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Il Re delle montagne
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Il Re delle montagne
E-book238 pagine3 ore

Il Re delle montagne

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Info su questo ebook

Un giovane erborista appena uscito dall’università viene inviato in Grecia ai giardini botanici per un viaggio di studi. Durante il soggiorno in una modesta pensione in compagnia dei più disparati personaggi, sente dire che alcuni banditi viaggiano sulle strade greche ma non immagina la palpitante e spaventosa avventura che gli farà vivere il suo amore per la scienza.
In viaggio verso il monte Parnitha alla ricerca di piante rare, si offre galantemente di accompagnare due inglesi a cavallo, una lady brontolona e la sua dolce figlia, di cui non tarda a innamorarsi. Subito dopo aver iniziato il viaggio, un gruppo di briganti gli sbarra la strada. Il loro capo non è altro che il grande Hadgi-Stavros, soprannominato “il re delle montagne”. Celebre per essere stato illustrato durante la guerra d’indipendenza, ma anche per aver saccheggiato e bruciato interi villaggi, il vecchio pallicare dà del tu ai politici e fa tremare gli eserciti. Preso in ostaggio da questi barbari, i nostri tre occidentali non hanno di certo finito di avere sorprese. Il principe dei briganti, reputato per le sue crudeltà, si rivela anche un ospite cortese e un temibile uomo d’affari. La vecchia lady si rifiuta ostinatamente di pagare il riscatto, perciò il loro soggiorno si prolunga. Mosso dall’amore per la bella Mary-Ann, l’ingenuo sfiora la morte durante molteplici e ripetuti tentativi d’evasione, fin quando si arriva a un finale inatteso.
Queste avventure raccontate come una storia vissuta sono divertenti per chi ha un cuore da cavaliere, ma soprattutto per la loro stramberia: il tono satirico mette in evidenza l’attualità dell’epoca, anche le situazioni più disperate sono le più comiche, e si capisce il giubilo dell’autore nel riuscire a destreggiarsi nell’arte della buona parola e a dipingere i ritratti pittoreschi dei personaggi del tutto contraddittori.
LinguaItaliano
Data di uscita17 mar 2021
ISBN9791220278829
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    Anteprima del libro

    Il Re delle montagne - Edmond About

    X

    IL RE DELLE MONTAGNE

    DI EDMOND ABOUT

    VERSIONE IN

    LINGUA ITALIANA

    AVVERTENZA SUL COPYRIGHT

    La presente opera in lingua italiana intitolata il Re delle montagne è protetta dalla legge sul copyright. È stata possibile la traduzione senza chiedere nessuna autorizzazione essendo scaduti i diritti patrimoniali dell’autore dell’opera originale in lingua francese ( le Roi des montagnes – Edmond About). Ne è vietata quindi la copia con qualsiasi forma e mezzo e la messa in vendita dell’opera ivi presente in italiano da persone estranee al traduttore; tuttavia, la legge consente di ritradurre il libro originale in qualsiasi lingua da persone terze, a patto che l’opera tradotta sia diversa da questa.

    INDICE

    I Il signor HERMANN SCHULTZ.…………………. 1

    II PHOTINI……………………………………………………… 7

    III MARY ANN…..…...……………………………………… 33

    IV HADGI-STAVROS………..…………………………… 62

    V I GENDARMI..…….……………..……………….…… 129

    VI L’EVASIONE………...…………………………..…….. 174

    VII JOHN HARRIS…….……….………………….………. 214

    VIII IL BALLO DELLA CORTE….…………….………. 251

    X L’AUTORE RIPRENDE LA PAROLA……….. 265

    I

    Il signor HERMANN SCHULTZ

    Il 3 luglio del 1857, alle ore sei circa del mattino, annaffiavo le mie petunie senza pensare a niente, quando vidi entrare un grande uomo giovane, biondo, sbarbato, con un berretto tedesco e ornato da occhialetti d’oro. Un ampio cappotto di lana brillante fluttuava malinconicamente intorno alla sua persona, come un velo opaco mentre il vento cadeva su di lui. Non indossava guanti; le sue scarpe di cuoio grezzo riposavano su delle pesanti suole, così larghe, che il piede veniva circondato da un lieve trottare. Dentro il suo taschino, all’altezza del cuore, una grande pipa di porcellana risaltava e disegnava vagamente il suo profilo sotto la stoffa luccicante. Non pensai proprio di domandare a quell’individuo se avesse studiato all’università in Germania. Posai il mio annaffiatoio e lo salutai con un bel guten morgen .

    <>, mi disse egli in francese ma con un accento penoso, <>

    Questo esordio penetrò il mio cuore con una dolce gioia; la voce dello straniero mi sembrò melodica come la musica di Mozart e diressi verso i suoi occhialetti d’oro uno sguardo scintillante di riconoscenza. Voi non potete capire, caro lettore, quanto noi amavamo coloro che si prendevano la briga di decifrare il nostro libro degli incantesimi. Quanto a me, se mai volli essere ricco, fu per assicurare una rendita a tutti coloro che mi avessero letto.

    Presi per mano quell’eccelso giovane uomo. Lo feci mettere seduto sulla panca più comoda, dato che ne avevamo due. Lui capì che io ero botanista e che lui aveva a che fare con il Giardino delle Piante di Amburgo. Per completare il suo erbario, lui aveva visitato i migliori Paesi, le migliori belve e la migliore gente. Le sue ingenue descrizioni, le sue visite, brevi ma incisive, mi ricordavano un po’ la maniera da gentiluomo di Erodoto. Egli si esprimeva pesantemente, ma con un candore che imponeva confidenza; lui metteva alle sue parole il tono di un uomo profondamente convinto. Venne per darmi delle novità, se non di tutta la città di Atene, meno che dei principali personaggi che ho già nominato nel mio libro. Durante la conversazione, enunciò qualsiasi idea generale che mi sembrava abbastanza ragionevole che di quelle che io avevo sviluppato prima di lui. Durante quell’ora di intrattenimento, entrammo molto in confidenza.

    Non so chi dei due pronunciò per primo la parola brigantaggio. I viaggiatori che avevano percorso l’Italia parlavano di pittura, chi aveva visitato l’Inghilterra parlava di industria: a ogni Paese la sua specialità.

    <>, domandai io a un importante sconosciuto, <>

    <>, rispose in tono serio. <>

    <> Disse lui. <>

    Mi seguì molto volentieri e, mentre camminava, canticchiava in greco una canzone popolare:

    Un cleptomane dagli occhi neri scende nelle pianure;

    il suo fucile dorato suona a ogni passo;

    egli disse agli avvoltoi: <

    vi manderò il pascià degli ateniesi!>>

    Egli si accomodò su un divano, accavallò le gambe, come i narrastorie arabi, si tolse il cappotto per non sentire caldo, accese la pipa e iniziò a recitare la storia. Io mi trovavo nel mio ufficio e stenografavo il suo dettato.

    Ero sempre molto alla mano, specialmente con chi mi faceva dei complimenti. Eppure, l’amabile straniero mi raccontò delle cose così sorprendenti, che mi domandai a più riprese se si stesse deridendo di me. Ma con le parole fu così rassicurante e i suoi occhi blu mi lanciavano uno sguardo così limpido, che i miei fulmini di scetticismo si spegnevano all’istante.

    Egli parlò ininterrottamente fino a mezzogiorno e mezzo. Quando si interruppe due o tre volte, fu per riaccendere la sua pipa. Fumava regolarmente, con sbuffate identiche, come il funzionare di una macchina a vapore. Ogni volta che gettavo gli occhi su di lui, lo vedevo tranquillo e sorridente, in mezzo a una nuvola, come Giove al quinto atto di Anfitrione.

    Vennero per annunciarmi che il pranzo stava per essere servito. Hermann si sedette di fronte a me e i leggeri sospetti che mi passavano per la testa non si fermarono davanti al suo appetito. Mi dicevo sempre che uno stomaco buono raramente accompagna una mala coscienza. Il giovane tedesco era un ospite troppo buono per essere un narratore infedele e la sua voracità dava una risposta alla sua veridicità. Angosciato da questa idea, confessai, mentre lui mi offriva delle frasi, che avevo dubitato un istante della sua buona fede. Lui mi rispose con un sorriso angelico.

    Passai la giornata faccia a faccia con il mio nuovo amico e non mi lamentai del lento passare del tempo. Alle cinque del pomeriggio, spense la sua pipa, indossò il suo cappotto e mi strinse la mano dicendomi addio e io gli risposi:

    <>

    <>

    <>

    <>

    <>

    <>

    Lui partì, rilessi attentamente il racconto che mi dettò; trovai qualche dettaglio inverosimile, ma niente di formalmente contraddittorio che avevo mai visto durante il mio soggiorno in Grecia.>>

    Tuttavia, nel momento in cui diedi il manoscritto per essere stampato, un rimorso mi trattenne: e se fosse sfuggito qualche errore nella narrazione di Hermann!?! In qualità di editore, non ne ero anche un po’ responsabile? Pubblicare senza aver ricontrollato la storia del Re delle montagne, non mi avrebbe esposto ai rimproveri paternali del Giornale dei dibattiti, grazie alle smentite dei giornalisti di Atene e alla volgarità degli Spettatori d’Oriente? Questo lungimirante documento venne già ideato a tal punto che mi chiesi: era stato lui ad avermi dato l’occasione per farmi chiamare il cieco?

    Nel bel mezzo di queste perplessità, decisi di fare due copie del manoscritto. Inviai la prima a un uomo di fiducia, un greco di Atene, il signor Patriotis Pseftis. Lo pregai di farmi presente, senza problemi e con sincerità greca, tutti gli errori del mio amico e lui mi promise di stampare la sua risposta alla fine del volume.

    Nel frattempo, liberai alla curiosità pubblica il testo stesso della recita di Hermann. Non cambiai neanche una parola, rispettai perfino le più grandi inverosimiglianze. Se avessi fatto il revisionista di un giovane tedesco, sarei diventato, di fatto, un suo collaboratore. Mi ritirai discretamente, cedetti a lui il posto e la parola, io ero fuori dai giochi: fu Hermann che mi parlò fumando la sua pipa di porcellana e sorridendo dietro i suoi occhialetti d’oro.

    II

    PHOTINI

    Capirete che alla mia età non avevo neanche mille franchi di rendita. Mio padre era un locandiere rovinato dal settore ferroviario. Mangiò pane in gioventù e patate una volta divenuto anziano. Aggiungiamoci anche che eravamo sei figli, tutti ben voluti. Il giorno che ottenni per concorso una missione ai giardini botanici feci una festa in famiglia. Non solo la mia partenza aumentò i pasti di ogni mio fratello, ma sarei anche arrivato a guadagnare più di cento franchi che, una volta ottenuti, avrei speso per il viaggio. Fu una fortuna. In quei momenti, persi l’abitudine di chiamarmi dottore. Mi feci chiamare il mercante di buoi per quanto sembravo ricco! I miei fratelli contavano sul fatto che mi avrebbero nominato professore all’università al mio ritorno da Atene. Mio padre aveva un’altra idea: lui sperava che mi sarei sposato. Essendo lui locandiere, aveva assistito a delle storie e si era lasciato convincere che le belle avventure non si vivono durante i lunghi cammini. Egli citava, almeno tre volte a settimana, il matrimonio della principessa Ypsoft e del luogotenente Reynauld. La principessa occupava l’appartamento n° 1, con le sue due cameriere e il suo corriere e pagò venti fiorini al giorno. Il luogotenente francese soggiornò alla n° 17 e pagò un fiorino e mezzo, pasti compresi; ciononostante, dopo un mese di soggiorno nell’hotel, partì in carrozza con la dama russa. Orbene, perché una principessa si portava un luogotenente nella sua vettura, se non per sposarlo? Il mio povero padre, essendo appunto padre, mi voleva più bello e più elegante del luogotenente Reynauld; non dubitava che avrei prima o poi incontrato la principessa che ci avrebbe arricchito. Se non l’avessi trovata al tavolo degli ospiti, l’avrei vista alla ferrovia; sì la ferrovia non mi fu propizia: avevamo ancora le navi a vapore. La sera della mia partenza, con una bottiglia di vino di Reno, il caso volle che l’ultima goccia cadesse sul mio bicchiere. L’eccellente uomo pianse di gioia: fu un ovvio presagio e niente mi poté impedire di sposarmi entro l’anno. Rispettai le sue illusioni, e mi riguardai dal dirgli che le principesse non viaggiano in terza classe. Quanto all’alloggio, il mio budget mi costrinse a scegliere ostelli modesti, dove le principesse non alloggiavano. Il problema è che sbarcai al Pireo senza avere visto il benché minimo romano.

    L’esercito di occupazione aveva ingigantito l’immagine che ci si poteva fare di Atene. L’hotel d’Inghilterra, l’hotel d’Oriente, l’hotel degli stranieri, erano inabbordabili. Il cancelliere della legazione di Prussia, al quale avevo portato una lettera di raccomandazione, fu così gentile da cercarmi un alloggio. Mi portò a casa di un pasticciere chiamato Christodule, all’angolo tra via d’Hermes e la piazza del Palazzo. Lì trovai vitto e alloggio per centro franchi al mese. Christodule era un vecchio veterano decorato con la croce di Ferro, in memoria della guerra d’Indipendenza. Era il luogotenente della falange e faceva sempre il suo dovere. Indossava il costume nazionale: il berretto rosso con la nappa blu, la veste d’argento, la sottana bianca e la ghetta dorata, per vendere gelati e dolci. Sua moglie, Maroula, è robusta, come tutte le greche che hanno passato i cinquant’anni. Suo marito l’ha comprata per ottanta piastre all’apice della guerra, in un periodo dove il sesso costava molto caro. Lei nacque nell’isola di Hydra, ma lei si vestiva alla moda ateniese: veste di velluto, la sottana di colore chiaro, un foulard intrecciato nei capelli. Né Christodule né sua moglie sapevano una parola di tedesco, ma loro figlio Dimitri, che è il domestico del palazzo e che si veste alla francese, capisce e parla un po’ tutte le lingue d’Europa. Peraltro, io non avevo bisogno di un interprete. Senza aver ricevuto il dono delle lingue, io sono un poliglotta molto diverso e ho padronanza del greco molto più che dell’inglese, dell’italiano e del francese.

    I miei ospiti erano brave persone; non se ne trovavano più di tre in città. Essi mi ospitarono in una piccola camera imbianchita con la calce, un tavolo di legno bianco, due sedie di paglia, un materasso bello leggero, una coperta e delle lenzuola di cotone. Un letto di legno era superfluo tra i greci che se ne privavano facilmente e noi vivevamo alla greca. Facevo colazione con una tazza di salep e cenavo con un piatto di carne con delle olive e pesce essiccato; mangiavo legumi, miele e il dolce. Le confetture non erano rare nella casa, e, ogni tanto, evocavo il regalo del mio paese e mi regalavano un arrosto d’agnello con le marmellate. Inutile dire che avevo la mia pipa a che il tabacco di Atene è migliore rispetto a quello francese. Era soprattutto questo che contribuiva a farmi rimanere nella casa di Christodule, un po’ vino di Santorini, che andavano a cercare non so dove. Non ero un tipo gourmet e l’educazione del mio palazzo è stata fortunatamente un po’ negligente; ciononostante potei affermare che quel vino sarebbe stato apprezzato sul tavolo di un re: era giallo come l’oro, trasparente come il topaz, eclatante come il sole, gioioso come il sorriso di un bambino. Credevo di vederlo ancora dentro la caraffa larga, in mezzo alla tovaglia cerata. Il tavolo veniva illuminato, ma il mio caro signore e noi saremmo potuti stare molto meglio senza altra luce. Io non bevevo mai troppo perché il vino fermentava troppo; pertanto, alla fine del pasto, citavo dei versi di Anacreon e scoprivo dei tratti di bellezza sulla faccia pallida della grossa Maroula.

    Mangiavo in famiglia con Christodule e i personaggi della casa. Eravamo quattro coinquilini e un esterno. Il primo piano si divideva in quattro camere, di cui la migliore era occupata da un archeologo francese, il signor Hippolyte Merinay. Se tutti i francesi avessero somigliato a quel tipo, chiunque si sarebbe fatto un’immagine pessima della nazione. Era un signore di bassa statura che non superava i 45 anni, dai capelli rossi, molto dolce, chiacchierone e aveva mani tiepide e sudate che non lasciavano il suo interlocutore. Le sue due più grandi passioni erano l’archeologia e la filosofia; era anche membro di diverse società di cultura e di beneficienza. In ogni caso fu grande apostolo di carità e i suoi parenti avevano lasciato una buona eredità; ma non mi ricordo di averlo mai visto donare un soldo a un povero. Quanto alle sue conoscenze archeologiche, tutto mi portava a credere che lui era più serio rispetto al suo amore per l’umanità. Egli era stato incoronato non so da quale accademia di provincia, alla memoria per un premio su carta ai tempi di Orfeo. Incoraggiato da questo primo successo, aveva viaggiato fino in Grecia per raccogliere materiale sul suo lavoro più importante: non si trattava di altro che determinare la quantità d’olio consumata dalla lampada di Demostene. Nel frattempo, scriveva la seconda Filippica.

    I miei altri due vicini non erano così scienziati e, visti da vicino, le cose antiche non gli stuzzicavano la curiosità. Giacomo Fondi era un povero maltese impiegato in un consolato; egli guadagnava centocinquanta franchi al mese per timbrare lettere. Non immaginavo quale altro impiego fosse più conveniente per lui. La natura, che popolò l’isola di Malta di cui l’Oriente non si privava mai, aveva donato al povero Fondi le spalle, le braccia e le mani di Milon di Crotone: ma lui non era lì né per maneggiare il martello e né per bruciare i bastoni di ceralacca. Eppure, li usava per due o tre ore al giorno e asseriva che l’uomo non è maestro del proprio destino. Quell’isolano declassato non si ritirava dai suoi strumenti se non all’ora di pranzo; aiutava Maroula ad apparecchiare la tavola, e indovinate, senza che io glielo dicessi, lui sistemava la tavola a braccia tese. Mangiava come un capitano dell’Iliade, e mai dimenticai lo scricchiolio delle sue larghe mascelle, il dilatarsi delle sue narici, lo splendore dei suoi occhi, il bianco dei suoi trentadue denti, formidabili macine di cui lui era il mulino. Dovetti ammettere che la sua conversazione non fu senza sorprese: si trovavano facilmente i limiti della sua intelligenza, ma non capii mai dove arrivava il suo appetito. Christodule non ebbe la possibilità di essere ospitato per quattro anni, quindi pagò dieci franchi al mese in più per il cibo. Insaziabile maltese inglobava tutti i giorni, dopo cena, un enorme piatto di noccioline, che spezzava tra le sue dita con il semplice avvicinamento del pollice e dell’indice. Christodule, antico eroe, ma un brav’uomo, eseguiva quell’esercizio con una miscela di ammirazione e di freddezza; rimaneva in trepida attesa del suo dessert, nonostante fosse lusingato dal vedere sulla tavola uno schiaccianoci così prodigioso. La figura di Giacomo non si abbinava bene con una di quelle scatole a sorpresa che facevano molta paura ai bambini. Egli era più bianco che nero, ma era una questione di tonalità. I suoi spessi capelli neri scendevano fino alle sopracciglia, come un caschetto. Con un contrasto così bizzarro, quel Calibano aveva i piedi abbastanza piccoli, le caviglie magre, la gamba più contemplata e la più elegante che si sarebbe potuta offrire allo studio di uno statuario; ma questi sono dettagli che non ci colpivano affatto. Per chiunque lo vedeva mangiare, la sua persona iniziava appena seduto a tavola, il resto non contava più.

    Scrissi tutto ciò grazie alla memoria del piccolo William Lobster. Egli era un angelo di venti anni, biondo, dalla pelle rosa e paffuto, ma pur sempre un angelo dagli Stati Uniti d’America. La casa di Lobster e Sons di New York, l’avevano inviato in Oriente per studiare il commercio d’esportazione. Lavorava tutta la giornata a casa dei fratelli Philip; la sera leggeva Emerson; la mattina, nell’ora in cui il sole scintillante appariva all’orizzonte, andava a casa di Socrate a sparare con la pistola.

    Il personaggio più interessante della nostra colonia era senza dubbio John Harris, lo zio materno del piccolo Lobster. La prima volta che cenai con quello strano ragazzo, compresi l’America. John nacque a Vandalia, nell’Illinois. Nacque e respirò quell’aria del nuovo mondo, così vivace, frizzante e così giovane, che portava alla testa come il vino di Champagne e che gioiva nel respirarla. Io non sapevo se la famiglia Harris fosse ricca o povera, se essa mandò il

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