Barlume di Luce
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Anteprima del libro
Barlume di Luce - Riccardo Magrin Maffei
Riccardo Magrin Maffei
Barlume di Luce
Elison Publishing
© 2021 Elison Publishing
Tutti i diritti sono riservati
www.elisonpublishing.com
elisonpublishing@hotmail.com
ISBN 9788869632587
Indice
I
Il maggiore Tom
II
L’errante
III
Il muro del silenzio
IV
I lunghi giorni
V
Profondo verde
VI
La città ancestrale
VII
Cuore di tenebra
VIII
Destino
IX
Barlume di luce
I
Il maggiore Tom
Il Sole riscalda la mia pelle con l’intensità della primavera della Florida per l’ultima volta, prima che mi accinga a entrare nella navicella. I raggi solari avevano inondato per tutta la mattina la distesa di erba attorno alla base, gli uffici, le sale di controllo e l’imponente torre che sorregge il razzo. Il cielo è così terso che sembra sia stato lavato da mani sconosciute. Le fronde degli alberi stormiscono dolcemente al vento e il profumo delle cibarie si diffonde tra gli spettatori frementi.
È un sole gentile e invitante quello della mattina di domenica 18 aprile 2077, uno di quei soli che t’incoraggia a fare una scampagnata con la famiglia, più che a salire su quel drago spaventoso che di lì a poco erutterà la sua fiammata. Non desidero altro. Non desidero altro fin da quando ero ragazzo. Da un momento all’altro, non sono più sulla rampa di lancio della base, ma disteso su un prato del Midwest, appena fuori dalla casa dei miei genitori, una mano morbida che stringe la mia, a osservare il dedalo del cielo notturno. Osservo quei punti luminosi, che passano silenziosamente sulle vite delle ombre ignare, e mi chiedo quali meraviglie celino. Uno spettacolo che mi emozionava. A quel tempo sapevo che prima o poi sarei tornato nella mia casa accogliente, con la mia famiglia, a bere limonata e a guardare la televisione, beandomi della quiete della campagna. Avrei sempre sentito il profumo della mia dimora, il profumo della Terra.
Ora è diverso. Per un attimo sono spaventato, il cuore imbizzarrito nel petto, mi manca l’aria e provo l’irrefrenabile impulso di scappare da quella caverna di metallo che sta per inghiottirmi. Cosa farai quando sarai da solo?
una voce stridula mi sorprende dall’inconscio. All’improvviso una mano si appoggia delicatamente sulla mia spalla, quasi come abbia intuito immediatamente il mio tumulto interiore, solo osservandomi.
«Ehi, maggiore, c’è qualcosa che non va?» mi apostrofa Kate attraverso il microfono.
Il suono armonioso di quella voce ha il potere di calmarmi e di lavare via tutti i miei dubbi. Kate è la seconda in comando, dopo di me. L’avevo conosciuta solo sei mesi prima, ma immediatamente era scattata la scintilla. Lei sembra capirmi, in tutte le più recondite sfumature del mio essere. I miei genitori, i miei amici, perfino mio fratello mi avevano bollato come pazzo quando avevo deciso di offrirmi volontario per la più pericolosa e folle missione spaziale della storia dell’uomo, o meglio, il modo con cui loro e i mass media chiamano quella che io, Erik, definisco la più grande impresa della storia dell’uomo.
Il primo viaggio interstellare. La meta è un pianeta che potrebbe ospitare vita intelligente. La maggior parte del genere umano non comprende la portata di questo passo. Kate ed io siamo viaggiatori, astronauti. Io un biologo cibernetico, lei un’affermata naturalista, accomunati fin dall’infanzia dalla passione per l’infinito.
Gli strumenti vengono controllati, i pulsanti premuti, i settaggi di volo impostati, le tute sistemate nell’abitacolo della nave che ci permetterà di lasciare l’atmosfera terrestre. Il resto della squadra si fa spazio nell’angusto abitacolo: Hart, il militare e medico, Lopez, il fisico, Eisner e Burrows, i tecnici. Sono i migliori nel loro campo. La crème de la crème dell’umanità, unita per il più grande viaggio di sempre.
«Signori, allacciate le cinture. La gita ci aspetta!» annuncio, mascherando la tensione, scrollandomi di dosso i timori. Quel razzo è la nostra mastodontica automobile, e la navicella che porta appresso, incredibilmente più avanzata, la nostra roulotte. Per arrivare in orbita attorno alla Terra il vecchio metodo è ancora il migliore: quel propulsore chimico è figlio di quelli che avevano sospinto gli Space Shuttle. La navicella Ulysses, al contrario, è il supremo raggiungimento di tutti gli sforzi della tecnologia, qualcosa di così superiore ai mezzi di pochi anni prima che a volte dubito perfino della sua esistenza.
«Tutto in ordine, comandante» risponde Eisner. «Pronti a partire.»
«Controllo missione, siamo pronti.»
«Missione Ulysses, avviamo il conto alla rovescia. Ci risentiamo quando sarete in orbita.»
Mentre il conto alla rovescia scorre verso lo zero, penso alla nostra meta. Ci sarà davvero vita lassù? Le radiazioni, la possibile rotazione sincrona, l’acqua liquida… I parametri sono così tanti da riempire biblioteche. E se c’è vita, sarà come ce l’aspettiamo? Chi dice che la vita necessiti di ossigeno e una temperatura media di venti gradi centigradi per svilupparsi? Eventuali forme di vita aliene potrebbero respirare metano, vivere a cinquanta gradi sotto lo zero, oppure non respirare nemmeno, e ricavare energia da altre fonti. Oppure lassù non c’è nulla. Una roccia vuota e silenziosa, dove il passare del tempo viene scandito solo dal lento movimento dell’Universo. E allora Kate ed io ci saremmo stesi sulla superficie di quel pianeta e avremmo osservato il firmamento proprio come sulla Terra…
Il corso dei miei pensieri si interrompe quando mi accorgo che la mano di Kate sta stringendo la mia, mentre l’enorme automobile trasporta la nostra roulotte verso l’autostrada galattica. Il propulsore chimico spinge con terribile forza la massa dell’astronave, che si stacca con un boato assordante dal suolo. Immagino la folla che si è assiepata ai margini della piattaforma di lancio che esplode in una calorosa acclamazione, quella stessa folla che da lì a poche ore sarebbe ritornata alle proprie occupazioni quotidiane, serbando labile ricordo del farsi della storia al quale hanno appena assistito. Il razzo si immerge nel cielo. Tutta la massa dell’astronave vibra e geme, per l’enorme sforzo di dover portare in orbita anche l’Ulysses. La messa in orbita di una navicella, lo staccarsi dal suolo per raggiungere il lembo di spazio più vicino alla nostra casa, è ormai un’operazione di routine, che molti eseguono stancamente, meccanici nei loro movimenti cadenzati. Al contrario, una sorta di quieta eccitazione mi pervade ogni volta che sento la spinta potente del propulsore, che vedo l’azzurro che vira in blu, il blu in nero, e improvvisamente il Sole non è più l’unica stella a occupare la nostra visuale. Le infinite possibilità date da ogni direzione si sono schiuse. La navicella lascia lentamente il campo gravitazionale terrestre, la forza G si fa via via meno intensa. Riprendiamo a respirare, il peso che ci opprimeva i petti che si dissolve come una voluta di fumo nel vento primaverile. Sono stato nello spazio spesso, essendo un esperto astronauta, ma la vista della distesa nera punteggiata di stelle, costellazioni e quella palla blu e verde chiamata Terra mi lascia ogni volta senza fiato.
«Controllo missione, abbiamo lasciato l’atmosfera terrestre. Impostiamo la rotta.»
«Missione Ulysses, vi avvertiremo quando potrete avviare la propulsione interstellare» gracchia l’interfono.
Non servono molte altre comunicazioni con la base. Tutto è già stato pianificato e vagliato da tempo. Tuttavia, Lopez controlla la rotta un’ultima volta. Ogni calcolo dev’essere preciso al millesimo. La presenza di grossi asteroidi, comete e altri corpi celesti non è da sottovalutare ora che non siamo ancora nello spazio interstellare, dove il vuoto è quasi totale.
Sto per lasciare quel simulacro di tutto ciò che è umano per sempre, con ogni probabilità. Il passo che sono in procinto di compiere è troppo estremo per poter essere reversibile. È come saltare in un buio dirupo, con il dubbio se l’atterraggio sarà qualcosa per cui vale la pena aver saltato, oppure, molto più semplicemente, la decisione di un pazzo suicida. Mi volgo a guardare i miei compagni. Non vedo paura sui loro volti, ma piuttosto determinazione, e anche un po’ di presunzione. Quella presunzione che serve per fare grandi cose, quella presunzione che permette di mettere in dubbio i limiti che pensiamo esserci stati imposti. Quella presunzione che mancava a chi credeva, solo pochi anni prima, che fossimo tutti dei folli.
«Missione Ulysses, avete superato l’orbita lunare, la rotta è impostata?»
«Controllo missione, rotta impostata.»
«Potete accendere il propulsore interstellare, allora. D’ora in poi siete da soli. Tutto il pianeta vi augura… buona fortuna.»
Il collegamento radio s’interrompe bruscamente, come un vecchio telefono al quale vengano tagliati i fili. La profondità siderale ci attende. Siamo appena al di là della Luna, ma già sembriamo ad anni luce da casa. Mi volto a guardare Kate. La tuta spaziale non intacca la sua bellezza, la sua grazia. Ci scambiamo un lungo sguardo. Spero che la mia presenza sarà sufficiente a tenerla al sicuro. Premo alcuni pulsanti per regolare il supporto vitale, controllo gli indicatori della propulsione interstellare, poi poso la mano su una leva e prendo un profondo respiro. Cosa farai quando sarai da solo?
Sussultando, cerco ancora di spegnere la voce ed esito. Poi capisco cosa devo fare per zittirla, e tiro la leva. Le stelle rimangono immobili.
Osservo le stelle dall’ampio oblò della sala principale dell’Ulysses. Mi sono potuto togliere la pesante tuta spaziale e il casco per rimanere con la più comoda tuta di volo. Le stelle rimangono pressoché ferme, come diamanti incastonati in un gioiello, sebbene stiamo ormai viaggiando a un buon ottanta percento della velocità della luce.
Ian Solo non sarebbe d’accordo
rifletto ironicamente.
Le distanze siderali sono così smisurate che, anche viaggiando così veloce,