suo cavallo con ferocia. Non gli concede un attimo di tregua, vuole assaporare l’aria sul viso, nonostante gli agguati delle fronde degli alberi che costeggiano il sentiero.

    Al suo fianco, la sacca che il padre le ha affidato, da consegnare nella città di Pot-Loi.

    Al pensiero della sacca, Aliza sprona maggiormente il cavallo, per allontanarsi dalla città e da suo padre. Per un istante, molto breve, immagina di riuscire ad allontanarsi anche da Gison, che per volere del padre la accompagna in questa missione.

    Il cammino non è agevole perché la foresta che circonda Amyrr, la sua città, è attraversata più da sentieri che da vere strade, sentieri che la natura reclama pretendendone restituzione. Alberi e arbusti che si parano davanti al suo cavallo ne rappresentano i fieri tentativi di riconquista.

    Corre, Aliza, ma quando raggiunge la fine della foresta, la giornata volge al termine. Gli alberi terminano quasi all’improvviso, per fare spazio a una vasta pianura che si mostra completamente spoglia fino a dove lo sguardo può arrivare. Il cielo è più roseo a destra per effetto del tramonto, mentre a sinistra è già più scuro, ma Aliza riesce ancora a scorgere il profilo delle montagne del Pot-Loi. L’idea di passare la notte all’aperto, in quella piana scoperta, non le sembra allettante, per cui decide di attendere l’imbrunire al riparo tra gli alberi.

    Trova un piccolo tratto erboso, ben protetto dalla bassa vegetazione e da alcuni alberi; lega il cavallo a uno di questi. Con la sella e una coperta si prepara per dormire.

    Gison si avvicina, lega il cavallo vicino al suo. Prende anche lui la sella e si corica poco distante. Nessuno dice una parola.

    Il giorno dopo attraversano la pianura che li separa dalle montagne, Aliza preferisce una andatura più lenta. Gison tenta due volte di avvicinarsi, ma con un breve scatto la donna si allontana, per poi riprendere la stessa lenta andatura.

    Si concedono una sosta per un veloce pranzo; è Aliza a rompere il silenzio, con tono neutro:

    -Conosci la persona che dobbiamo incontrare?-

    Gison guarda Aliza, sulle prime stupito di sentire la sua voce, poi indeciso su cosa dire, risponde:

    -Poco. So che lavora per tuo padre nella città di Pot-Loi.-

    -Che tipo di lavoro?-

    -Se non te ne ha parlato tuo padre, non credo di poterlo fare io.-

    -Cosa gli dobbiamo portare?-

    Gison esita un istante, poi:

    -Documenti. Ma non so cosa siano.-

    -E non sei curioso?-

    -Tuo padre ti ha detto che potevi leggerli?-

    -No.-

    -Neppure a me. Quindi non li devo conoscere.-

    -...-

    -E neppure tu.-

    -Eh sì, il buon Gison, il servo fedele-, schernisce Aliza, -Cosa ti ha detto mio padre? Di tenermi d’occhio? Aveva paura che scappassi? Per questo ha mandato il suo cagnolino?-

    -Tuo padre mi ha detto che sai usare un’arma.-

    -Cambi discorso?-

    -No. È vero?-

    -Cosa!-

    -Che sai usare un’arma.-

    -E se fosse?-

    -In città potresti doverla usare. Per difenderti.-

    -A Pot-Loi aggrediscono le ragazze per strada? Bel posto davvero!-

    Gison la guarda, con sguardo paziente:

    -Abbiamo dei nemici.-

    -Interessante: che tipo di nemici?-

    -Del tipo che uccide.-

    -Quindi sei qui per proteggermi? O per proteggere la borsa?-

    -Entrambe.-

    -E se dovessi scegliere?-

    -La borsa.-

    -Cosa?-

    -Salverei la borsa.-

    -Lo immaginavo. Non sei curioso, quindi? Mio padre mi affida dei documenti che sono più importanti di sua figlia. Forse potresti diventare ricco con quello che c’è qui dentro. E non vuoi dare neppure una occhiata?-

    -No. Se tuo padre ha deciso così ha le sue ragioni e io non voglio giudicarle.-

    Aliza rimane pensierosa a riflettere sulle parole di Gison: perché il padre le ha affidato quel compito? Perché le ha affiancato l’uomo che l’ha frustata solo pochi giorni prima, tra l’altro dietro suo ordine?

    Non si sa dare una risposta. Si allontana da Gison per preparare il cavallo per l’ultima corsa prima di Pot-Loi.

    -Ho uno stiletto, un piccolo pugnale-, dice, rivolta verso il cavallo, le spalle verso Gison.

    -E so come usarlo-, precisa.

    Gison si affretta a sellare il proprio cavallo. Poi si volta verso Aliza:

    -Tienilo a portata di mano, potrebbe servire.

    Tosse

    Il vento sferza senza alcuna tregua i quattro viaggiatori, sempre più lenti nel loro cammino e più incerti nei loro passi. Impossibilitati a guardare avanti, come ciechi procedono sperando di avanzare nella giusta direzione.

    Le pause si allungano, quando trovano un nuovo anfratto che temporaneamente li sottrae alla furia dell’elemento. Non parlano da molto tempo, le gole impastate di sabbia. Bevono acqua in quantità, l’unica loro possibilità di sopravvivenza e quando sentono di poter riprendere il cammino, abbandonano nuovamente il loro rifugio per rituffarsi nel tormento.

    Perdono il conto delle ore e dei giorni, la furia del vento è tale da impedire di distinguere il giorno dalla notte.

    Poi Shon cade, per l’ennesimo inciampo. Il gruppo, sempre unito dalla fune, si ferma aspettando di riprendere insieme il cammino.

    Ma Shon non si rialza, rimane a terra diversi istanti prima che qualcuno trovi l’energia per intervenire. Evan lo solleva e Shon non si regge in piedi. Ricade a terra, avvicinando le ginocchia al petto. Evan urla qualcosa verso gli altri, ma né Sarah né Abian capiscono. Attraverso piccoli spiragli nel manto che li protegge dalla sabbia, cercano di capire cosa stia succedendo, fino a che Evan si avvicina a Sarah, per urlare vicino al suo orecchio:

    -Shon sta male! Non riesce ad alzarsi!-

    Sarah guarda la figura di Shon a terra: in queste condizioni non possiamo avanzare, pensa. Non abbiamo abbastanza forza per portare Shon in spalla. Se non si regge da solo...

    Non termina il pensiero, si avvicina a lui per vedere perché mantiene quella strana posizione. Quando lo raggiunge, vede che il suo corpo è attraversato da scossoni. Si avvicina alla sua testa, scosta il manto e lo vede tossire con violenza, gli occhi chiusi, con un colore scuro in viso.

    E quando tossisce, sputa sangue.

    Sarah si risolleva, atterrita. Si guarda intorno, ma non vede alcuna fossa in vista, nel breve tratto concesso dalla sabbia onnipresente.

    Si accosta nuovamente a Evan.

    -Shon è grave!- urla a sua volta, la gola in fiamme, -dobbiamo trovare un riparo vicino!-

    -Dove!-

    Sarah scuote la testa: -non lo so!- dicono le sue labbra senza voce.

    Passano lunghi istanti, le tre figure immobili nel vento.

    Poi, improvvisamente Evan si lancia verso Shon, lo solleva e comincia a camminare. Sarah e Abian assistono immobili, presi alla sprovvista, poi si sentono tirare dalla fune che li lega assieme. Scossi dalla trazione, si avviano dietro Evan. Sarah urla delle parole verso il fratello, ne denuncia l’incoscienza, gli intima di fermarsi, ma il suono si perde nel vento.

    Per alcuni minuti i tre procedono rapidamente, spinti dalla furia di Evan. Che in breve inizia a calare, riducendo la velocità dell’andatura, fino a fermarsi. Le tre figure si riavvicinano Evan si lascia cadere a terra con Shon. Poi Abian urla qualcosa di incomprensibile, indicando con la mano qualcosa, che a Sarah appare come una grande macchia nera, un circolo di oscurità nel grigio della sabbia circostante.

    Abian si libera dalla fune e si allontana dal gruppo, per tornare subito dopo.

    -È una grotta!- urla prima a Sarah e poi a Evan, aiutandolo a risollevarsi e a sollevare Shon.

    Faticosamente i due riescono a trascinare Shon all’interno della grotta. Sarah, legata ancora a Evan, li segue con la testa completamente vuotata di ogni pensiero.

    La grotta si rivela profonda e la furia del vento non riesce a sfogarsi al suo interno. Così si lasciano tutti cadere a terra, ansanti per la fatica. Nel silenzio della grotta Evan tossisce violentemente. Shon non da segni di vita.

    Pot-Loi

    Aliza spinge in avanti il suo cavallo, ma senza convinzione, lo sguardo rivolto a terra, di fronte a sé. Dopo la pianura, segue la lenta salita verso l’altopiano del Pot-Loi.

    Dietro di lei, il suo compagno di cammino. La segue a pochi passi di distanza, sempre silenzioso, sempre il secondo a parlare e solo se è necessario rispondere.

    Di tanto in tanto Aliza gli lancia una occhiata furtiva, per poterlo osservare: è alto, si vede anche quando è in sella. I capelli, folti ma molto corti, sono di un nero molto intenso, in forte contrasto con gli occhi, chiarissimi. Aliza sa per esperienza diretta che è anche molto forte, più di quello che potrebbe suggerire la sua sagoma non particolarmente robusta, a dispetto dell’altezza.

    Gison. Che l’ha frustata per ordine del padre, senza esitazione. Che la sta accompagnando nella sua prima vera missione, sempre per ordine del padre, che non si fida di lei.

    Gison. Che ha ucciso Albert, perché lei non può avere un uomo da amare. Così vuole la legge di suo padre.

    Nella sua lunga traversata, Gison è l’unica persona con cui poter parlare e allo stesso momento l’ultima con cui vorrebbe farlo. Nonostante questo, quando il filo dei suoi pensieri la porta lontano e si distoglie dai suoi propositi di vendetta, quasi per caso gli rivolge la parola.

    Per chiedere qualcosa, anche di futile. Per non restare così, in quel silenzio presago di morte.

    -Sei sicuro che sia la strada giusta?

    Gli chiede in uno di quei momenti ed è già pentita.

    -Fidati,- le risponde da dietro, -sono venuto qui molte volte.

    Aliza si morde un labbro con forza. Si era ripromessa di non rivolgersi più a lui.

    -Perché la città non si vede?-

    -La città è vicina, vedrai e capirai.-

    Poco dopo, Aliza comprende. Comprende perché non ha visto da lontano le case più alte, o le chiese con le loro torri.

    Perché Pot-Loi, la città, non è in cima all’altopiano, ma sotto. Anzi, dentro.

    Quando Aliza vede i primi tetti, stenta a credere a quella visione: centinaia di case ammassate insieme, in una disposizione altamente caotica, dentro una enorme depressione del terreno, un foro tanto regolare nel perimetro da indurre immediatamente la sensazione di uno scavo effettuato dall’uomo.

    La capitale del Pot-Loi giace all’interno di un enorme foro circolare, come se la terra fosse venuta a mancare all’improvviso nella vasta pianura, o come se il peso delle case al suo interno fosse stato troppo per quel suolo, sprofondato sotto l’immane peso della città.

    Nelle pareti di questa depressione si insinuano le vie d’accesso alla città, sentieri che spiraleggiando scendono sul fondo del cratere, strade sulle quali si muovono file umane in ingresso e in uscita dalla città.

    Dopo il primo sguardo, Aliza nota la assoluta mancanza di una struttura di difesa.

    La città è completamente priva di mura di qualunque genere. Inoltre, a causa della sua posizione così ribassata rispetto al resto dell’altopiano, le appare estremamente vulnerabile a un attacco nemico. Non capisce perché sia stata raggiunta da questo pensiero eppure quasi si immagina un esercito nemico in arrivo, che con estrema facilità distrugge dall’alto la città.

    Perché mai la avranno costruita in questo posto, le verrebbe da chiedere a Gison, ma resiste alla tentazione della domanda, mentre insieme intraprendono il lungo cammino verso il fondo

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