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Laboratori per il benessere e lo sviluppo locale
Laboratori per il benessere e lo sviluppo locale
Laboratori per il benessere e lo sviluppo locale
E-book305 pagine4 ore

Laboratori per il benessere e lo sviluppo locale

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Lo sviluppo locale di una comunità e di un territorio non si realizza solo per effetto della acquisizione e della concentrazione delle risorse economiche per sostenere e alimentare un macro sistema di Welfare, ma anche e soprattutto per ampliare le possibilità per una comunità di accedere a più diffuse opportunità di Wellbeing.
Al centro ci sta, quindi, il “sentirsi bene” della persona, che amplia e potenzia le sue relazioni, intensifica la sua comunicazione con la comunità in cui si riconosce, orienta e in un certo senso adatta e specializza le sue abilità che gli consentono di partecipare ai sistemi strumentali della vita sociale, che vanno dalla produzione di beni e servizi alla produzione di loisir.
Diviene di conseguenza centrale una nozione di “sviluppo locale” in cui i sistemi di relazioni intersoggettive, la reciprocità delle prestazioni incentrate sui bisogni e non sullo scambio, la conoscenza acquisita attraverso i percorsi della istruzione e della formazione, la comunicazione mediata non solo dai beni strumentali ma anche da simboli e riti, divengono fattori essenziali di empowerment delle dinamiche della inclusione e della integrazione sociale.
Lo sviluppo locale consente la individuazione delle aree di vulnerabilità e di decomposizione del tessuto sociale, e al tempo stesso i fattori culturali, relazionali, anche simbolici che facilitano ed accelerano la integrazione di soggetti a rischio di marginalità e di esclusione sociale.

Everardo Minardi
Docente di sociologia dello sviluppo presso la Università di Teramo, coordinatore del PHD Course in Sociology of Regionale and Local Development, con la Università di Zadar (Croatia)

Nico Bortoletto
Docente di metodologia e tecniche della ricerca sociale, presso la Università di Teramo, docente presso PHD Course in Sociology of Regionale and Local Development, con la Università di Zadar (Croatia)
LinguaItaliano
Data di uscita25 feb 2016
ISBN9788898969739
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    Anteprima del libro

    Laboratori per il benessere e lo sviluppo locale - Everardo Minardi

    Minardi

    Presentazione

    di Everardo Minardi

    La pubblicazione di questi testi è in un certo senso un atto dovuto.

    Non solo per ricondurci ad una esperienza di dottorato che ha lasciato il segno in persone orientate a questo percorso, ma anche al lavoro di docenti ed esperti che non sempre si sono trovati in un ambiente (non solo accademico) particolarmente sensibile ai temi che si andavano affrontando per dare spessore e credibilità ad un percorso formativo post laurea, come quello di dottorato.

    Rileggendo ora i testi che ogni anno gli allievi del dottorato erano tenuti ad elaborare e a discutere, si possono cogliere certamente alcuni limiti, ma dietro alla forma del testo prodotto sta un lavoro di ricerca bibliografico, di interazione con la realtà e le situazioni di interesse per la ricerca, quindi di riflessione e di confronto con docenti e colleghi, che non si può dare riduttivamente per scontato.

    Nel lavoro di dottorato si può fare community di studio, di riflessione, anche per acquisire quell’atteggiamento critico, orientato al confronto e alla discussione, che si può ricondurre ad uno dei caratteri distintivi di un metodo e soprattutto di uno stile di lavoro che si riconduce non solo alla tradizione umanistica, ma rinnova quella ancora debole e confusa del travail social, come lavoro sulla società.

    I temi affrontati manifestano di fatto un tale orientamento, che non lo si deve certamente dare per acquisito da parte dei giovani coinvolti nel percorso di studio, ma che costituisce il contesto dove gli stessi possono acquisire l’habitus del lavoro di ricerca.

    Attraverso i temi analizzati e discussi nei diversi contributi riteniamo di poter cogliere quegli aspetti tematici che caratterizzavano il senso del dottorato di ricerca, che nel polo delle sviluppo locale trovavano una loro collocazione non casuale, quelle policies, che non si riducevano alla quantificazione dei fattori incidenti sulle dinamiche della crescita economica di un territorio, ma piuttosto tendevano a coniugare i fattori dello sviluppo con la dimensione della qualità della vita.

    In altri termini, oggi potremmo dire che lo sviluppo locale di una comunità e di un territorio non si realizza solo per effetto della acquisizione e della concentrazione delle risorse economiche per sostenere e alimentare un macro sistema di Welfare, ma anche e soprattutto per ampliare le possibilità per una comunità di accedere a più diffuse opportunità di Wellbeing.

    Al centro ci sta, quindi, il sentirsi bene della persona, che amplia e potenzia le sue relazioni, intensifica la sua comunicazione con la comunità in cui si riconosce, orienta e in un certo senso adatta e specializza le sue abilità che gli consentono di partecipare ai sistemi strumentali della vita sociale, che vanno dalla produzione di beni e servizi alla produzione di loisir.

    Diviene di conseguenza centrale una nozione di sviluppo locale in cui i sistemi di relazioni intersoggettive, la reciprocità delle prestazioni incentrate sui bisogni e non sullo scambio, la conoscenza acquisita attraverso i percorsi della istruzione e della formazione, la comunicazione mediata non solo dai beni strumentali ma anche da simboli e riti, divengono fattori essenziali di empowerment delle dinamiche della inclusione e della integrazione sociale.

    Lo sviluppo locale consente la individuazione delle aree di vulnerabilità e di decomposizione del tessuto sociale, e al tempo stesso i fattori culturali, relazionali, anche simbolici che facilitano ed accelerano la integrazione di soggetti a rischio di marginalità e di esclusione sociale.

    Nella strategia dello sviluppo locale il sistema di Welfare perde l’irrigidimento istituzionale che ha progressivamente acquisito, per renderd partecipi di soluzioni di mixaggio (Welfare Mix) soggetti, azioni e organizzazioni che si generano nella dimensione dei mondi sociali.

    Tutto ciò da senso anche all’altro termine che abbiamo dato alla intitolazione di questo testo: politiche di benessere e sviluppo locale rendono sempre aperti i laboratori di ricerca, sperimentazione, e riflessione sui processi anche inediti che si ingenerano nelle comunità e nei territori.

    Nei laboratori della vita sociale si osserva, si registra, si procede anche alla misurazione ed alla quantificazione dei fenomeni in cui gli attori di laboratori sono coinvolti; ma nei laboratori si prospettano mix di fattori ancora non riscontrati, si fanno esperimenti in direzione di possibilità di cambiamenti che possono tradursi in vere e proprie innovazioni sociali.

    Quindi, per chi vorrà fare lavoro sociologico non in senso astratto e accademico, ma per affrontare e risolvere i problemi sociali, il laboratorio è la sede e lo strumento con cui si possono analizzare le configurazioni già note del nesso tra Welfare e sviluppo locale, ma con cui si possono anche sperimentare configurazioni possibili, inedite di vera e propria innovazione sociale.

    Dal Welfare al Well-being e ritorno

    di Nico Bortoletto

    Abstract

    Wellbeing e welfare sono termini che dal punto di vista delle politiche sociali rivestono un significato specifico. In questo articolo sono considerate alcune declinazioni del primo termine e sono mostrate alcune possibili interrelazioni con il sistema sotteso al secondo termine.

    Il wellbeing, opportunamente declinato, sta influenzando e modificando anche l’approccio alle misurazioni degli istituti di statistica nazionali e internazionali.

    Viene ipotizzato vi possa essere una correlazione, non solo positiva, tra il cambiamento del sistema classico di welfare e l’affermarsi del wellbeing.

    Viene concluso che il welfare, pur ridelineato sulla scorta dei numerosi cambiamenti intervenuto nell’ultimo mezzo secolo, costituisce comunque un elemento necessario per l’affermazione non ideologica del wellbeing come legittimo momento di coscentizzazione personale.

    English abstract

    Well Being and welfare are terms that from the point of view of social policies play a specific meaning. This article examines some interpretations of first term and shows some possible interrelations with the system which underlies second term.

    The wellbeing, duly declined, is influencing and changing the approach to the measurement of the national statistical offices and international.

    It is hypothesized there might be a correlation, not only positive, between the change of the classical system of welfare and the affirmation of wellbeing.

    It is concluded that the welfare state, while reloaded in the light of the many changes occurred in the last half century, does provide a necessary element for the success of the non-ideological wellbeing as rightful instrument for personal achievement.

    1. Il concetto di wellbeing, che è grossolanamente traducibile con quello di sentirsi bene, sta sempre più subentrando, nella sua accezione sociologica e politologica a quello di welfare, se vogliamo traducibile col più generale concetto di benessere. Alla base di questo vi possono essere molte ragioni. Quella che ci sentiamo di sposare è legata essenzialmente alla progressiva impraticabilità del concetto di welfare in termini meramente economici o, per dirla tutta, con gli strumenti concettuali dell’utilitarismo. Il welfare è un qualcosa legato ad un modello di produzione, a determinanti di tipo essenzialmente economico (la previdenza, anzitutto) che sempre più stanno mostrando la corda nell’attuale evoluzione dei sistemi sociali occidentali. Per contro il concetto di wellbeing afferisce senz’altro ad una sfera più personale, più relazionale, risulta inequivocabilmente legato al contesto in cui un individuo ed una comunità interagiscono e producono significato. Il sentirsi bene (wellbeing), infatti, è un concetto dinamico, che muta secondo tempi, luoghi e culture. Ogni tentativo di individuare un sistema di indicatori deve dunque basarsi su norme, valori e priorità di chi partecipa alla vita sociale e deve essere continuamente riveduto alla luce dei progressi e dei cambiamenti della società. Ecco perché nella definizione del wellbeing di una comunità, la selezione dei temi rilevanti può avvenire solo dal basso, dal confronto diretto con i cittadini.

    Perciò, il tentativo che qui faremo sarà quello di individuare se esistano degli elementi (relazionali e di contesto) che possano essere generativi rispetto alle nuove dimensioni del benessere e di ciò che rimane dello stato sociale post-moderno.

    2. A partire dal basilare lavoro di Amartya Sen [con M. Nussbaum, 1993], e sempre con maggiore enfasi [UNDP, 2011; Stiglitz, Sen, Fitoussi, 2010] viene sottolineato il fatto che non sia più sufficiente misurare il benessere di un paese in termini meramente economici ma attraverso l’uso di indicatori che riportino il livello di benessere percepito delle persone. Questo comporta anzitutto un sostanziale cambio di paradigma, a partire dalla considerazione di cosa possiamo intendere per valore sociale e cosa noi, come società, decidiamo essere più o meno importante nel nostro modus vivendi.

    La Commissione europea ha pubblicato la comunicazione Non solo Pil. Misurare il progresso in un mondo in cambiamento¹, con cui ha sottolineato che, stante il grande consenso da parte dei decisori politici, degli esperti economici e ambientali e della società civile, è oramai importante lavorare per migliorare dati e indicatori per completare il Pil allo scopo di sostenere il processo decisionale mediante informazioni più complete. La comunicazione Non solo Pil impegna la Commissione e gli Stati membri a lavorare in cinque direzioni:

    1.integrare il Pil con indicatori ambientali e sociali;

    2.fornire informazioni sociali e ambientali quasi in tempo reale a sostegno del processo decisionale;

    3.fornire informazioni più precise su distribuzione e diseguaglianze;

    4.elaborare una tabella europea di valutazione dello sviluppo sostenibile;

    5.estendere i conti nazionali alle questioni ambientali e sociali.

    La Commissione europea ha adottato un framework organizzato in nove dimensioni che sono misurate con indicatori statistici per dare un quadro il più possibile completo della multidimensionalità della qualità della vita. Seguendo il capability approach di Sen 8 dimensioni – condizioni di vita materiali, attività principale, salute, istruzione, relazioni sociali e tempo libero, sicurezza economica e personale, governance e diritti di base, ambiente – misurano le capacità delle persone di perseguire il benessere. L’ultima dimensione, quella della soddisfazione per la vita, fa riferimento alla personale percezione della propria qualità della vita (Eurostat, 2015).

    Lo stesso Istituto Nazionale di Statistica, oltre che numerosi istituti privati di ricerca, si stanno sempre più orientando verso l’uso di indicatori alternativi rispetto al vecchio Prodotto Interno Lordo, comprendendo nella misurazione delle batterie di indici che cercano di riassumere in se aspetti anche non economici della vita comunitaria. Le indagini multiscopo dell’ISTAT (indagini a campione particolarmente robusto, 24.000 famiglie per quasi 55.000 individui) effettuate con periodicità annuale, prevedono aree tematiche variegate che permettono di capire come vivono gli individui e se sono soddisfatti del funzionamento di quei servizi di pubblica utilità che devono contribuire al miglioramento della qualità della vita. Scuola, lavoro, vita familiare e di relazione, abitazione e zona in cui si vive, tempo libero, partecipazione politica e sociale, salute, stili di vita e rapporto con i servizi sono indagati in un’ottica in cui oggettività dei comportamenti e soggettività delle aspettative, delle motivazioni, dei giudizi dovrebbero contribuire a definire l’informazione sociale.

    Dal 2010 l’Istat cura un rapporto definito come Il benessere equo e sostenibile [BES] dove vengono sistematizzati numerosi indicatori raccolti (134) ai fini di affiancare la mera indicazione statistica relativa alla produzione dei territori. Ovviamente un rilevante interesse accademico scientifico sta sempre più crescendo attorno al concetto di wellbeing.

    In ambito nazionale possiamo senz’altro citare i lavori di Leonardo Becchetti [2009], Bruno Amoroso [2009], Sergio Belardinelli [2005], giusto per citare ricercatori che si sono specificamente occupati della questione, mentre in ambito internazionale di assai più ampio respiro è la letteratura esistente a partire proprio dalla Commission sur la Mesure de la Performance Économique et du Progrès Social, promossa dalla Presidenza della Repubblica Francese nel 2008 e che ha restituito, in termini di risultato, un importante scenario rispetto al quale, seppure con molta fatica, a livello internazionale qualcosa sembra muoversi.

    Il wellbeing, secondo Gough et al. [2007] è da intendersi anzitutto come un processo e non come un mero risultato. Ovviamente sottesa a questa concettualizzazione troviamo l’originario lavoro di Amartya Sen e Martha Nussbaum sulle c.d. capabilities.

    Ancora Wood e Neumann [2005] definiscono il concetto di wellbeing come naturalmente destinato a sostituire il concetto di welfare per il semplice fatto che l’acquisizione di competenze (capacieties) si sta sempre più affermando come di maggiore rilevanza rispetto alla mera protezione sociale.

    Altri autori ancora [Dean, 2005] definiscono tout cour il wellbeing come il vero focus delle politiche sociali del nuovo secolo, capace di cambiare il focus di queste dal lato negativo dei bisogni a quello positivo delle possibilità.

    Insomma vi è un progressivo focalizzarsi di studi e politiche, forse pure a sfondo ideologico, sulla necessità di promuovere le capacità dell’attore sociale. Il problema, semmai, rimane di ordine duplice: da una parte come fornire queste capacità di problem solving a persone in difficoltà a muoversi nell’ambito di un sistema sociale sempre più complesso e selettivo, dall’altra (e conseguente a questa prima)se non sia una perfetta inversione del problema assumere per dato acquisito la necessita di cambiare gli individui senza, nei fatti, cambiare la società entro cui queste persone si muovono.

    Per tale ragione il concetto di wellbeing deve essere trattato con estrema cautela e, a parere di chi scrive, cum grano salis, senza eccedere in determinismi a sfondo ideologico sugli orizzonti meravigliosi e progressivi della società degli individui con uno rilevante gradiente di normatività inespressa. Per questa ragione il wellbeing è certamente da definirsi anzitutto come un processo che non può essere compreso indipendentemente dalla matrice fornita da un qualche sistema di welfare.

    3. È senza dubbio necessario distinguere il wellbeing nelle sue differenti declinazioni. Costitutivamente il termine sottende una condizione soggettiva (che abbiamo prima fenomenologicamente definito come un ‘sentirsi bene’) che in letteratura viene definito come subjective wellbeing (SWB); vi è poi una ulteriore modalità che viene esplicitata in una condizione oggettivata di benessere, che in letteratura, con qualche riserva, viene definita come objective wellbeing (OWB). Quest’ultimo elemento è chiaramente alla base del summenzionato progetto BES del nostro Istituto Nazionale di Statistica e sul quale ritorneremo successivamente.

    La composizione di questi due elementi comporta una visione del wellbeing in termini cognitivi, affettivi e materiali che definiscono il wellbeing come un prodotto della condizione sociale che può innescare una esperienza positiva del sé. Che questo esperimento del sé esiti in termini positivi costituisce probabilmente la sfida più ardua ed ambiziosa dei promotori di questo salto di paradigma politico-sociale. Di conseguenza, sia che si adotti il concetto di welfare come lack of agency, sia che si adotti il concetto di wellbeing come indipendence, si omette la condizione di oggettiva interdipendenza delle due condizioni, interdipendenza relazionale nella quale, come sopra accennavamo, il welfare può (dovrebbe) porre in essere le condizioni in cui l’attore sociale può (dovrebbe) autonomizzare il proprio benessere. Fautori di questa relazionalità, definita come psico-sociale, sono ad esempio Stenner e Taylor [2008], Taylor [2011].

    Quest’ultimo, in particolare, nota come lo stato di wellbeing/illbeing siano prodotti multifattoriali frutto della continua interazione con le sfere culturale, sociale, politica ed economica.

    È chiaro che la multifattorialità di cui parliamo può essere certamente letta in termini di densità di relazioni e in termini di differenti livelli di formalizzazione delle stesse. Questo conduce direttamente al problema delle comunità ed al livello di rappresentatività del corpo sociale e dello stesso capitale sociale, in esse presenti.

    Il wellbeing, il benessere in quanto tale, è dunque influenzato, positivamente o negativamente, dalla densità relazionale in cui l’attore sociale si viene a trovare. Per questa ragione è necessario nello studio dell’evoluzione del concetto e della sua influenza sulle politiche sociali, non scindere lo stesso dal contesto di analisi adottato. È piuttosto elementare ma il wellbeing di una determinata popolazione, oltre ad essere diverso (o diversamente percepito, ma come vedremo la differenza non è eccessiva) tra paese e paese, è diverso pure tra differenti aree di uno stesso paese.

    Anche per questa ragione, come vedremo nel paragrafo di commento dei dati BES italiani, uno sfondo adeguato di welfare, nei termini più idonei per una data comunità, non può essere tralasciato. Per fare questo, ad esempio, è opportuno che il wellbeing esca dall’angusto recinto della psicologia o, addirittura del crescente interesse per esso mostrato dalle discipline economiche [Becchetti, 2009], con un marcatissimo ancoramento al benessere individualmente percepito ed alla razionalità dell’attore individuale.

    In psicologia, sommariamente, possiamo individuare due dimensioni del wellbeing: quella effettuale, nella quale sostanzialmente vi è una percezione di benessere ed una percepita assenza di minacce allo stesso, quella cognitiva basata su comparazioni personali del proprio stile di vita rispetto a quello della propria comunità e degli eventuali modelli di socializzazione anticipata cui si tende [Van Hoorn, 2007]. Com’è ovvio il problema di tali approcci sta nel dare per assunta la capacità di azione del singolo attore sociale in molti termini, dalla capacità ordinativa della realtà a quella della razionalità certa ed assoluta dell’attore sociale capace di un pieno controllo dei propri fini e dei propri mezzi. In ultima analisi la visione cognitivista del wellbeing farebbe intendere quest’ultimo essenzialmente come una positiva esperienza del se, caratterizzata da sentimento di appartenenza e pro-azione verso la propria comunità, in grado di produrre una retroazione positiva di rinforzo e una riflessività nel proprio mondo della vita.

    Per la psicologia, specialmente, il benessere individuale è fortemente ancorato alla percezione di abilità corporea nell’interagire positivamente col proprio ambiente. E quindi un primo assai semplice punto di perseguimento del wellbeing è la ricerca della minimizzazione delle emozioni negative e delle percezioni negative del se. Questo si può ottenere in moltissimi modi, includendo il movimento e lo sport nei diritti dell’individuo, cercando di perseguire una forma armonica di convivenza di individuo e paesaggio: il brutto, il disarmonico – nel medio e lungo termine – è sempre nemico del benessere [Bonesio, 1997].

    Tanto forte è l’interazione tra personale stato di benessere e risultati economici del singolo e delle comunità, che la scienza economica si è da tempo premurata di studiare il fenomeno per valutare la correlazione tra fattori economici e wellbeing individuale. Molti studiosi sono concordi nel dire che il collegamento positivo tra salute individuale (del corpo e soprattutto della mente), impiego lavorativo e wellbeing è oltremodo evidente [Layard, 2010].

    È interessante notare lo spostamento progressivo dall’aspetto prettamente psicologico verso quello sociale, ben esemplificato nell’esempio portato anche da Taylor [2011] che illustra la campagna promozionale verso il wellbeing anche attraverso l’uso di parole chiave quali Connect, Be Active, Take Notice, Keep Learning, Give.²

    In particolare è immediatamente evidente come l’individuo sia invitato ad essere sufficentemente protagonista rispetto al proprio ambiente sociale e, più in generale, antropico. La normatività dei consigli è elevata, l’insistenza su forme di comportamento da acquisire è certamente giustificata sotto alcuni punti di vista ma pure, a suo modo, imbarazzante: costituisce una sorta di ammissione dell’insuccesso socializzativo di una intera organizzazione sociale. L’elevazione a virtù del benessere e della felicità individuale costituisce un oggettivo dato tratto dall’utilitarismo benthamiano tout cour.

    Resta la domanda relativa a quanto e come questa soggettività attiva possa essere posta in essere senza un minimo di riferimento alle solidarietà di gruppo, ai movimenti sociali o ancora altre forze sociali tese al conseguimento di quei pre-requisiti che conducono al welfare quale precursore del wellbeing individuale. L’incapacità di costruire relazioni o, peggio, di sperimentare esclusivamente emozioni negative nel contesto relazionale in cui si agisce. Lo scopo ultimo del welfare di questo inizio di secolo è quello di rendere possibile reti di relazione che fungano da attivatori per la persona, anche al fine di evitare la c.d. privatizzazione totale del rischio, entro la quale un uso distorto della concettualizzazione di wellbeing ci può costringere [Maietta, 2015].

    4. Conviene dunque rapidamente focalizzare quali sono i limiti del welfare italiano e perché si stia culturalmente tentando di superare i vecchi limiti del modello europeo di welfare.

    Vi è, in cima a tutto, una individualizzazione spinta dei percorsi di vita, dovuti sia al superamento di vecchi modelli produttivi, sia alla contrazione di risorse pubbliche, sia, infine, per un differente approccio culturale al proprio percorso esistenziale. Il vecchio welfare era enormemente rigido: richiedeva risorse certe ed ingenti, aveva strutture di offerta estremamente standardizzate (ma non in termini di prodotto) e piuttosto generaliste.

    Una prima modifica a questo modello di welfare si è avuta quando i modelli di offerta si sono specializzati: interlocutore del welfare non è stata più la persona nella sua interezza ma il singolo bisogno della singola persona. Questo mentre molte opzioni relative a pratiche di tipo comunitario venivano messe da parte in quanto non ‘adeguatamente’ professionali. Le stesse strutture di welfare, anche grazie alla riforma del titolo V della costituzione, non casualmente degli anni ’90, si sono trovate fisicamente disseminate in territori che ne hanno innescato una deriva frammentaria che ha portato alla creazione di tante piccole isole non comunicanti in cui si trovano dispersi operatori e fruitori [Maietta, 2015].

    Logicamente questo dato costituisce la naturale anticamera per l’ingresso, in buona parte già avvenuto, di una pura logica di mercato a scapito della sola soluzione possibile, indicata anche da Ardigò già

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