Cooperazione e comunità: Fare cooperazione sociale di comunità
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Sotto l’egida della autogestione, che affonda le radici nella comunità interna, è possibile in tal modo coniugare partecipazione democratica, efficienza imprenditiva con l’efficacia nell’azione realizzata.
Per isomorfismo virtuoso il mutuo appoggio, la relazione solidale, comunitaria interna alle cooperative sociali può riflettersi nelle relazioni di aiuto attuate con le persone in difficoltà, nella tessitura di reti solidali e di prossimità esterne.
Altrettanto dicasi nella costruzione di network collaboranti, non competitivi, con le altre organizzazioni del no profit, le pubbliche amministrazioni e istituzioni preposte, le imprese profit più socialmente responsabili (co-programmazione-coprogettazione-cogestione).
Significa fare comunità in un territorio (sia esso un Distretto o una Unione di Comuni) assieme agli attori importanti per l’inclusione di persone fragili e vulnerabili, generando sviluppo eco-compatibile e opportunità di impiego anche per i meno occupabili, ad es. nella gestione dei beni comuni.
Auspicabilmente si possono costituire cooperative di comunità, per la regione Emilia Romagna di natura sociale, che potrebbero integrare come membri sia persone fisiche che enti rilevanti sui territori di insediamento.
In questo caso è la comunità esterna ad ogni impresa sociale che definisce le caratteristiche specifiche e l’oggetto sul quale impegnarsi, per il quale trovare le sinergie più adeguate e promettenti.
Dalla comunità interna in una cooperativa alla comunità esterna che si fa cooperativa sociale di comunità! Il cerchio si chiude in modo virtuoso, secondo reciprocità ed economia solidale, circolare.
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Anteprima del libro
Cooperazione e comunità - Leonardo Callegari
L’autore
Presentazione
di Everardo Minardi
¹
I mutamenti necessari nel sistema di Welfare, da un lato, e il ritorno alla radice comunitaria della cooperazione, dall’altro, costituiscono i nodi della riflessione che l’autore sviluppa a partire dalle criticità ormai strutturali che si manifestano in contesti sociali, quelli del benessere
, lontani dalle rappresentazioni abituali a cui siamo abituati.
La manifestazione di una crisi strutturale dei sistemi di Welfare si evidenzia proprio per la prevalenza, anzi la invadenza della logica sistemica di una organizzazione dei servizi sanitari e sociali che si è data una struttura verticale. Questa parte da una configurazione dominante dei servizi medico sanitari per arrivare ad una dimensione distribuita e diffusa dei servizi socio-sanitari e sociali, in realtà dispersi, privi di un vero e proprio assetto di sistema, nonchè carenti delle necessarie connessioni con la vita delle comunità nei territori, dalle aree urbane alle aree periferiche rurali e montane.
Se la organizzazione dei servizi medico sanitari evidenzia la strutturazione dei sistemi organizzativi e di funzionamento delle attività e delle professionalità forti
del settore, la varietà delle soluzioni organizzative dei servizi socio-sanitari e sociali mette in evidenza le relazioni dirette con i bisogni sociali delle popolazioni, ma al tempo stesso la disconnessione tra gli enti titolari dei servizi (dagli enti locali, alle Asp, alle Ipab e Fondazioni privato sociali, nonché alle cooperative sociali) e la pluralità dei profili professionali deboli
, privi del riconoscimento normativo necessario per le attività svolte.
Le iniziative normative ed organizzative, adottate dalle Regioni in particolare e dagli enti locali, sono in realtà ancora occasionali e carenti di una visione unitaria e integrata degli interventi da effettuare, anche e soprattutto per stabilire più evidenti connessioni tra i servizi medico sanitari e i servizi socio-sanitari.
Una situazione di debolezza strutturale ancora più critica (in alcuni casi si potrebbe parlare di una vera e propria confusione strutturale
di compiti e di ruoli) si può evidenziare nel caso dei servizi sociali, che se fanno capo alla responsabilità degli enti locali (dai più grandi ai più piccoli) evidenziano però sempre più la necessità di un rapporto stretto e continuativo con le diverse espressioni del terzo settore (dalle associazioni di volontariato, di promozione sociale, alle fondazioni sociali, alle cooperative sociali). Sono evidenti in questo caso le disconnessioni organizzative e di gestione tra i servizi forniti dai Comuni e dalle Asp e le prestazioni offerte dagli organismi di terzo settore; queste peraltro vengono indebolite anche dalla mancanza di un quadro di riferimento che definisca compiti, attività e responsabilità, nonché distribuzione degli oneri, tra i diversi attori dell’inter-vento sociale.
Si rende perciò necessario un intervento, non solo normativo, volto a riconoscere come l’attuale assetto della organizzazione dei servizi sociali non è in grado non solo di risolvere i problemi sociali di gruppi consistenti di popolazione, ma anche e soprattutto di prevenire la genesi di bisogni che tendono a divenire radicali in concomitanza con processi, come quelli pandemici, che non sembrano certamente di breve durata.
In questa direzione sembra muoversi la considerazione che Leonardo Callegari rivolge ai processi in atto di riconversione comunitaria della stessa esperienza cooperativa non solo nell’area dei servizi sociali.
Se si assiste, infatti, al crescere e al diffondersi di iniziative di start up di cooperative di comunità, cambiando l’assetto delle tradizionali cooperative di produzione e lavoro.
Con le cooperative di comunità
si rappresentano e si responsabilizzano direttamente persone, famiglie, imprese, proprietari di terreni e di immobili quasi sempre abbandonati, con il fine di valorizzare borghi, comunità, a rischio di isolamento, di marginalità pur in presenza di caratteristiche ambientali, di risorse agro alimentari e di spazi abitativi di particolare interesse.
Tutte le componenti della vita di comunità vengono coinvolte nella condivisione di qualcosa di comune, appartenente a tutti, e valorizzabili attraverso la partecipazione consapevole di tutte le componenti della comunità.
Questa prospettiva si applica con ancora più forza e coerenza nel campo della risposta ai bisogni sociali di persone, famiglie, in presenza di disabilità e di altri fattori di rischio per la vita e il benessere della comunità.
In un certo senso, sembra suggerirci Callegari, le cooperative di comunità sono di per sé sociali; se rispondono a bisogni di tutela e valorizzazione del patrimonio economico e sociale della comunità, lo fanno a partire dalla capacità di dare risposta ai bisogni sociali di persone in difficoltà, a rischio di marginalità e di esclusione sociale.
La cooperativa sociale di comunità, ci suggerisce ancora l’Autore, sembra essere oggi una pratica di vita solidale e comunitaria che riporta in tutta evidenza la vocazione autogestionaria propria di una tradizione, quella della impresa cooperativa, che ancora prima di essere impresa, è l’ambito dove tutti i soggetti di una comunità partecipano responsabilmente alla gestione di tutti i beni e delle risorse necessarie per il benessere delle persone e della comunità.
È all’interno di questo contesto che si possono generare iniziative innovative come i Centri di Operosità produttiva; e se i Cop sono la conseguenza del percorso riflessivo di Callegari, non possiamo non rimanere in attesa di altri esempi di innovazione sociale che le cooperative sociali di comunità possono presentare.
Se la cooperazione alle origini era un formidabile esempio di innovazione in campo economico e sociale, il processo di innovazione non si lega oggi solo alla tecnologia (come qualcuno sembra sostenere), ma anche al grande capitale sociale
rappresentato dalla