Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Una tonalità più bianca del pallido
Una tonalità più bianca del pallido
Una tonalità più bianca del pallido
E-book317 pagine4 ore

Una tonalità più bianca del pallido

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Sullo sfondo del tramonto degli anni di piombo, nell’entroterra siciliano, due ragazzi cresciuti insieme vivono appieno il Settantasette.
Le loro vite prenderanno strade diverse, figlie o meno della loro epoca.
I loro sogni adolescenziali, gli amori, le sofferenze, gli ideali, i desideri più morbosi e reconditi… subiranno l’inesorabile scorrere del tempo.
 
LinguaItaliano
Data di uscita22 feb 2021
ISBN9791220267526
Una tonalità più bianca del pallido

Correlato a Una tonalità più bianca del pallido

Ebook correlati

Fumetti e graphic novel per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Una tonalità più bianca del pallido

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Una tonalità più bianca del pallido - Manuel Di Maggio

    MANUEL DI MAGGIO

    Una Tonalità Più Bianca del Pallido

    PROLOGO

    (da qualche parte a Catania, Primo settembre del 2016, ore 10.30)

    «Il mondo non ci osserva. Non sa quanto davvero teniamo a lui».

    Avevo appuntato questa frase da qualche parte. Forse era su una mia vecchia agenda delle scuole medie o del liceo. Tra i tanti scarabocchi con cui riempivo i miei diari e le mie agende, quella frase avrebbe dovuto servire da apripista a un romanzo.

    Da bambino era il mio sogno. Alle scuole medie scarabocchiavo gli angoli del mio abecedario con degli appunti provenienti dal mio emisfero creativo. Avrei tanto desiderato usarli. La maggior parte di essi era senza senso, piena di rimandi e di abbreviazioni, chiarissime per il me che scribacchiava in quegli istanti ma indecifrabili una volta che crebbi. La grafia dei dottori non avrebbe retto il confronto con quei miei papocchi.

    Quando coronai il mio sogno, quando la mia epopea da romanziere cominciò, il ricordo di quegli appunti, a distanza di trent’anni, durò giusto il tempo necessario a rendermi conto che quella frase, forse, non avesse un minuzzolo di senso.

    Forse perché mi ero trasformato in una palla di lardo che poltriva sulla pallida poltrona del mio studio. Forse perché il rimanere seduto per giornate intere a scrivere, ingozzandomi di schifezze caramellate mi aveva portato il diabete. Forse a causa delle settimane che avevo passato ascoltando lo strazio dei giovani eroinomani con le braccia bucherellate che, malvolentieri, si trascinavano al Sert. In parte furono queste le ragioni che trasformarono quel mio stare seduto a causa del lavoro, in uno stare seduto a causa del diabete.Ero un sessantenne stanco, pigro e un po’ troppo rubicondo. Ma non fate l’errore di pensare a me come allo stereotipo dell’autore obeso, calvo, con la giacca in tweed e la pipa.I capelli non li ho mai perduti e sono stato vent’anni a correre. Pur di mantenermi in forma le ho provate tutte, eppure, alla fin fine, il malanno ha bussato al mio portone.

    Lothar, il protagonista dei miei romanzi per bambini che creai a metà anni Novanta, stava riscuotendo un discreto successo, tramutandomi ben presto in un romanziere di caratura dignitosa, abile a parlare con i fanciulli. L’avevo creato su suggerimento di mia moglie Giovanna, alla quale proposi un estratto da Lo Scrigno Nascosto, mio primo libro. Era la solita storia del cavaliere senza macchia né paura, ma con un sapore più picaresco, quasi alla Don Chisciotte. «Perché non lo trasformi in un animale?», mi domandò. Io pensai che la sua idea fosse scontata, tuttavia, durante una notte in cui mi accartocciai nel letto a causa di un calcolo renale, ebbi l’illuminazione: Lothar sarebbe stato un grillo adornato come i cavalieri medioevali in un mondo lillipuziano abitato da insetti.

    Giunto alla terza opera della saga, l’impellente richiamo di un libro che raccontasse qualcosa di diverso, magari più personale, si fece sempre più forte.

    Nel 2002, tra una seduta riabilitativa e la somministrazione di metadone ai miei pazienti, mi capitava di fare un salto a Catania settimanalmente per tenere lezioni come professore associato all’università. Non ci andavo in macchina per evitare il traffico, pertanto, passando la mattinata sull’autobus, il mio tempo libero aumentava a dismisura.

    A quel tempo, il celeberrimo scrittore Ottavio De Silvestri, mio più vecchio amico, era balzato nuovamente sulla bocca di tutti per merito del suo Nebbie dal Sottosuolo, romanzo con cui si presupponeva che avrebbe vinto il premio Strega. Era un libro brillante, personale, forte e deciso, capace di scagliarsi a spron battuto contro la crudezza del mondo politico e della società.

    Ottavio aveva passato anni a raccontare le vite dei poveri disadattati dell’Est Europa, guadagnandosi ben presto l’appellativo di «radical chic» presso i suoi detrattori. Tra di loro, non ne faccio mistero, figuravo anche io. La sua presenza mediatica, in quegli strambi anni Novanta, era stata sin troppo pressante; lo si poteva udire in radio quanto osservare alla televisione tre giorni su sette a settimana, sempre pronto, con il suo sarcasmo e la sua boria, a dispensare giudizi su ciò che accadeva nel nostro Paese, per poi scrivere romanzi zeppi di retorica che parlavano della Cambogia, dello Zaire, etc.

    Tuttavia, in quell’ormai lontano 2002, Ottavio sparì dalla circolazione. All’apice del successo, tra processi per diffamazione, accuse di violenze domestiche e un mancato premio Strega, Ottavio tagliò i collegamenti con il mondo esterno.

    Poco prima della sua scomparsa dalle scene, io e lui avemmo un litigio che pose fine alla nostra quarantennale amicizia, pertanto, le vere motivazioni dietro a quella sua scelta, per me, rimarranno sempre un mistero.Tuttavia fu quell’evento che mi spinse a riprendere quella frase, tentando magari di darle un senso o, quantomeno, una direzione.

    Titolai con Tornare in Sé quei fogli protocollo che tentai di riorganizzare all’interno della mia borsa in cuoio. Era un titolo provvisorio, memore della mia esperienza da psichiatra, giacché, tentai di approcciarmi in modo pressoché identico alla stesura di quel libro, diagnosticando me stesso come facevo con i pazienti che cercavo di curare. Io per primo, in qualche modo, cercavo di «tornare in me», tuttavia, ciò che emerse da quegli appunti, inizialmente, fu tutt’altro. Quasi una spasmodica ricerca di un senso a quei vent’anni di vita che erano passati dopo la maturità.

    Quando giunse l’estate, tuttavia, quelle pagine non ebbero più nessun seguito. Una volta ripresi i miei viaggi a Catania in ottobre, dimenticai persino dove avevo riposto quei fogli protocollo.

    Alla fine, l’unica risposta che seppi darmi fu semplice: si trattava del classico romanzo che ogni scrittore possiede; pregno di risposte che neppure sai quali possano essere, privo di una forma canonica e, soprattutto, di una vera e propria fine. Non sarei mai riuscito a completarlo e, benché a rileggere questa mia frase, a voi lettori possa sembrare una scusa, me ne convinsi davvero.

    Quella frase, a ben vedere, a distanza di quarant’anni, mi appare come qualcosa di insensato, che neppure la morte di Ottavio, avvenuta nel 2010, mi ha aiutato a comprendere. Ci avevo pensato, a esser sinceri. Quando misi mano agli scatoloni che erano rimasti in cantina durante il mio trasloco a Catania, trovai dei lercissimi fogli protocollo e pensai che potessero essere quelli, ma mi sbagliavo. Forse li buttai nel cestino, oppure pensai bene di bruciarli come Kafka. Non saprei, ma sapere che non c’erano più era una liberazione.

    Quel romanzo era morto lì, come ogni mio tentativo di dare una svolta a una vita che avevo vissuto sempre allo stesso modo, senza avvedermi del tempo che passava. Fu un’ennesima dimostrazione, qualora ve ne fosse stato il bisogno, che io fossi un verghiano quaquaraquà, così come proprio Ottavio mi ebbe a definire nei giorni in cui avevamo da poco dismesso i calzoni corti.

    Il mio nome, negli anni, aveva acquisito sempre più risonanza presso gli amanti di romanzi fantastici per bambini, tanto che il mio editore, Pennisi, mi propose persino di lavorare a un fantasy per giovani adulti. Nel profondo sapevo che il genere non mi apparteneva, ero conscio di scriverlo per diletto, ma non ebbi mai la forza di superare quegli schemi per dedicarmi a qualcosa di mio. Tuttavia, con il crescente consenso dei miei libri, alcune personalità di rilievo iniziarono a smetterla di identificarmi come «l’amico di Ottavio De Silvestri», riferendosi a me come «dottor Pasquale D’Amato, scrittore fantasy», etichetta che non amavo.

    Pertanto, cari lettori, sono consapevole che l’unica domanda che vorreste pormi è: «che cosa ci stai raccontando?».

    Beh, questa è la storia di come una semplice intervista cambiò il mio modo di vedere quella frase.

    Marzani, il capoccia della casa editrice omonima, era amico stretto di Ottavio e, nel 2016, frattanto che mi crogiolavo con la poltrona del mio studio, inzuppandola di sangue per via delle piaghe da decubito, mi telefonò affermando che, i primi di settembre, mi avrebbe fatto visita uno scrittore della sua casa editrice. Voleva pormi delle domande su Ottavio, giacché, ben presto, la sua monografia avrebbe fatto parte di una raccolta organizzata proprio dall’editrice romana sui migliori autori italiani degli ultimi cinquant’anni.

    Non mi dispiaceva passare ancora una volta per «l’amico di Ottavio», tuttavia, quando seppi il nome dello scrittore che mi avrebbe intervistato, sul mio volto si materializzò un sogghigno di diniego: Flavio Cutolo. Il pelatone milanese che conduceva quel tremendo programma su Rai 3. Uno di quegli scribacchini da libercoli pregni di filosofia spicciola e di frasi sulla vita e sulla nostalgia posticcia dei tempi di Sposerò Simon Le Bon. Tutte sciocchezze che a me sembravano paragonabili al dire «l’acqua è bagnata».

    Giunse il primo di settembre a Fontanarossa, prese un tassì e arrivò a casa mia alle dieci e mezza. Alto, emaciato, con la luce mattutina che gli si rifletteva su quella palla da biliardo; portava un paio di occhiali da sole alla Arrigo Sacchi e un ascot sotto la camicia alla Michael Corleone che gli conferivano un’aria da artista da strapazzo. Percorse il vialetto ciottolato e suonò il campanello. Giovanna era in cucina a preparare degli aperitivi, pertanto mi diressi io ad aprirgli e, come prima cosa, gli dissi un secco:

    «Vada via».

    Sorrise come un americano davanti alla sua terza porzione al McDonald’s e mi disse:

    «Dottor D’Amato, buongiorno. Il signor Marzani non le ha detto dell’appuntamento?»

    «La prendevo solo in giro, Cutolo. Sa, com’è, tra lei, scribacchino di quart’ordine e un piazzista, a dirla tutta, non vedo granché differenza».

    «Lei è un simpaticone», mi rispose mantenendo quel suo sorriso.

    Lo lasciai sulla porta e gli diedi la possibilità di terminare la sua sigaretta, benché la gettò appena a metà, dopo non aver neppure aspirato.

    «Lo sa che trent’anni fa, se avessi speso tremila lire per fumare un pacco di sigarette come ha fatto lei, mi sarei sentito uno sprecone? Mio padre mi avrebbe picchiato».

    «Anche lei è un nostalgico dei tempi in cui avevate pochi soldi?»

    «Di certo non lo sono come lei che comincia i suoi libri scrivendo ci divertivamo un botto di più a Rogoredo negli anni Ottanta».

    Tentò di varcare la soglia di casa mia. Lì per lì tentai di bloccarlo, inventandomi un calo di glicemia improvvisa, ma non avrebbe avuto senso; sarebbe ritornato un altro giorno, e il suo entourage mi avrebbe riempito di telefonate come accaduto nelle settimane in cui parlammo per organizzare quell’incontro.

    Si accinse a entrare ed io, a fatica, gli indicai il mio studio in fondo al corridoio. Lo raggiunse frattanto che sproloquiava su quanto egli fosse bravo e quanto il suo insulso programma fosse seguito:

    «Marzani ha pensato a me per lavorare questa monografia. Mi ha paragonato a De Silvestri, definendomi il suo scrittore di punta».

    «Se lei è la punta, non voglio immaginarmi tutto il resto», risposi.

    Cutolo ridacchiava continuamente, i miei insulti servivano a poco. Si lasciò cadere sul divanetto che si trovava accanto alla poltrona del mio studio, osservò le mura dello stanzino e quasi si stupì che fossero ricolme di libri.

    «Quanti volumi e volumetti», affermò.

    «Sì, ha ragione. Sa, com’è? Chi scrive, in teoria, dovrebbe leggere».

    «Io preferisco gli e-book. Li trovo più comodi, soprattutto perché non sono costretto a portarmi malloppi di carta appresso durante i miei viaggi».

    «A ben vederla, credo che non se li sarebbe portati a prescindere».

    Giovanna varcò la porta con in mano il vassoio, lo poggiò sul tavolinetto di vetro e, chinandosi verso di Cutolo, gli porse la mano per presentarsi. La scrutai con i miei occhi sfibrati e diabetici, spingendola in cucina con lo sguardo. Ormai, dopo ventisette anni di matrimonio, non si poneva più il problema di chiedermi cosa volessi dirle quando la fissavo intensamente.

    Cutolo sorseggiò il Crodino e assaggiò un po’ di arachidi prese dalla ciotola posta sul vassoio, poi, ancora con la bocca piena, mi domandò se avessi preparato qualche appunto.

    «Niente di che», risposi. «Solo qualche data. Ho pensato più volte di scrivere qualcosa del genere. Un romanzo, una monografia… qualcosa che ripercorresse gli ultimi decenni».

    «Con un senso di nostalgia?»

    «Non sono come lei, Cutolo. E non sono neppure come Ottavio. Lui era un vero scrittore».

    «La prego, mi dica la differenza che c’è tra lei, me e De Silvestri».

    «È un pensiero che macino da anni nei meandri della mia mente. La risposta che ho trovato è questa: lei e io siamo degli scrivani, lui era uno scrittore. Io e lei trascriviamo idee dalla nostra mente, lui no».

    «Quindi lei si paragona a me?»

    «Se considera che io non ho mai studiato, che sono autodidatta e che lo faccio per diletto, sì. Di certo non penso di poter insegnare ai ragazzi di provincia a vivere come fa lei, Cutolo. Io mi sento più onesto. Trascrivo le mie idee. Lei fa lo stesso, tuttavia li spaccia per insegnamenti filosofici».

    «E De Silvestri? Lui non trascriveva idee sue?»

    «Lui scriveva idee sue valide per tutti. Lui non tramutava in parola il suo pensiero, bensì quello di tutti».

    «Percepisco una punta d’invidia?»

    «No. Da giovane, quando anche io avrei voluto essere uno scrittore, invidiavo la sua facilità nello scrivere».

    «Pensò lo stesso anche dopo le controversie scaturite all’indomani della pubblicazione di Nebbie dal Sottosuolo?»

    «Il premi Strega del 2002 rimarrà per sempre suo. Poche chiacchiere. Quel libro era la summa della sua vita. La sua monografia dovrebbe partire da quel romanzo».

    «Non puoi non voler bene a chi ti vuole bene

    «Sì, perché no. Quella citazione rimase impressa nella mente di chiunque, anche se io ho sempre detestato le citazioni. Tuttavia, in quella famosa frase che poi continua, c’è tutto il senso della carriera di Ottavio».

    «Suppongo ci sia un riferimento alla sua… alla vostra infanzia».

    «Senza dubbio. Da piccoli, a Santa Bibiana al Monte, io e lui eravamo inseparabili».

    Quell’intervista sarebbe andata avanti per delle ore. Tuttavia, ciò che davvero mi spinse a rivisitare la mia visione su quella frase, e su tutto ciò che si portava dietro, quasi inaspettatamente, fu una domanda che mi porse Cutolo dopo aver preso il taccuino:

    «Che tipo di rapporto avevate?»

    PARTE PRIMA

    I calzoni corti
    (fine anni Sessanta – primi anni Settanta)
    1

    Come detto, il mio più vecchio desiderio era scrivere. E fossi stato meno dispersivo, forse ci sarei riuscito. Ma che ci volete fare? Da piccolo ti crescono con l’idea che il bel mondo in cui hai sempre sperato arriverà. Ti crescono con l’idea che tutto ciò che fai, che hai o che credi di saper fare, è perfetto. Pertanto, seguendo questa logica, la mia memoria era perfetta, non avevo bisogno di catalogare tutti quei miei pensieri e quei miei appunti; li avrei ricordati, in qualche modo.

    «Il mondo non ci osserva». Ma cosa voleva dire quella roba? Come può un ragazzo pensare a una cosa del genere? Staccando continuamente calendari dal muro ho finito per chiedermi più questo che il significato in sé di quell’esternazione.

    Solo leggendo Nebbie dal Sottosuolo di Ottavio ho potuto capire che cosa stessi tentando di dire. Quella sorta diaforisma aveva il potenziale per diventare qualcosa.

    Come detto, sarebbe potuto diventare l’incipit di un romanzo. Un romanzo diverso da ciò che ho narrato in questi vent’anni. Diverso da Lothar, il primo personaggio che creai per i miei scritti fantastici.

    Avrebbe potuto tramutarsi in qualcosa di forte, di mio, di profondo.

    Invece, come il cadavere di uno schiavo sconosciuto nell’antica Grecia, quella frase fu interrata all’interno della fossa comune dei miei pensieri obliosi.

    Non so perché la sotterrai lì in mezzo.

    Fu come sepolta dagli studi e da tutto ciò che accadde dopo. Sepolta dal mio pallido camice e da tutti quegli sbarbatelli non ancora svezzati che mi chiedevano il metadone.

    O forse fui io a seppellirla una volta che gli anni Settanta cedettero il passo.

    Mi sono sempre chiesto il motivo per cui la gente tende a dimenticarsi di quella decade. Laddove gli anni Sessanta appartengono ai nostalgici più attempati, gli Ottanta sono per quelli meno grigi in testa, ma entrambi sono accomunati da qualcosa. Un mutuo spirito di condivisione che unisce i settantenni e i cinquantenni a cantare in lacrime tanto Mia Martini quanto George Michael.

    Di quelli della mia generazione, cresciuti alla fine degli anni Settanta, se ne parla poco o nulla. Se non ci fossimo noi a imporci, probabilmente sarebbero stati trascurati in eterno, sino a cadere nell’oblio più assoluto.

    A Santa Bibiana Al Monte, il mio paesino, le giornate trascorrevano lente come in ogni paese dell’entroterra siciliano. E so cosa state pensando. La Sicilia, il mare, il sole... toglietevelo dalla testa. A Santa Bibiana il mare era distante un’ora con la Giardiniera di mio papà.

    Il Sole lo riuscivamo a scorgere solo a fine giugno. In inverno, in autunno, in primavera – e durante tutte quelle altre sei o sette stagioni fredde e umide che si percepiscono quando il tempo è una merda – a Santa Bibiana imperava la nebbia.

    Da piccolo, quando mio papà mi portò al cinema per vedere Totò, Peppino e la… Malafemmina, ricordo che rimasi perplesso nel vedere che Totò e Peppino non sapevano cosa fosse la nebbia – al punto da scambiarla per una sorta di entità invisibile –. Se, in quell’istante fossi uscito dalla sala, avrei potuto spiegarglielo.

    Come si dice? «Agustu, rrigustu, capu d’immirnu». Passato il ferragosto, quando il sole cominciava a sonnecchiare dalle sette, e la malinconia per il tanto abborrato ritorno sui banchi affiorava, sapevamo che quella singola goccia di pioggia poggiatasi sulla finestra voleva dire «giornale orario, domani nebbia».

    «Giornale orario. Ieri, 29 settembre...» Sì, alle volte mi sento nostalgico anch’io. Avrei compiuto otto anni da poco quando uscì quella canzone. Papà lavorava in un negozio di dischi all’epoca – percepisco la vostra difficoltà nell’immaginare un negozio di dischi, tuttavia, a quei tempi, esistevano davvero –. Lui metteva sempre un paio di monete di lato per pagare un quarantacinque giri al suo datore di lavoro. Tornava a casa con i brani più in voga del periodo. Quei quarantacinque giri, per noi gente modesta, erano oro. Quando papà li poggiava sul piatto e muoveva la puntina, era festa. Non avevamo ancora la televisione, non potevamo permettercela. Ascoltare quelle canzoni era il nostro unico modo per sentirci parte dell’attualità.

    Non sarà stata proprio 29 Settembre, ma fu comunque una canzone a iniziare il periodo più intenso e incredibile della mia vita. L’epoca in cui Ottavio ed io diventammo amici inseparabili. Tutto ciò per cui ho tentato di capire cosa volesse dire quella mia frase. Un periodo su cui ho pensato tante, troppe volte, di scrivere un libro che non fosse il mio solito romanzo fantastico. Il periodo dal quale, invece, Ottavio attinse a piene mani per scrivere Nebbie dal Sottosuolo.

    Negli anni Sessanta, dopo decenni di fredda austerità, i britannici si lasciarono ispirare dagli statunitensi per creare i gruppi musicali «bestie». Apparvero i Monkees, i Beatles, i Kinks, gli Yardbirds, ecc. Noi italiani, pertanto, decidemmo di non tirarci indietro. I Pooh, i Nuovi Angeli, i Corvi, i Samurai, i Ribelli, i Camaleonti… i Dik Dik. Da questi ultimi voglio partire per raccontare la mia storia.

    Sebbene quel loro famigerato brano fu depositato nel ’67, arrivai a scoprire l’esistenza di una versione originale inglese solo qualche anno dopo. Leggere il testo tradotto fu sconcertante.

    We skipped the light, fandango

    Ho spento già la luce

    "As the miller told his tale

    that her face turn, at first ghostly

    turned a whiter shade of pale"

    "Guardo lassù

    la notte

    quanto spazio intorno a me

    sono solo nella strada

    Insieme a te. Insieme a te"

    Ricordo bene che scoprimmo l’esistenza di A Whiter Shade of Paledei Procol Harum solo nel ’71. Un capolavoro.

    Non erano neppure tre anni che studiavo pianoforte, e con mio padre che rincasava spesso con quarantacinque giri nuovi, adoravo la musica. Avrei passato giornate intere con il giradischi accanto alle orecchie frantumandomi i timpani. Avrei sanguinato dagli occhi infilandoli nello scomparto per le puntine pur di capire come funzionassero. La musica era tutto ciò che potevo comprendere. Era come un porto sicuro; un circondario fatto di amici. Quella canzone dei Procol Harum, ascoltata in inglese dopo anni di sentire quella sciatta Senza Luce, era come quando rimani per ore fisso davanti a un camino.

    C’era solo un piccolo problema. Il pianoforte lo detestavo. Non mi piaceva per niente. Mi sembrava uno strumento stupido, privo di qualsiasi espressività. Mi sentivo limitato con quegli spartiti di Chopin e Beethoven da dover imparare. Quando sentivo gli organi Hammond che dilagavano nella musica dell’epoca, provavo a riprodurre quelle parti al piano. Per farla breve, era come ascoltare Enrico Caruso e provare a imitarlo con la voce rauca. L’organo aveva un suono così squillante e aguzzo che il pianoforte poteva solo sognarsi.

    Come se non fosse stato abbastanza, davanti ai miei occhi un altro strumento si era materializzato come una donna succinta e seducente. Il negozio di elettrodomestici di via Matteotti metteva sempre in vetrina delle televisioni. Mesi prima era passato a miglior vita un tale americano di nome Jimi Hendrix; quel servizio del telegiornale dove lo si vedeva suonare la chitarra mi fece drizzare i peli a livelli mai visti prima. «Sacchi vidi voli» (quel che vede vuole), rispose mio padre qualche minuto dopo, frattanto che lo imploravo di comprarmi una chitarra.

    Non era un capriccio il suo. È probabile che non si fidasse delle mie qualità da musicista al punto di mettere un gruzzoletto da parte per comprarmi uno strumento, tuttavia fui costretto ad accontentarmi del pianoforte della Zzé Pippina, una vedova settuagenaria che ne possedeva uno da parete. Abitava proprio in via Matteotti, poco dopo il

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1