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I Testamento di Palazzo Fragalà
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E-book242 pagine3 ore

I Testamento di Palazzo Fragalà

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Info su questo ebook

In un paese della provincia siciliana, nel giugno del 1969, la cameriera di palazzo rinviene nascosto in un libro della biblioteca il testamento olografo del barone Rolando Fragalà, ancora in vita. Nel lascito è forte la sua volontà di donare una cifra ingente, senza nulla in cambio, a colui che sarà in grado di fondare una banca popolare. Lo scopo è quello di favorire lo sviluppo economico e sociale del paese in cui si vive. Nonostante il periodo sessantottino in Sicilia si respira ancora un’aria pregna di involuzione culturale; già si delineano all’orizzonte personaggi mafiosi, coscienti della propria forza organizzativa e militare, e figure legate alla sinistra anche estrema che vogliono esprimere con determinazione il proprio libero pensiero. Le due forze si inseriscono in un tessuto sociale tradizionalmente asfittico generando situazioni forti e controverse. La grande somma di danaro stimola l’appetito di diversi personaggi senza scrupoli pronti a sgomitare pur di raggiungere l’ambito obiettivo; attraverso un racconto piacevole, leggero e ironico si assiste ad un concatenarsi di eventi con un finale a sorpresa.
LinguaItaliano
Data di uscita30 gen 2019
ISBN9788868227692
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    Anteprima del libro

    I Testamento di Palazzo Fragalà - Renato Roberto Pancallo

    Fortunato

    Patanìa, 21 giugno 1969

    Nel grande salone di palazzo Fragalà il pavimento in marmo lucido a quadri bianchi e neri somigliava a un’immensa scacchiera sulla quale facevano ala sei balconi molto luminosi.

    Tre erano rivolti verso il mare dove stancamente ogni sera la palla di sole si andava affogando dentro le acque cariche di un blu così intenso da dare l’impressione che il colore fosse stato buttato con i secchi.

    Gli altri tre guardavano verso le colline sulle quali gli alberi di aranci si mescolavano agli ulivi in un vortice interminabile di sfumature di verde.

    Dai primi anni sessanta quella stupenda sala, dove di sera si intrattenevano i notabili del paese avvolti da un’intensa coltre di fumo, era stata trasformata per volere di Rolando Fragalà in una sontuosa biblioteca di famiglia.

    Mobili d’epoca, divani di velluto, tavoli in radica di noce, tappeti orientali, lampade, luminarie e orpelli vari erano stati trasferiti in un altro salone, nell’ala orientale del palazzo. Avevano lasciato il posto a migliaia e migliaia di tomi dai fogli ingialliti dal tempo, ben disposti uno dietro l’altro in un’imponente libreria che correva lungo tutto il perimetro della sala.

    Mastro Simone Rapisarda, un sopraffino ebanista incurvato dal tempo come gli assi di un vecchio gozzo abbandonato sulla spiaggia, aveva lavorato tre anni prima di completarla, ma alla fine era riuscito a foggiare un’opera d’arte davvero esclusiva. I suoi occhi ogni volta che l’ammirava diventavano umidi per la commozione e il compiacimento era pari a quello provato quando finì di costruire la culla del suo primo figlio.

    Teresa Velonà, domestica nonché cuoca di palazzo, amava la biblioteca più della cucina, anzi più di qualsiasi altro luogo della casa.

    Nel suo immaginario il desiderio più recondito era vestire i panni di una donna colta, con una favella tale da far strisciare ai suoi piedi gli uomini del paese, ma anche impressionare con la sua eloquenza le nobildonne che spesso era costretta a servire durante le serate di gala.

    La bramosia di conoscere a menadito tutto lo scibile umano era pari a quella che aveva avvertito a sedici anni verso il corpo di un suo coetaneo quando a tradimento gli mise una mano tra le cosce.

    L’odore della carta, la solennità del luogo, il cuoio dei tomi sparsi ovunque, il luccichio del legno di ciliegio, che tra i suoi scaffali abbracciava fogli e fogli di inchiostro consumato dal tempo, esercitavano su di lei un trasporto magico. Ma nonostante ciò un solo rigo in vita sua non l’aveva mai letto.

    Quando la giornata era tersa e luminosa si fermava a qualche metro dal balcone, nella posizione giusta in cui il pavimento formava una continuità col mare, socchiudeva gli occhi, respirava profondamente e lasciava che la sua mente volasse libera verso l’orizzonte cavalcando le onde una a una. Riusciva così a liberarsi da tutti i cattivi pensieri, caricandosi di energia positiva per affrontare baldanzosa il resto della giornata.

    Teresa, pur amando i colori sgargianti, ogni mattina appena metteva piede dentro casa era solita allacciarsi un grembiule nero che le scendeva sul davanti sino all’altezza delle ginocchia, appiattendole un ventre che altrimenti appariva come gravido.

    Vista davanti, coperta dal grembiule, non si poteva accostare a un animale, ma appena si girava apparivano due natiche così grosse e sode che, se qualcuno ci avesse attaccato in mezzo una coda, era tale e quale a un’asina.

    La faccia, invece, era una creazione della natura che poco aveva da spartire con il corpo. Le orecchie piccole messe in risalto da un cerchietto sbarazzino che le teneva dietro i capelli unti, un naso a patata spesso arrossato, due occhi a palla e una bocca a bocciolo di rosa si incastonavano in un viso rotondo e piccolo che mal si adattava all’imponenza del corpo.

    La sua stazza era giunonica e, a primo acchito, le conferiva un’autorità che però andava perdendo via via quando parlava.

    Un timbro fortemente nasale accompagnato da una dizione traballante in cui la lingua spesso inciampava su se stessa, la faceva accorciare al cospetto di estranei di almeno un centimetro a parola.

    Comunque, il suo punto più debole era allocato tra le ascelle, che spesso emanavano un odore così pungente da sembrare che tra braccia e tronco stringesse due topi morti. Vedova da due lustri, pur essendo vicino alla cinquantina non perdeva mai il vizietto di corteggiare gli uomini, belli o brutti che fossero. Davanti a un pantalone, alla prima occasione, non esitava a piegarsi come per raccogliere qualcosa, mostrando a lungo il fondoschiena in tutta la sua rotondità.

    La mattina del 21 giugno del 1969 con un piumino colorato andava in su e in giù lungo la sala illuminata dal sole, roteandolo con spregiudicata sicurezza, come poteva fare solo un direttore d’orchestra con la sua bacchetta.

    Seguendo le note musicali di un tango che echeggiava forte nelle stanze del palazzo, volteggiava ora a destra ora a sinistra con la stessa leggiadria di una libellula. Sembrava fosse trasportata dolcemente dalle braccia forti di un cavaliere invisibile.

    E lei si lasciava andare, facendosi spingere senza saper resistere al richiamo della musica che le entrava dentro spargendosi in ogni anfratto remoto del suo corpo.

    Mentre danzava, di tanto in tanto dava un colpetto con le piume colorate ora su un libro ora su un altro, giusto per essere a posto con la coscienza di lavoratrice indefessa: il lavoro prima del piacere.

    Le ultime note la fecero fermare insieme al cavaliere invisibile davanti al grande tavolo ovale su cui erano poggiati antichi libri di storia, che il barone Rolando Fragalà desiderava non fossero spostati ma solo spolverati.

    Rimase immobile per qualche istante giusto per capire se la danza potesse avere un seguito, ma appena si rese conto che le dolci note erano finite e le nipoti del barone avevano riposto il disco nella sua custodia, fece un profondo inchino ed esclamò: Grazie, compagno di ballo! Sei stato il cavaliere che ho più apprezzato nella mia vita. È durato poco ma è stato bello, ti avrei voluto in carne e ossa, ma mi accontento lo stesso. Alla mia età bisogna accettare quello che passa il convento!

    Si diede una scrollata e continuò il suo lavoro con incedere veloce, manovrando il piumino come uno spiedo in cerca di un pollo da infilzare, incuneandolo tra pile di volumi distribuiti sul grande tavolo. Improvvisamente il rumore sordo di un libro caduto sul pavimento la fece sobbalzare, obbligandola a indirizzare lo sguardo verso terra, dove si erano sparsi alcuni fogli scritti a mano con pregevole calligrafia, esaltata ancor di più dall’inchiostro nero.

    Raccolse prima il libro poggiandolo sugli altri, quindi i fogli che decise di tenere in mano giusto per ammirare la perfezione del corsivo. Facendo scorrere lo sguardo, all’improvviso lesse: Testamento Olografo di Rolando Fragalà.

    Colta alla sprovvista fu percorsa da una vampata di calore lungo il corpo che lasciò subito il posto a una serie di formicolii che si fermarono sulle dita delle mani. Mentre il suo cuore continuava a battere all’impazzata, girò gli occhi verso la porta soffermando lo sguardo sulla maniglia, aguzzò l’udito per essere sicura che nessuno si avvicinasse, quindi sforzandosi di mantenere la calma incominciò a leggere con avidità.

    Tutti i beni mobili e immobili della famiglia erano elencati con una precisione sorprendente e sconcertante.

    Ogni mobile, soprammobile o ninnolo era descritto con dovizie di particolari. Erano riportati il colore, il materiale, persino l’epoca di costruzione in alcuni casi. Non ci potevano essere dubbi sull’individuazione.

    Per ogni casa era descritta l’ubicazione, il numero di vani, l’anno di costruzione, l’anno di acquisto, i lavori eseguiti, la rendita effettiva, il tutto accompagnato dalle rispettive particelle catastali. Era un elenco che sembrava non avesse una fine.

    Persino per il vigneto della Struncata, che era il fiore all’occhiello della casa vinicola della famiglia, dove si produceva un rosso da dare ai moribondi per farli resuscitare, oltre a tutti i dettagli catastali era riportata l’esposizione, l’elenco delle rasole, il numero di filari, il totale delle botti di castagno e il numero di bottiglie che potevano contenere le cantine.

    Alla fine della descrizione di ogni bene veniva menzionata la sua volontà di trasferimento agli eredi: questo bene lo lascio in eredità a mia nipote Teodora Greco, questo bene lo lascio in eredità a mia nipote Olinda Greco.

    Il tutto sembrava equamente distribuito tra le due nipoti senza lasciare ombre sulle preferenze di una rispetto all’altra.

    Sull’ultimo foglio ci fu però una sorpresa inaspettata che costrinse Teresa a sedersi su una poltrona.

    Era scritto: "presso il Banco di Napoli, Agenzia di Palermo, sul conto corrente n. 1374, è depositata la somma di cinquecento milioni di lire. La suddetta somma non intendo lasciarla in eredità alle mie care nipoti Olinda e Teodora Greco, perché i beni mobili e immobili che a loro ho destinato sono sufficienti per garantire una vita tranquilla e agiata.

    Possono, pertanto, considerarsi delle persone fortunate in quanto, se un giorno decidessero di non lavorare, il loro tenore di vita sarebbe sempre al di sopra della normalità.

    La cifra di cinquecento milioni di lire intendo destinarla alla persona che tra tutti riuscirà in modo tangibile, concreto e inoppugnabile a distinguersi per la nascita di una banca che dovrà essere denominata: Banca Popolare di Patanìa.

    Tale persona dovrà:

    - essere in possesso di requisiti idonei, morali e materiali;

    - fondare un Comitato Promotore che durante la fase iniziale di costruzione si farà carico di trovare almeno mille persone interessate al progetto;

    - affrontare tutte le spese iniziali;

    - avere il compito di predisporre un Atto Costitutivo;

    - occuparsi della stesura di un Programma delle Attività e dello Statuto;

    - attivarsi per formulare una previsione economico-finanziaria nell’ambito del territorio in cui andrà a operare.

    Per quanto riguarda l’ubicazione della sede legale e lo sportello operativo, questi dovranno ricadere dentro il Comune di Patanìa.

    L’intera cifra di cinquecento milioni di lire per un periodo di un anno sarà versata nelle casse della nascitura banca che godrà dell’usufrutto. Solo dopo tale periodo potranno essere prelevati cento milioni di lire ogni anno a titolo di compenso personale.

    Colui che avrà fondato la banca, che avrà posseduto tutti i requisiti sopra menzionati e che avrà convinto l’opinione pubblica a partecipare in modo attivo e concreto all’iniziativa in questione attraverso la raccolta dei fondi necessari, potrà disporre liberamente della cifra in oggetto che offro senza alcuna contropartita.

    Nella nostra terra, così povera di individui idonei a lasciare un’impronta visibile nel mondo economico, una persona capace di coagulare interessi diversi canalizzandoli verso un obiettivo utile per la comunità sarà degna di possedere la cifra di cinquecento milioni di lire anche se nell’arco di sei anni.

    Qualora più persone dovessero vantare il merito di essere i promotori principali per la nascita della banca, nomino il notaio Labadia Carmelo, il medico Giuttari Francesco e il farmacista Pellicano Giuseppe a esprimersi sul più meritevole."

    Patanìa, stesso giorno

    Nei pressi del campo sportivo di Patanìa, culo e camicia col suo muro di cinta, c’era un gruppo nutrito di case popolari disposte in fila indiana una accanto all’altra, dove vivevano i più bisognosi del paese. Che non erano pochi.

    Osservata dal di fuori, l’area istintivamente trasmetteva una sensazione di abbandono, come se lì ci fosse stato l’epicentro di un forte terremoto che aveva lasciato in dote un assembramento di sfollati e tanti danni materiali.

    Tra una casa e l’altra c’erano disseminate cataste di spazzatura maleodorante in mezzo alle quali bambini in pantaloncini corti e sporchi scorrazzavano in lungo e in largo. Gli intonaci qua e là erano staccati e davanti ai balconi su lunghi fili di ferro c’erano appesi mutande, lenzuola, maglie e calze.

    Anche le bagnarole piene di terra in cui erano piantati prezzemolo e peperoncino e qualche vecchio in canottiera, seduto davanti all’uscio di casa con la sigaretta in bocca, erano il biglietto da visita della precarietà.

    La cultura, l’eleganza e la raffinatezza non rappresentavano le armi migliori della comunità, anzi lasciavano volentieri il posto a qualche calibro nove e alla volgarità, ben stigmatizzata dall’incalzare quotidiano di bestemmie e parolacce.

    Il più istruito aveva la terza media, mentre i più ignoranti la scuola l’avevano toccata solo di striscio. Praticamente erano entrati dal portone ma erano subito usciti dalla finestra.

    Teresa Velonà era alla guida della sua bicicletta, una Legnano femminile nera, che la stava portando, come faceva tutti i pomeriggi alle quattro, verso casa. Nella sua andatura dinoccolata dava l’impressione a chi la guardava di pedalare sospesa nell’aria, perché le grosse natiche coprivano totalmente il sellino, che sembrava fosse stato tutto risucchiato dal culo.

    Teresa appena fu in prossimità delle case popolari si fece largo tra un nugolo di bambini che stavano correndo dietro a una palla sgonfia, superò il primo e il secondo edificio, svoltò l’angolo e arrivò veloce davanti al suo portone dove vide raccolto mezzo vicinato.

    Tra la folla quella che teneva maggiormente banco era la magara, in pratica la sua dirimpettaia, così chiamata perché era perennemente vestita di lutto. La spiegazione di questa sua scelta era abbastanza semplice e stava tutta racchiusa nel rispetto dei legami di sangue e soprattutto delle tradizioni.

    Appartenendo a una parentela che tra fratelli, sorelle, cognati, zii, nipoti e cugini contava qualche centinaio di persone, almeno una volta all’anno capitava che qualcuno morisse. Anche se le nascite superavano i decessi lei non faceva in tempo a dismettere gli abiti neri per indossare quelli colorati che subentrava un nuovo morto. Questo ruolo, comunque le calzava a pennello, tanto da essere richiesta, dietro compenso, come persona affranta dal dolore anche in funerali di estranei.

    Una sola volta, trascorso giusto un anno dall’ultima scomparsa di un parente, il marito le impose di vestirsi di rosso, ma appena fece la sua apparizione per la strada non ebbe il tempo di percorrere più di cento metri che arrivò subito l’ennesima tragica notizia.

    Tra la "magara" e Teresa c’era un’antica e autentica mal sopportazione reciproca.

    La prima reputava l’altra troppo fortunata perché aveva la possibilità di vivere tra i nobili in un palazzo signorile e non perdeva occasione per rimarcarle che presto o tardi il Signore si sarebbe stancato di dare solo a lei l’obbligo di indossare il fazzoletto nero.

    Teresa da parte sua la esponeva al pubblico ludibrio, additandola come autentica menagrama per i tanti caduti che lasciava sul campo.

    Però, nonostante i suoi trascorsi, non la temeva e, anche se la storia della comunità annoverava tanti episodi documentabili, aveva il coraggio di affrontarla sempre a muso duro ed era l’unica a farla arretrare.

    Quando perdeva le staffe, Teresa la riempiva di ingiurie e le lanciava invettive di ogni genere senza preoccuparsi di eventuali ritorsioni malefiche.

    Però appena parlava, soprattutto se era nervosa, la lingua si incagliava e le parole che uscivano dalla sua bocca si accompagnavano anche a un accenno di sibilo fastidioso.

    Non mi offendo per quello che dici le ripeteva ogni volta la ‘magara’ quando si bisticciavano perché quando parli non ti capisco. Gesù Cristo ti avrebbe fatto una grazia se ti avesse fatto nascere totalmente muta, così almeno ti spiegavi con i segni.

    Alla donna in lutto, invece, i vicini di casa tributavano il massimo del rispetto e nessuno si sarebbe mai sognato di contraddirla, ben sapendo che se l’avessero fatto presto o tardi avrebbero pagato le conseguenze.

    Ora ti sciali, il tuo Ninuzzo lo stanno arrestando le disse la magara con un ghigno malefico e con una punta di soddisfazione appena la vide scendere dalla bicicletta da te ci sono i carabinieri, è da più di un’ora che sono dentro. Sicuramente si tratta di una cosa seria altrimenti non stavano tanto. Chissà cosa ha combinato il tuo cuginetto. Si vede dalla faccia che non è una persona di palazzo.

    Teresa varcò di corsa il portone della sua casa senza darle confidenza e arrivò come un fulmine sino in cucina da dove provenivano le voci.

    Intorno al tavolo erano seduti placidamente Ninuzzo e due carabinieri, uno originario di Canicattì, che tentava di fare l’interprete, e l’altro di Tarcento, un paese del Friuli, che cercava di spiegarsi.

    Ninuzzo aveva in mano un bicchiere di vino, il carabiniere di Canicattì un bicchiere di acqua e l’ultimo, quello di Tarcento, niente perché in servizio non poteva accettare neanche l’acqua.

    Cosa è successo? esclamò Teresa in stato di agitazione, rivolgendosi a Ninuzzo. Perché ci sono i carabinieri a casa mia, cosa hai fatto?

    Niente, niente, se ne stanno andando, è tutto risolto. Puoi fare a meno di preoccuparti, non vedi? Anche se uno tra i due è straniero, siamo diventati quasi amici rispose Ninuzzo alzando il bicchiere colmo di vino.

    Qual è il motivo della vostra visita disse Teresa rivolgendo al più carino tra i due, quello di Tarcento.

    Signora dalla caserma Portolesi di Napoli ci è arrivato un fonogramma in cui ci viene intimato di arrestare un tale Antonino Denaro per renitenza alla leva. Sono passati, infatti, i cinque giorni di tolleranza, per cui scatta l’arresto! Vostro marito… esclamò il carabiniere.

    Non è mio marito! rispose con voce suadente Teresa, facendo pure gli occhi dolci è solo un mio cugino!

    Mi scusi, continuo a sbagliare rispose il militare praticamente siamo venuti qua a prenderlo e arrestarlo, ma invece di un diciottenne ci siamo trovati davanti un uomo maturo con qualche capello bianco. Era palese che ci doveva essere un errore, uno scambio di persona. Per mezz’ora ho continuato a dirgli di consegnarmi la carta d’identità perché si trattava sicuramente di omonimia e per mezz’ora lui mi ha ripetuto che era innocente.

    All’inizio è stato un incubo, non c’era verso di intenderci aggiunse Ninuzzo ho sudato freddo! Questo biondo non sembrava italiano. Continuava a ripetermi se ero penitente quando mi alzavo. Ho risposto che qualche volta quando mangiavo pesante poteva essere. E più cercavo di spiegarmi e più questi si incazzava. Meno male che poi alla fine ci siamo capiti.

    "Signora, intendevo dirgli che si trattava di renitenza alla leva. E lui continuava a gridare che era pulito, che era innocente e che la renitenza alla leva poteva averla solo quando mangiava pesante. Roba da matti! Gli ho fatto bere un goccio di vino per tranquillizzarsi e poi è intervenuto il mio collega

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