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John Stuart Mill e l'utopia cooperativa
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E-book245 pagine3 ore

John Stuart Mill e l'utopia cooperativa

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Durante il XIX secolo, riformatori e economisti discussero ampiamente se un sistema economico composto in prevalenza da imprese cooperative, potesse essere migliore di quello capitalistico. John Stuart Mill fu uno dei principali sostenitori del sistema cooperativo, pur riconsentendo che un capitalismo, opportunamente riformato, presentasse ancora molti vantaggi. Gli economisti hanno frequentemente ignorato queste proposte di Mill, ancorché in tempi recenti ne sia stata riproposta la lettura. Al contrario, gli studiosi di scienze politiche, hanno sempre tenuto in conto questo aspetto, ma chiedendosi se esso fosse una rappresentazione di un sistema socialista. L’Autore ripropone una lettura delle opere di Mill, dove la questione cooperativa è al centro della sua Utopia: l’avvento dello Stato Stazionario. Una situazione che propone il superamento del capitalismo, ma non assimilabile al socialismo: una soluzione ibrida.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mar 2020
ISBN9788832761160
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    Anteprima del libro

    John Stuart Mill e l'utopia cooperativa - Antonio Zanotti

    BIBLIOGRAFIA216

    INTRODUZIONE

    Nel corso del XIX secolo la possibilità di costruire un’economia basata su principi cooperativi fu molta discussa fra riformatori e economisti, ma alla fine del secolo si può dire che l’interesse si fosse già esaurito e ancora oggi l’istituto cooperativo costituisce un’area di studi, tutto sommato, periferica, nonostante si valuti che oltre un miliardo di persone al mondo siano socie di cooperative.

    Oggi, i sostenitori dell’economia cooperativa, insistono soprattutto sul suo aspetto ‘altruistico’, da contrapporsi a quello ‘egoistico’ che regge l’economia capitalistica, ma in questo modo si finisce per spostare l’attenzione sul contenuto etico, venendo meno il supporto di una teoria economica adeguata. La cooperazione viene così ridotta a una scelta volontaria, soggettiva. In questo modo il confronto fra i due modelli d’impresa, privata e cooperativa, sulla base dell’economicità gestionale, resta spiazzato, privo di significato, perché il centro del confronto è spostato altrove. Mutualità e profitto non sono più concetti economici o giuridici ma etici, dove uno diventa sinonimo di altruismo e l’altro di egoismo.

    Le cause di questa situazione insoddisfacente sono diverse. In primo luogo è necessario notare come il concetto di cooperazione sia stato variabile nel tempo. Se all’inizio del XIX secolo la cooperazione rappresentò un’alternativa alla società coeva, finì, poco a poco, per ridursi ad una semplice forma di impresa con un regime di proprietà diverso, compatibile nell’economia di mercato e, nella sua estrema formulazione, con obiettivi non diversi dall’impresa di capitale! In sintesi, la cooperazione seguì un lungo processo di ‘normalizzazione’ da cui ancora oggi stenta a liberarsi.

    Un altro motivo di confusione subentra quando il termine cooperazione tende a essere semplicemente usato come sinonimo di collaborazione, le cui radici possono tranquillamente farsi risalire all’Homo Sapiens. Fra gli antropologi è opinione diffusa che proprio la maggior capacità di cooperare fra i Sapiens permise loro di dar vita a comunità più ampie, in grado di sconfiggere le tribù rivali, avvalorando che l’azione cooperativa sia un comportamento ‘superiore’. In questo caso però è parimenti evidente che il concetto di cooperazione non è garante del fine ultimo dell’azione. Cooperare, non comporta nessuna implicazione di carattere etico; è semplicemente una forma di rapportarsi fra le persone per aumentarne la forza. Come ha scritto Harari: Il termine ‘cooperazione’ suona come qualcosa di altruistico, ma non sempre è volontario e di rado è egualitario. La maggior parte delle reti di cooperazione umana sono sempre state spinte verso l’oppressione e lo sfruttamento […] Anche le prigioni e i campi di concentramento sono reti di cooperazione e possono funzionare solo perché migliaia di estranei riescono in qualche modo a coordinare le loro azioni (Harari [2014] p. 134).

    Quando il termine cooperazione si diffuse fra i riformatori d’inizio del XIX secolo, non era questo il suo significato. Il termine cooperazione era stato coniato in opposizione al sistema economico coevo incentrato sulla concorrenza: i due termini avevano quindi un significato opposto. I riformatori sostenevano che i guai del mondo contemporaneo nascessero dal principio di concorrenza, a cui opponevano quello di cooperazione. È stato soprattutto Faquet, in un breve articolo del 1949, a sostenere questa opposizione per cui propose di abbandonare il termine cooperazione, ambiguo, a favore di cooperativo:

    La parola ‘cooperazione’ evoca, nel suo senso generale, la buona intesa, il mutuo aiuto, la solidarietà nello sforzo comune. Essa può perciò essere impiegata per le sue risonanze morali e sentimentali. Ma quest’utilizzazione assai larga della parola ‘cooperazione’ non si osserva nel caso della parola ‘cooperativo’, il cui uso ha limitato abbastanza strettamente l’impiego per disegnare le istituzioni propriamente chiamate ‘cooperative’ (Fauquet [1949] p. 43).

    Cooperazione e cooperativa sono allora termini discordi, ovvero non hanno la stessa base culturale. L’etimologia di cooperazione va ricercata nel verbo latino ‘cooperari’, cioè lavorare insieme, essa non è trasferibile col medesimo significato all’impresa cooperativa. Un dizionario francese del 1834 attribuiva il significato di cooperativo al sistema associativo di produzione creato dal filosofo inglese Owen. … a differenza degli altri derivati del verbo ‘cooperare’ la parola ‘cooperativa’ è in francese un neologismo importato dall’Inghilterra (Faquet [1949] p. 45)¹. D’altra parte se il pensiero francese avesse surclassato quello inglese, oggi, assai probabilmente, non parleremmo di cooperative ma di associazioni, termine con cui in Francia le cooperative erano indicate ancora nella prima metà del XX secolo. Secondo Faquet, quindi, l’etimologia latina aiuta poco a capire il termine cooperativa, che definisce come un neologismo, dapprima legato al progetto comunitarista di Owen, poi allo sviluppo di un sistema d’imprese diverso da quello capitalistico.

    Sino a metà degli anni 30 del XIX secolo, la forma cooperativa s’identificò con il riformismo patrocinato da Owen, ma con il declino della sua presa sul nascente movimento cooperativo inglese, questo termine si liberò di ogni significato comunitarista restando piuttosto a indicare un insieme d’imprese con regole gestionali diverse da quelle capitalistiche, che rispondevano ai bisogni dei portatori del lavoro e non dei portatori del capitale.

    Le origini dell’impresa cooperativa, come si manifesta nella seconda metà del XIX secolo, non vanno quindi ricercate nel concetto di cooperazione, come capacità di collaborazione, quanto piuttosto nel suo significato di sistema economico alternativo a quello capitalistico, basato sulla concorrenza. Nei primi decenni del XIX secolo il movimento riformista, che oggi indichiamo come socialismo utopistico, nasce con questa prospettiva. Alla sua base c’era l’idea di costruire comunità autonome di modeste dimensioni con non più di duemila persone e sostanzialmente autarchiche. Lo scopo di queste comunità era la ricerca della felicità.

    Le difficoltà di dar vita a tali comunità non solo nel vecchio mondo, condizionato da una lunga storia, ma anche nelle praterie vergini dell’America, portò il movimento ad accettare un compromesso con la società contemporanea, trasformando l’azione dalla fondazione di comunità a quelle di imprese che, per forza di cose se volevano sopravvivere, dovevano trovare un compromesso con le regole dell’economia di mercato. Inizia così la trasformazione del concetto di cooperazione che non si pone più come contrario di concorrenza.

    Entriamo nella fase di passaggio dal ‘cooperativismo,’ come organizzazione totale della società, a quella di ‘cooperazione’, come forma prevalente di impresa associata. Le difficoltà di svolgere quest’attività nella nuova organizzazione cooperativa, spinsero il movimento verso un ulteriore compromesso, restringendo la realtà cooperativa attorno al concetto d’impresa, non più comunità, né sistema di imprese, ma singolo soggetto.

    Pur con questo restringimento, l’economista A. Marshall conservò l’idea che l’impresa cooperativa avesse comunque una duplice natura: economia e sociale². Questa idea, ci pare ancora oggi prevalente, nonostante proprio allo scadere del XIX secolo l’economista italiano M. Pantaleoni cercasse di dare il colpo finale al concetto di cooperazione, sostenendo che il principio egoista della massimizzazione del proprio interesse reggesse l’impresa cooperativa al pari di qualunque altra forma di impresa privata³. In questo caso l’evoluzione sarebbe stata completa, ma i cooperatori si rifiutarono di accettare questa deriva, finendo in qualche modo per attestarsi sulla formulazione di Marshall. Al contrario, la ricerca accademica si allontanò sempre più dall’idea dell’impresa cooperativa come forma alternativa di economia di mercato, contribuendo alla decadenza degli studi sull’argomento. Solo in tempi più recenti si è assistito a un risveglio d’interesse per la conduzione delle imprese in forma cooperativa⁴.

    Questa ricerca analizza il primo di questi passaggi, quello in cui il concetto di cooperazione si trasformò dall’idea di comunità all’idea di sistema d’imprese e individua in John Stuart Mill il principale interprete di questo cambiamento.

    La ricerca si divide in due parti: nella prima parte abbiamo cercato di ricostruire l’evoluzione del pensiero di Mill⁵, mentre nella seconda abbiamo riassunto il dibattito che si è svolto attorno alla sua opera.

    Avvertenza: i riferimenti bibliografici riportati nel testo indicano l’anno di pubblicazione dell’opera da noi consultata; nella bibliografia è indicato l’anno dell’edizione originale.


    1 Sempre secondo Faquet, questa era anche l’opinione di Holyoake secondo cui cooperativa … fu un neologismo inventato dai discepoli di Owen (Faquet [1949] p. 47).

    2 Sui presupposti dell’impresa cooperativa come strumento di emancipazione delle classi lavoratrici, ci siamo soffermasti in Zanotti [2019a].

    3 Questa tendenza interpretativa fu mirabilmente sintetizzata oltre mezzo secolo dopo da P. Samuelson: Si ricordi che in un mercato perfettamente concorrenziale non importa chi realmente prende a prestito gli altri servizi, ovvero se sia il capitale ad acquistare il lavoro o viceversa.

    4 Diversi Autori hanno sostenuto che la caduta del Socialismo nel 1989 abbia contribuito alla rinascita di questi studi sulle forme d’impresa che potessero essere alternative alla proprietà capitalistica.

    In tempi più recenti, altri economisti hanno visto nella forma cooperativa una risposta alle crisi d’impresa (workers buy out).

    5 Abbiamo esposto quest’aspetto seguendo un criterio strettamente cronologico, consapevoli del rischio di aver presentato alcuni argomenti in modo ripetitivo, come la formazione delle classi lavoratrici o le critiche verso l’organizzazione del commercio al dettaglio.

    PARTE PRIMA

    JOHN STUART MILL E LA TEORIA

    DELL’ECONOMIA COOPERATIVA

    1.

    Gli albori del pensiero cooperativo

    Nei primi decenni del XIX secolo in Inghilterra e in Francia si sviluppò un movimento teso a creare un’alternativa al nascente sistema capitalista. Sulla scia di Marx, ancora oggi definiamo questi critici del capitalismo come Socialisti Utopistici, anche se sarebbe stato più opportuno definirli Socialisti associazionisti o cooperativistici, come molti studiosi del pensiero economico hanno più volte proposto, senza troppa fortuna⁶.

    I due più originali sostenitori di questo movimento furono Charles Fourier (1772-1837) e Robert Owen (1771-1858). Sebbene sostenessero idee molto diverse, ebbero in comune l’idea di costruire delle comunità autosufficienti dove la proprietà era comune. Per quasi tutto il secolo sorsero, soprattutto in America, molte comunità che s’ispiravano alle loro idee, ma che non sopravvissero mai a lungo; la stessa sorte capitò anche alle comunità nate in Inghilterra.

    In Inghilterra le idee di Owen furono aspramente criticate dai sostenitori di una nuova disciplina, l’economia politica. Robert Malthus, David Ricardo e Robert Torrens furono severi critici di questo movimento, nonostante alcuni di loro coltivassero buone relazioni con lo stesso Owen⁷.

    Nel giro di due soli decenni queste idee furono superate anche per le evidenti difficoltà di essere implementate e, molto più pragmaticamente, prese piede l’idea di dare vita a imprese di proprietà dei lavoratori (specie in Francia) o dei consumatori (specie in Inghilterra). Siamo quindi nella prima fase di trasformazione di questo processo, il passaggio dal cooperativismo alla cooperazione, non più comunità con proprietà comune ma singole imprese di proprietà dei soci lavoratori o consumatori, unite fra loro.

    Sino alla fine degli anni ‘840, gli economisti non ebbero molto da aggiungere a quanto avevano già detto Ricardo e Torrens sull’utopia cooperativistica di Owen. Il movimento dei Socialisti ricardiani, nonostante la partecipazione di W. Thompson alle esperienze cooperative del decennio precedente, era rimasto legato alla questione della distribuzione dell’intero prodotto al lavoro, senza contribuire allo sviluppo dell’economia cooperativa.

    Il Modello cooperativo di Brighton, che per primo aveva abbandonato l’utopia comunitaria perseguendo il progetto di costruire delle imprese cooperative, forse fallì troppo rapidamente per richiamare l’attenzione degli economisti coevi. Al contrario lo sviluppo innescato dall’esperienza di Rochdale, portò una profonda modifica dell’attenzione degli economisti già dalla seconda metà del secolo, per poi allargarsi, nei decenni successivi, anche fuori dai confini della Gran Bretagna.

    L’economista che, a nostro avviso, meglio rappresentò questo passaggio dall’utopia cooperativa (cooperativismo) al movimento d’impresa (cooperazione) fu John Stuart Mill (1806-1873), uno dei più grandi interpreti dei movimenti per l’emancipazione sociale del XIX secolo⁸. Egli inserì l’impresa cooperativa nel suo modello di emancipazione sociale delle classi lavoratrici; non indagò la cooperativa nella logica dell’equilibrio dell’impresa, il cui sviluppo formale s’imporrà molto più tardi, con la scuola marginalista, ma piuttosto con riferimento al quadro evolutivo della società, nella prospettiva di migliorare le condizioni, materiali e immateriali, delle classi lavoratrici. Mill non condivise mai le idee comunitariste dei Socialisti utopisti, ma rimase fedele all’istituto cooperativo come strumento di emancipazione, di cui ebbe sempre la più calda simpatia perché di tutti gli agenti che sono all’opera per elevare coloro che lavorano con le proprie mani, nella condizione fisica, nella dignità sociale e nelle qualità morale e intellettuale da cui entrambe le altre dipendono in ultima analisi, non ce n’è oggi alcuna così promettente come il movimento Cooperativo⁹. Progetto, per Mill, coerente con l’interpretazione, ma soprattutto con l’azione, avviata dagli stessi cooperatori con la fondazione della Società dei Probi Pionieri di Rochdale nel 1844, ancorché, però, non ne colse la successiva evoluzione che portò alla distinzione fra cooperazione di consumo e cooperazione di produzione che cominciò a manifestarsi in modo netto solo verso la fine della sua vita. Per Mill le diverse forme d’impresa cooperativa conservavano la comune finalità del miglioramento delle condizioni dei lavoratori.

    Data l’autorevolezza di Mill come economista sino agli anni ‘80 del XIX secolo, non stupisce l’interesse che gli economisti coltivarono per questo istituto [(Betts [2015] p. 16).


    6 Marx, in Miseria della filosofia, spiegò che utopista non si riferiva tanto al disegno finale immaginato, quanto, piuttosto, alla mancanza di una strategia per raggiungerlo.

    7 Queste vicende sono state da noi descritte ampiamente in Zanotti [2019b].

    8 … in questi casi la sua posizione sarà sempre ‘di sinistra’ (F. Restaino in Mill [1976] p. XII).

    9 Così come si espresse in una lettera del 31 gennaio 1863 indirizzata a J. Wilson, aggiungendo subito dopo: Sebbene prevedessi, quando era solo un progetto, i suoi vantaggi, il suo successo ha così di molto superato la mia più sanguigna aspettativa e ogni anno aggiunge forza alla mia convinzione della salutare influenza che probabilmente esercita sui destini di questo e di altri paesi (Mill [1972] vol. XV lettera 583 p. 832).

    Analogamente, alcuni anni dopo, in una lettera del 25 settembre 1865 indirizzata a B. Kennean, osservò come la distanza fra lavoratori e datori di lavoro fosse crescente e come solo la cooperazione potesse porvi fine attraverso l’unificazione delle due classi (Mill [1972] vol. XV p, 1103).

    2.

    L’originalità del pensiero

    di John Stuart Mill

    John Stuart Mill è, senza alcun dubbio, uno degli intellettuali più poliedrici di tutti i tempi; non a caso troviamo un capitolo dedicato alla sua opera tanto nelle storie del pensiero economico che di quello sociologico, del pensiero filosofico che di quello politico.

    Per quanto forte sia stata l'influenza esercitata dai suoi Principles of Political Economy with some application to Social Philosophy sul pensiero economico in quel periodo, come testimoniato in particolare da J. Schumpeter, con la pubblicazione nel 1890 dei Principle of Political Economics di A. Marshall, la sua influenza diminuì velocemente e si può senz’altro dire che oggi … sia più ricordato come filosofo o scienziato politico, che come economista (Montgomery [2012] p. 206). Nel moderno dibattito economico, è al quanto improbabile trovare citazioni di Mill¹⁰.

    Gli storici del pensiero economico hanno da sempre evidenziato l’anomala posizione di Mill, tant’è che l’aggettivo più ricorrente per riassumerne il pensiero economico è "eclettico".

    Egli si ritenne sempre un seguace di Ricardo, eppure non fece mai propria la teoria del valore lavoro, sostituendola con una teoria basata sul costo di produzione, che aprì la porta alla successiva scuola neoclassica. Forse, proprio questo suo collocarsi a metà strada fra la vecchia scuola classica e la nuova scuola classica, ha contribuito al suo declino come economista¹¹.

    In realtà il dualismo del suo pensiero riguarda piuttosto un altro aspetto.

    Montgomery [2012] in un’interessante disamina del pensiero economico di Mill, distingue fra un Mill ortodosso e un Mill eterodosso (o eretico), ritenendo che oggi sia quest’ultimo quello di maggior interesse. Recentemente Persky [2016] ha sostenuto come questo secondo aspetto rappresenti l’originalità e la modernità di Mill, essendo il punto dove ha cercato di conciliare il suo radicalismo politico con la teoria economica. Si tratta di una distinzione già avanzata da Gide e Rist nel 1922 fra il Mill di "Le grandes lois dal Mill di Le programme socialiste-individualiste". Gide e Rist classificarono i temi di Mill ortodosso in sette punti:

    La legge dell’interesse personale.

    La legge della libera concorrenza.

    La legge della popolazione.

    La legge dell’offerta e della domanda.

    La legge del salario.

    La legge della rendita.

    La legge dello scambio internazionale.

    I temi eterodossi furono classificati in tre punti:

    Abolizione del salariato con l’associazione cooperativa di produzione.

    Socializzazione della rendita terriera con l’imposta fondiaria.

    Riduzione delle ineguaglianze della ricchezza limitando il diritto di eredità.

    Stranamente da questo elenco manca ogni riferimento allo stato stazionario.

    P. Schwartz, nel 1968, ha riproposto la lettura di Mill eterodosso, definendola come "New Political Economy" riassumendola in quattro punti: 1) Sindacati; 2) Laissez faire; 3) Socialismo; 4) Futuro della società. La questione cooperativa è parte del quarto punto.

    Fra i due Mill, però, non c’è contraddizione ma continuità. Il Mill ortodosso è quello che analizza il funzionamento del capitalismo contemporaneo nella sua dimensione statica. Il Mill eterodosso è quello che ipotizza il futuro e il superamento del capitalismo, nella sua dimensione dinamica, come dirà, chiaramente, egli stesso. Il punto di flesso, il passaggio cioè fra l’attuale capitalismo e la società futura, è rappresentato dall’impresa cooperativa: essa nasce ancora all’interno del sistema capitalistico, ma è destinata a diventare la forma dominante d’impresa nello stadio successivo dello sviluppo sociale, lo stato stazionario¹². Questo sviluppo, come avremo modo di analizzare con maggior dettaglio, è il frutto di una questione ancor oggi assai discussa del pensiero di Mill, un caso più unico che raro: la separazione

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