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Giallo profumo di limoni: L'avvocato Alfieri in un caso tra Torino e Sanremo
Giallo profumo di limoni: L'avvocato Alfieri in un caso tra Torino e Sanremo
Giallo profumo di limoni: L'avvocato Alfieri in un caso tra Torino e Sanremo
E-book325 pagine4 ore

Giallo profumo di limoni: L'avvocato Alfieri in un caso tra Torino e Sanremo

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Info su questo ebook

Marzo 1973: seguendo il filo di una misteriosa lettera anonima, Ennio Alfieri, avvocato torinese investigatore per passione, giunge a Sanremo. Cullato dal tepore della primavera in arrivo, non immagina che l’incubo lo stia aspettando proprio lì. Mentre la città si popola di artisti ed appassionati delle sette note, in fibrillazione per il Festival incombente, ombre remote riemergono inquietanti. Memorie di delitti attribuiti ad un feroce serial killer e frammenti di un’inchiesta frettolosamente archiviata, tracce centellinate da un anziano carabiniere impiccione e fantasmi che si aggirano tra le tombe del Cimitero Vecchio obbligano Ennio ad immergersi in un’indagine difficile e dolorosa. Coadiuvato dall’inseparabile amico don Mario, al suo fianco fin dai tempi del liceo, e supportato a distanza dall’eccentrico vicecommissario Ranieri, l’Avvocato scova variopinti testimoni mai ascoltati dagli inquirenti e piste alternative trascurate, affrontando il suo passato alla ricerca dell’Uomo Nero che lo sconosciuto mittente ha incitato a catturare. Tra i vicoli ombrosi della Pigna e le spiagge deserte del tardo inverno rivierasco, tra le note del Festival del ’73 e le strade frenetiche di Torino, tra la polvere dei campetti di periferia e il garbuglio del Balon, la caccia dell’Avvocato ricomincia.

Marco P.L. Bernardi è nato nel 1969 a Torino, dove risiede con la moglie. Ha vissuto per studio e lavoro a Lione, Parigi, Venezia e Roma. Con Cocktail d’anime per l’avvocato Alfieri, il romanzo d’esordio, ha vinto nel 2020 Giallo- Festival, concorso nazionale per gialli inediti, ottenendo un lusinghiero riscontro in termini di critica, vendite e gradimento dei lettori. Dopo la maturità classica si è laureato in Lettere Moderne e ha successivamente conseguito un Master in Comunicazione d’Azienda. Ha lavorato per società italiane ed internazionali in ambito marketing e vendite. È stato Ufficiale di Complemento dell’Esercito ad Albenga (SV). Amante della musica, è cultore dei cantautori italiani e francesi.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mar 2023
ISBN9788869436864
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    Anteprima del libro

    Giallo profumo di limoni - Marco Bernardi

    RITROVARSI

    1

    Torino, mercoledì 21 febbraio 1973

    Il profumo della felicità è quello che si respira entrando qui, pensò Alfieri, lasciandosi solleticare le narici dall’avvolgente aroma del cioccolato, morbido come un tramonto arabo.

    La visita al negozio di Peyrano era un piacere che di tanto in tanto si regalava, che aspettava con ansia nei giorni precedenti, nei quali limitava l’assunzione di dolci fino alla totale astinenza della vigilia. Una bella scarpinata da casa sua, in piazza Solferino, a corso Moncalieri, dove sorgeva il tempio del cioccolato: fra andata e ritorno cinque chilometri, a piedi, per far crescere l’appetito ed illudersi di ammortizzare l’estasi golosa che sarebbe seguita da lì a poco. Al di là dei vetri degli espositori, le ordinate file di cioccolatini erano tentazioni schierate come soldati, e lui vi cedeva senza nemmeno provare ad abbozzare una qualsivoglia resistenza.

    Quando sarò morto, saprò riconoscere a naso se le porte del Paradiso saranno sul punto di aprirsi. Se san Pietro comparirà circondato da una nuvoletta al fondente, potrò sperare di far parte della comunità dei beati.

    Uscì con tre confezioni elegantemente infiocchettate: la prima, mista, era per Elvira, con la quale aveva appuntamento per la cena, la seconda, solo cioccolato al latte, per quel selvaggio di Mario che non apprezzava l’amaro paradisiaco del fondente, e l’ultima tutta per sé, con forte concentrazione di grappini e alpini, specialità al liquore che mescolavano al piacere del cioccolato una viziosa nota alcolica.

    La primavera aveva deciso di presentarsi con un mese di anticipo e il sole screziava la strada facendosi largo tra i rami spogli dei platani del corso.

    Si poteva quasi fingere di essere a fine aprile e che le campane di sant’Agnese stessero annunciando la Pasqua. Tra la luce festosa e i cioccolatini ancora da assaltare, Alfieri sentiva una gioia leggera, da ultimo giorno di scuola prima delle vacanze. A metà del ponte Umberto I, cedette per la prima volta: scartò il suo scrigno e vi insinuò pollice e indice, estraendo a caso il primo capolavoro. Sapeva bene che era quello che avrebbe dato la stura al vaso di Pandora e che gli altri cioccolatini lo avrebbero seguito, ma era sempre il primo il più buono e il più appagante. Lo tenne in bocca a lungo, sentendolo sciogliersi contro il palato e riempirgli la bocca, papilla dopo papilla. Camminava come in sogno, indifferente perfino alla statua del forzuto spadaccino, incombente sul nemico trafitto, posizionata sul bordo opposto del ponte. Travolto dall’ebbrezza gustativa, non fece caso nemmeno al piede del caduto che si protendeva verso di lui nel tentativo di sfuggire al basamento di pietra, sul quale si compiva il suo eterno martirio.

    Lungo corso Vittorio continuò il metodico lavoro di divoratore e, quando finalmente svoltò in corso re Umberto e gli si palesò la fontana Angelica, sulla quale si affacciava il suo appartamento, della nutrita schiera di bontà non rimanevano che sparuti superstiti. Se ne rese conto con un accenno di senso di colpa, che durò da quando infilò la mano in tasca per cercare la chiave del portone a quando fece scattare la serratura: non era uomo da rimorso del peccato di gola, anzi, gli capitava di pensare che non cedervi sarebbe stata una colpa ben più grave.

    Posò lo sguardo sulla cassetta delle lettere e notò che era insolitamente piena. Da quando si era ritirato dalla professione la corrispondenza era gradualmente diminuita, fino a ridursi ai minimi termini, con periodi di assoluta carestia e picchi stagionali in occasione degli auguri di Natale e delle cartoline che taluni si ostinavano a spedirgli nei mesi estivi.

    Vedere ben tre lettere che lo aspettavano a fine febbraio era un’autentica rarità, come scorgere tre boccioli in un roseto gelato.

    Le recuperò e le soppesò, sospettoso.

    Certamente la sorte stava per punirlo della scorpacciata, e immaginò multe, ricordini funebri o, peggio, inviti a matrimoni di lontani conoscenti che lo avrebbero costretto a interminabili giornate di attesa e chiacchiere annoiate, intorno a tavoli pieni di pietanze troppo tiepide e vini troppo freddi, o al disagio di inventarsi scuse variopinte e scadenti, a cui nessuno avrebbe mai creduto.

    Qualcuno ci scrive, Beppegaribaldi.

    Il canarino lo scrutò con malcelato stupore e cinguettò un paio di note stridule che potevano significare Qualche scocciatore…, o anche Grane in vista.

    Alfieri capiva un po’ la lingua dei canarini, ma ancora gli sfuggivano alcune sfumature, così evitò di replicare.

    Su nessuna delle tre buste compariva il mittente.

    Brutto segno, quando non vogliono darti la possibilità di stracciare la lettera prima di leggerla, pensò.

    Insinuò il tagliacarte e violò l’involucro numero uno. Primo pericolo scampato: il sacrestano del suo paese d’origine, Castell’Alfero, gli scriveva omaggiandogli come ogni anno il giornalino parrocchiale, per sollecitarlo tra le righe a versare un obolo. L’assistente del parroco, da vero segugio, non mancava di ricordarsi di lui all’inizio della primavera, in vista del saldo delle spese di riscaldamento, momento che privilegiava per battere cassa.

    Puntuale come la morte, il braccio destro del Don, bisbigliò, rivolgendosi all’amico pennuto che lo guardava interrogativo, spalancando gli occhietti neri simili a capocchie di spillo.

    Anche la seconda lettera fu indolore: l’U.N.U.C.I., unione degli Ufficiali in congedo alla quale orgogliosamente apparteneva, gli ricordava di versare la quota associativa, che era convinto di aver saldato da almeno due settimane. Ricordava di aver preparato il contante e di averlo appoggiato sulla scrivania… Girò gli occhi e trovò la pila delle banconote ancora lì, intonsa ed accusatoria.

    Colpa tua, Beppe. Mi dai troppi pensieri e divento distratto.

    L’uccellino cinguettò beffardo e condì il tutto con un gorgheggio finale che sembrava una risata di scherno.

    Mentre si accingeva ad aprire la terza busta, si rese conto che, in un luogo recondito dell’anima, un turbamento noto aveva ripreso a pulsare.

    Da tanti anni, ogni volta che gli capitava di scorgere una lettera al di là del vetro della cassetta della posta, una chimera antica riaffiorava, quella che fosse una Sua lettera. Attesa spasmodicamente dapprima, poi con una speranza più flebile a mano a mano che gli anni si accumulavano, fino a diventare il ricordo di un’attesa.

    Un’attesa lunga una vita e una speranza breve, come le quattro lettere del nome che gli faceva ancora battere il cuore: Ines.

    Torino, maggio 1936

    Prima dell’inizio delle lezioni, la classe risonava di voci bisbiglianti.

    Si sentiva nell’aria l’incombere dell’estate: il tepore nuovo faceva pensare alle vacanze e un’allegria latente invogliava a chiudere i libri, anziché aprirli. Solo Ines teneva la testa china sul banco, immobile e zitta, mostrando sempre lo stesso profilo, come un’egiziana su un antico papiro, nella luce svagata di fine maggio.

    Quel bastardo le ha fatto un occhio nero, Ennio.

    Alfieri, appena entrato in aula, aveva trovato Mario visibilmente alterato, incapace di sussurrare come imponeva il rigore dell’istituto, e tanto sbraitò che fece voltare il lentigginoso Damiani, detto Civetta per gli occhiali che ne ingigantivano gli occhi color grigio topo.

    Damiani, il fascistissimo responsabile degli avanguardisti del liceo, li scrutò entrambi con compiacimento: Be’, caro Scassa, che cosa ti aspettavi che facesse, la Roccia? Che continuasse a permetterle di fare i suoi comodi con Alfieri, un disfattista che trascura i doveri verso il Partito ed è sempre pronto a dare contro al Duce del nostro Impero?.

    La Roccia, alias Guido Landolfo di Turriscursuni, era il fratello maggiore di Ines. Atleta monumentale e corridore formidabile, aveva vinto per ben due volte i Littorali dello sport, si fregiava della M d’oro di Littore d’Italia ed era il più temuto rappresentante dei Gruppi Universitari Fascisti di Torino.

    Girati, Damiani sbottò Mario, che aveva una voglia dannata di menare le mani Non aspetto altro che una scusa per farti pagare le malefatte del tuo amico corridore; quindi, cerca di non metterti nei guai.

    Pensa ai tuoi di amici, Scassa sogghignò l’occhialuto in camicia nera E stai all’occhio: non basterà il tuo cognome per pararti le spalle, se ti ostini a metterti in mezzo.

    Alfieri, argomento della disputa, non li sentiva nemmeno; cercava, concentrato, il segno delle percosse sul viso della ragazza, ma dal suo banco godeva di un punto di vista pessimo, che non gli faceva vedere niente. Anche se mancavano pochi minuti alla prima campanella, e farsi trovare in giro per la classe lo avrebbe condannato ad essere cacciato dall’aula, si alzò per andare da Ines, ignorando il battibecco che stava degenerando in lite da caserma.

    Che cos’è successo?, le chiese. Non rispose e si girò ancor di più verso il muro, mostrandogli il collo bianco e la chioma raccolta in uno chignon da ballerina.

    La prese per il polso, delicatamente: Fammi vedere, ma lei rifiutò di voltarsi.

    Non è niente. Vai al tuo posto, che arriva mio padre. Sai che non transige.

    Tuo padre pensi a quel delinquente di suo figlio e ai suoi amichetti. Poi potrò dargli soddisfazione sull’atteggiamento da tenere in classe.

    Ci penso Alfieri, mi creda… Ma, nonostante condivida il suo risentimento, questo non la autorizzerà a comportarsi durante le mie lezioni in modo meno che opportuno.

    Il professor Ermete Landolfo era entrato in aula e lo aveva sentito. Il tono di voce col quale lo aveva redarguito non tradiva alcuna emozione e non ammetteva repliche. Alto e segaligno, scuro di carnagione e capelli, era il terrore degli allievi, che si vendicavano di lui irridendolo per il fare altezzoso e per l’accento palermitano, così lontano dal cantilenare piemontese dei colleghi. Non alzava la voce, anzi sussurrava, obbligando gli allievi, da lui definiti discepoli, ad aguzzare le orecchie, pretendendo compostezza in ogni momento.

    Aveva codificato le lezioni in una sequenza di riti: al suo ingresso in aula bisognava scattare sull’attenti, aspettarne il saluto, che poteva arrivare anche diversi minuti dopo, quando aveva finito di disporre le sue cose sulla cattedra, rispondere ed attendere l’autorizzazione per accomodarsi. Sovente li lasciava in piedi a lungo, incurante – a dispetto dell’ostentato bon ton – delle allieve e della sua stessa figlia, che aveva voluto a tutti i costi nella sua classe a costo di smuovere amici altolocati, perché – diceva – nessun insegnante torinese è degno delle sue capacità. Lisciava fra pollice ed indice la punta dei baffetti aguzzi e nerissimi, poi, senza parlare, disponeva i fogli della versione appena corretta in rigoroso ordine di voto, a cominciare dal discente peggiore, che avrebbe umiliato pubblicamente, per risalire a poco a poco verso l’empireo dei migliori. Scrutava l’aula con annoiata indifferenza; infine, con il tono di chi sta dispensando una concessione, bisbigliava: Seduti, seduti.

    Quella mattina, prima del consueto iter, prese provvedimento: Vada fuori, Alfieri. E pensi a come ci si deve comportare. Quando avrà riflettuto a sufficienza, le permetterò di rientrare.

    Ines lo guardò e gli mostrò l’oltraggio di un livido che violava zigomo e guancia destra.

    Un gonfiore sotto l’occhio rivelava la violenza di un colpo secco.

    Suo figlio è un vigliacco, sibilò Ennio, e la pagherà. Glielo dica da parte mia.

    Rivolse lo sguardo a Damiani: Diglielo anche tu. Fagli sapere che non la passerà liscia.

    Ora basta, gli si accostò il professore. Vada fuori. Ricordi che questo non è il tempo per fare gli eroi, e che farsi ammazzare per niente è un peccato.

    Il ragazzo uscì, senza fiatare.

    Vai, vai, Alfieri. Che prima o poi le paghi tutte.

    La Civetta rise, consapevole dell’impunità che gli derivava dal ruolo politico.

    "Basta, Damiani! Io pretendo disciplina da tutti i miei allievi!".

    Il ragazzo annuì e si scusò, mantenendo l’espressione beffarda.

    Civetta, stai in campana, ringhiò Mario dal banco alle sue spalle. Ride bene chi ride ultimo. Gli sferrò un calcio nelle reni, che spense di colpo quel ghigno.

    Landolfo fece finta di non vedere.

    2

    La lettera all’interno della terza busta era l’unica scritta a macchina e, come sempre, non era di Ines.

    Non era di nessuno, a dire il vero.

    Nessuna firma a identificare lo scrivente.

    Le parole, in inchiostro nero, sembravano una macchia scura che creava uno spiacevole contrasto con il resto del foglio, completamente bianco.

    "Nella Città dei Fiori

    c’è un vecchio cimitero

    Se sfidi i tuoi fantasmi

    catturi l’Uomo Nero.

    Tra i loculi non tace

    il mormorar del vento:

    Vendetta chiede e pace

    pel crimine cruento.

    Sigillo sepolcrale

    te ne darà notizia:

    A te scoprire il male.

    A te fare Giustizia.

    Il vero non è mai

    quello che si racconta:

    se capire vorrai,

    il tuo destino affronta".

    Alfieri appoggiò la lettera e rigirò tra le mani la busta: l’indirizzo era anch’esso dattiloscritto, il timbro postale era di Firenze ed era stato vidimato quattro giorni prima. Rilesse le rime, come per verificarne la correttezza metrica: Ma chi diavolo è questo mentecatto toscano?, si chiese ad alta voce. Beppegaribaldi cantò una nota lunga e dolce di cui Alfieri ignorava il significato. Forse voleva dirgli che non amava lo stile lugubre, ma i canarini a volte peccano di eccessiva sintesi e diventa complicato interpretare tutte le sfaccettature del loro pensiero.

    Chi sarà mai sepolto nei loculi del vecchio cimitero di Sanremo, caro il mio Beppe? Qualche riccone venuto da lontano per svernare in perpetuo al tiepido sole della Riviera. Gente che voleva morire abbronzata, ben pasciuta e meglio invecchiata. Oppure antichi Sanremesi puro sangue passati a miglior vita, mescolati perfino da morti ai turisti….

    Quand’era bambino, la minaccia preferita di Catlina in caso di marachelle era quella dell’Uomo Nero che si porta via i discoli: l’accenno a quello spauracchio risvegliava un disagio che credeva sopito per sempre.

    Diede un’ulteriore scorsa; due parole lo tormentavano più delle altre: scoprire e Giustizia, i fondamenti della sua vita. Sentì l’antico brivido della caccia fargli ribollire il sangue.

    Fissò il canarino, al di là delle sbarre della gabbietta e cercò di spegnere l’ansia che aveva cominciato a tormentarlo: Perché mai un defunto rivierasco dovrebbe riguardarmi? Io a Sanremo conosco solo Rosetta e sua moglie che, a meno di novità degli ultimi giorni, sono entrambi vivi e vegeti, seppur ricchi e anziani come i defunti del cimitero vecchio.

    Ubaldo Rosetta, illustre ottuagenario, principe del foro torinese, era uno dei più antichi e inossidabili amici, una sorta di padre putativo, onnipresente nel corso della sua carriera forense. Quando lui, giovane e promettente avvocato, si era trovato sulle spalle uno studio fiorente da gestire di punto in bianco, in seguito alla morte improvvisa del padre, Rosetta si era preso la briga di indirizzarlo e dirigerlo, senza nessun tornaconto. Ed aveva continuato a vegliare su di lui anche dopo il pensionamento e il trasferimento nella Città dei Fiori.

    Tutti gli anni, nella prima settimana di giugno, lo accoglieva nell’elegante dimora di mare e, come diceva lui, lo rimetteva all’onor del mondo, obbligandolo a lunghe passeggiate, bagni di mare, sonno regolare e mangiate salutari. Ubaldo non aveva figli e se n’era scelto uno di suo gusto: da aiutare sì, ma anche da angariare a piacimento e da mettere in riga a colpi di bacchetta.

    Era stato, però, l’unico tra tutti gli amici, parenti e conoscenti ad appoggiare la sua scelta di ritirarsi precocemente, liquidando lo studio nel massimo fulgore.

    Qualche anno prima, resosi conto che esercitare la professione avita non lo stimolava più e che, anzi, la routine stava spegnendo in lui ogni ardore, Alfieri aveva preso la decisione di lasciare, a nemmeno cinquant’anni. Dall’oggi al domani, Folgorato sulla via di Damasco, come amava ripetergli Mario, l’amico più caro, che da buon prete tendeva ad abusare di similitudini neotestamentarie.

    Quella scelta era stata interpretata come una stravaganza prossima alla follia, e i colleghi si erano affrettati a dispensare buoni consigli o giudizi taglienti.

    Che cosa mi combini, Ennio? Ti ha dato di volta il cervello?, era stato il commento più diffuso e benevolo.

    Tutti bizzarri gli Alfieri di Castell’Alfero. Secoli di stramberie e mattane, anche se questa le batte tutte.

    Se lo vedesse la buonanima di Vittorio… Bel figlio degenere!.

    Unica voce fuori dal coro era stata quella di Rosetta, la più autorevole: aveva zittito tutti col suo parere incontrovertibile. Si era limitato ad affermare che la vita, quando la vedi voltandoti indietro, in prossimità del traguardo finale, sembra una strada in salita che, nonostante tutta la fatica fatta a percorrerla, si rivela comunque troppo breve. A che pro dilapidarla in preoccupazioni e attività che non si amano?

    Ed aveva chiosato, vis-à-vis con Ennio: "In fondo, che te ne importa, mon vieux? I tuoi soldi, non li spenderai tutti nel pezzetto di vita che ti resta, che ti auguro lungo e felice. Non hai moglie né figli. Goditi la tua vita, prima che se la godano al posto tuo dei lontani parenti dei quali non conosci nemmeno la faccia".

    Rosetta era pratico e conciso. Qualunque banalità gli saltasse alla mente, detta da lui diventava una sentenza, e più nessuno osava metter becco nella questione rischiarata dal suo parere lapidario.

    Ennio pensò di fargli subito uno squillo: l’arzillo vecchietto, come lo chiamava di tanto in tanto per farlo irritare, avrebbe potuto dirgli la sua su quel messaggio anonimo, ed eventualmente fare una passeggiata al camposanto per vedere se qualche defunto in piccionaia avesse un nome o un volto noto.

    La sola idea dell’augusto leguleio intento a scorrere i nomi degli antichi defunti, imprecando sommessamente, com’era solito fare quando si trovava a svolgere un compito arduo e sgradito, lo riempì di un piacere perfido.

    Rispose Marisa, la moglie di Rosetta.

    Pronto, chi parla?, disse con tono allarmato.

    Quando capì che all’altro capo del filo c’era lui, la voce le si ruppe in gola.

    Marisa, sono Ennio… Stai bene? State bene? Che succede?.

    Niente, caro. Stai tranquillo. Solo che adesso… Ubaldo non può venire al telefono, è… è impegnato.

    Era evidente che la donna fosse a disagio e stesse mentendo malamente, alla ricerca di una scusa che non le veniva in mente per porre fine alla chiamata.

    Andiamo, Marisa. Tu non sai fingere e hai anche poca fantasia, non sei fatta della pasta di quel marpione di tuo marito. Che cosa sta combinando? Gli è successo qualcosa?.

    Marisa tacque, si schermì, negò ancora, poi cedette di schianto e, rompendo gli indugi, spiattellò la verità: È il suo cuore, Ennio. Il solito cuore ballerino, che gli sta dando dei problemi. Due settimane fa ha avuto un attacco, forte. I medici mi avevano avvertita che non avrebbe passato la notte e che dovevo prepararmi al peggio… Insomma, mi hanno spiattellato le solite sciocchezze del caso… Invece lui ha resistito e li ha messi tutti a tacere, gli uccellacci del malaugurio. Sai com’è fatto: un leone indomito.

    Era piena di orgoglio per il suo uomo, Marisa.

    Erano sposati da quasi sessant’anni e avevano affrontato insieme due guerre mondiali, la ricostruzione, il boom economico e i dibattimenti in Tribunale. Lui non l’aveva delusa. Mai.

    Adesso come sta?.

    È all’ospedale, ancora in rianimazione, sempre sotto controllo, in una stanza piena di schermi verdi e di macchinari che fanno suoni strani. Ogni tanto sembra che stia meglio e allora posso vederlo, chiacchieriamo e lui può sfogarsi, insultando tutto e tutti. Poi subentra un peggioramento improvviso, lo isolano e io lo guardo al di là del vetro. Talvolta mi vede e mi fa cenno con la destra di andarmene… il solito caratteraccio, le venne quasi da ridere all’idea della tempra dell’uomo che riusciva a darle ordini perfino a distanza, anche messo al tappeto dal proprio fisico malandato. Nessuno si prende più la briga di dirmi che cosa aspettarmi, dopo la magra figura che si sono fatti dandomelo per spacciato. Riprese il racconto e volle scusarsi, come con un figlio tenuto all’oscuro di un grave problema per amore: Avrei voluto chiamarti per avvertirti, Piccolo. Ma lui, no! Ogni volta che me lo lasciano vedere, mi dà i consueti diktat: ‘Non dirlo a nessuno che sto male, e tanto meno ad Ennio. Non voglio che mi veda in questo stato, pieno di flebo e tubicini. Lo avvertirai quando sarò di nuovo a casa mia. Allora, se vorrà, potrà venire a trovarmi’. Sai che razza di capoccia dura ha… Quando si mette una cosa in testa è irremovibile".

    Marisa lo chiamava Piccolo da quando lo aveva accolto in casa tanti anni prima, pochi giorni dopo la morte di suo padre.

    Era andato per incontrare Rosetta e un temporale lo aveva sorpreso, infradiciandolo fino al midollo.

    Lo aveva asciugato e rivestito con i panni troppo stretti del marito: doveva essere in uno stato talmente pietoso da giustificare quell’appellativo, e da allora per lei era rimasto piccolo, nonostante la mole imponente e l’avanzare dell’età.

    Non importa, stai tranquilla, Marisa. Io, però, ora ti raggiungo. Prendo il primo treno e sono da te in serata.

    No! Dammi retta… Non vuole, e anch’io non voglio. Diamogliela vinta anche questa volta: non vorremo disubbidirgli proprio ora che non è in grado di farsi le sue ragioni! Però ti prometto che ti terrò al corrente di ogni novità… Vedrai che ce la farà e starà bene: se proprio avesse voluto andarsene, perché fare la fatica di risorgere da morte quasi certa?.

    Alfieri annuì tra sé: conosceva troppo bene il soggetto, non era tipo da farsi sconfiggere dal proprio cuore scassato. Aveva già avuto un paio di infarti in Tribunale, ma questo non gli aveva impedito di arrivare a quasi novant’anni, senza smettere di litigare, infuriarsi e godersi la vita.

    Va bene, Marisa, come preferisci. Allora aspetterò, aspetteremo insieme. Chiamami appena puoi, appena sai qualcosa. E abbraccialo per me, quel vecchio testone decrepito.

    Riattaccò, sentendo il cuore che gli rimbombava nelle orecchie.

    Rosetta era talmente malconcio da rischiare la pelle, eventualità logica, considerata l’età, ma per Alfieri talmente balzana da sembrargli impossibile.

    Si accorse di non aver mai valutato quell’ipotesi e che, anzi, pensando alla propria dipartita, aveva immaginato Ubaldo e consorte alle esequie, lei in lacrime e lui imprecante, intento a rimproverare prima la rea sorte e poi lui, colpevole di essersi rovinato la salute rimanendo nell’insalubre Torino, invece di trasferirsi in qualche località di mare dove – diceva – tutti campano almeno cent’anni.

    3

    La sera di febbraio era scesa e la fontana Angelica rovesciava indifferente la sua cascata ininterrotta, nella luce giallastra dei lampioni.

    Il nero dell’oscurità torinese ricordava il pelo di un gatto, cangiante e lucido e, a saperlo respirare, emanava sentori antichi di polvere e gesso.

    Don Mario Scassa, a casa dell’amico, guardava fuori dalla finestra, seduto sulla solita poltrona, quella sulla quale amava accomodarsi fin dai tempi del liceo, quando lui ed Ennio trascorrevano interminabili pomeriggi di studio e parole.

    Sorseggiava un’aranciata, con aria avvilita.

    Reduce da una lunga giornata immerso negli archivi dell’arcivescovado, aveva appena saputo del malore di Rosetta.

    Lo aveva conosciuto anni prima, quell’avvocato bizzarro e generoso, e sapeva quanto fosse importante per Ennio.

    Da sempre condivideva le gioie e i dolori dell’amico fraterno.

    Erano stati compagni di scuola, di guerra, e nulla li aveva mai separati, nemmeno l’inaspettata decisione di Mario di farsi prete.

    Quella sera, una comune preoccupazione li univa.

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