Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Lo scorpione dorato
Lo scorpione dorato
Lo scorpione dorato
E-book367 pagine5 ore

Lo scorpione dorato

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Chiara, una donna dalla vita apparentemente perfetta, ha un malore e sviene in un Autogrill. Quando riprende i sensi, scopre nel parcheggio che la sua auto è vuota e la sua famiglia sparita. Parte da qui una ricerca da incubo dove le sue certezze crollano e la sua mente si perde fra ricordi confusi, l'angoscia provocata dalla "voce di uno scorpione" che continua a parlare nella sua testa e da un senso di colpa di cui non riconosce la radice.Per cercare di ricostruire la sua vita, Chiara decide di impiegare il suo tempo aiutando gli altri e arriva in Turchia seguendo un'associazione umanitaria. La sua vicenda si in- treccia con quella di Beyan, profuga curda con un passato di abusi e indifferenza, anche lei custode di un doloroso segreto. In un viaggio tra povertà e assenza di umanità di un campo profughi turco siriano, gli scenari maestosi della città di Istanbul si trasformano lungo il cammino in una distesa di polvere dove le due donne compiranno il loro destino, in un continuum tra presente e passato, fino alla scoper- ta della verità.Una storia sul coraggio femminile, sulla forza di ribaltare un destino di fallimento e dolore già scritto.
LinguaItaliano
Data di uscita23 mar 2021
ISBN9788893433075
Lo scorpione dorato

Correlato a Lo scorpione dorato

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Lo scorpione dorato

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Lo scorpione dorato - Marika Campeti

    radici

    1.

    Roma, 21 maggio 2017 – Una sosta in Autogrill

    Chiara attraversa a grandi falcate il parcheggio assolato dell’Autogrill. È affamata e le gira la testa. A quell’ora del mattino avrebbe già dovuto fare colazione, per vincere la pressione bassa che la accompagna all’inizio di ogni giornata afosa. La vescica è piena e le preme pulsante contro i pantaloni stretti, ma la testa le si sta annebbiando in cerchi neri concentrici che le vorticano di fronte agli occhi. Deve mangiare qualcosa e prendersi un caffè… subito!

    La fila davanti alla cassa è veloce e in pochi minuti può addentare un cornetto dal sapore di plastica e crema. Finalmente un po’ di zuccheri. Lo divora a grandi morsi, mandando giù la stopposa dolcezza con il caffè ristretto bevuto tutto d’un sorso.

    Ora in bagno, di corsa. Arriva appena in tempo al water per liberarsi. Si sente subito meglio mentre tira l’acqua e si riallaccia i pantaloni di cotone beige. Una donna corpulenta le cede il lavandino e l’unico dispenser di sapone funzionante. Mentre si asciuga le mani con il phon, guarda fuori nel corridoio condiviso con la toilette degli uomini.

    Un ragazzo magro con i capelli biondi sta aspettando qualcuno proprio davanti la porta del bagno, improvvisamente si gira mostrando il retro della sua maglietta nera. Chiara fissa l’immagine disegnata sulla schiena, che si appanna in un alone dorato fino a dissolversi in tanti puntini galleggianti.

    Si sente un grido, chi è stato?

    È la sua voce quella che risuona nel bagno dell’Autogrill?

    Il suo corpo ora è staccato dal suolo, le gambe le cedono, i puntini luminosi si avvolgono nella nebbia, un tonfo, quello della sua testa contro il pavimento, il buio.

    Il primo senso che torna ad appartenere al suo corpo è l’udito. Ancora è tutto nero, ma può sentire chiaramente la voce di una donna che la chiama:

    «Signora, signora si sente bene? Presto chiamate un’ambulanza! È fredda e pallida come uno straccio!».

    Allarmata dalla voce stridula della donna, Chiara cerca di aprire le palpebre ma non ci riesce. È intrappolata nel buio e il suo corpo non le risponde più. Cerca nel profondo della sua anima la forza di muovere un dito. Con enorme sforzo ci riesce.

    «Le tremano gli occhi, forse si sta riprendendo! Alzatele le gambe, presto! Qualcuno porti un bicchiere d’acqua!».

    Questa volta a parlare è un uomo dalla voce impastata. Chiara fa appello a tutte le sue forze e batte piano le palpebre. La luce a neon del soffitto le ferisce le pupille attraverso le ciglia, ma quando un volto femminile dai contorni sfocati si frappone tra lei e la luce, riesce ad aprire meglio gli occhi.

    «Dove sono?».

    La sua voce risuona debole e lontana come un’eco. La donna china su di lei prende forma, ha i capelli biondi corti e le guance rosee.

    «Signora, si sente bene? È svenuta all’improvviso».

    Chiara cerca di tirarsi su, ma una mano maschile la trattiene.

    «Signora, stia un altro po’ sdraiata. Sono un infermiere e cercherò di aiutarla. No, non le date l’acqua adesso, dobbiamo aspettare che si riprenda bene. Signora, ricorda il suo nome?».

    «Chiara. Scusate, mi sento meglio. Non è la prima volta che mi succede… io… non ho fatto colazione, questa mattina».

    L’infermiere scansa la donna dai capelli biondi e si fa spazio per prenderle il polso.

    «La pressione sta tornando normale e anche il colorito sul volto. È da sola, signora?».

    Chiara prova a puntare i gomiti per alzarsi un po’ da terra.

    «No, sono con la mia famiglia. Non si preoccupi. Mio marito mi sta aspettando fuori. Mi sento bene ora, grazie».

    L’infermiere la aiuta ad alzarsi, e appena Chiara si rende conto di potersi reggere da sola sulle proprie gambe gli sorride.

    «Grazie davvero. Ho avuto un calo di pressione per il caldo e il digiuno… la fretta di fare tutto insieme. Scusate se vi ho fatto spaventare».

    I suoi soccorritori si offrono di accompagnarla al bar per farle bere qualcosa di dolce ma Chiara è preoccupata per Serena, la bambina si sarà stancata di aspettare.

    «Davvero, non vi allarmate. Lì fuori c’è mio marito che mi aspetta nel parcheggio, con mia figlia. Grazie, mi sento molto meglio».

    Chiara guarda rapidamente l’orologio: le dieci e trentacinque. Sono passati più di venti minuti da quando ha lasciato Alberto e Serena al parcheggio per andare di corsa al bar. Alberto starà camminando in cerchio sul marciapiede imprecando silenziosamente contro di lei. E invece, quando arriva alla Peugeot bianca gli sportelli sono chiusi e la macchina è vuota. Sul seggiolino di Serena, il suo coniglietto Gill la guarda sconsolato e Chiara prova una fitta al cuore. Perché ha lasciato lì il suo pupazzo preferito? Qualcosa si muove dentro di lei, una sensazione di solitudine e irrequietezza a cui non sa dare un nome.

    Serena avrà chiesto al padre di comprarle qualche pupazzo, immagina, e rientra con passo veloce nell’Autogrill per cercare il marito e la figlia. Non scorge i capelli lucidi e corvini di Serena, né l’alta figura di Alberto. Spazientita, Chiara cerca il cellulare nella borsa e scorre il dito sul numero di Alberto. Il telefono è staccato. Com’è possibile? Un campanello di allarme la fa sussultare. Si precipita urgentemente in bagno, forse Serena ha fatto cadere il ciuccio e Alberto è andato con lei a sciacquarlo e non si sono incrociati per pochi attimi… ma nulla.

    Chiara inizia a sudare. I pantaloni si incollano alle cosce magre e la maglietta bianca si macchia di sudore freddo.

    Dio mio, Alberto, dove siete?

    Corre verso l’auto per aprirla e cercare qualcosa che le faccia comprendere cosa stia succedendo. In macchina a parte Gill non c’è niente, non ci sono i cracker che di solito Serena mangia durante il viaggio, non c’è il portafoglio di Alberto vicino al cambio, né telefoni dimenticati.

    Ninna nanna piccolina

    Fa la nanna mia stellina

    Se tu dormi con la mamma

    Sarà dolce la tua nanna.

    Chiara sbatte la portiera in preda al panico e corre verso i distributori di benzina. Un uomo con il berretto e la divisa arancione sta rifornendo una jeep, e Chiara si aggrappa alle sue spalle scuotendolo:

    «Una bambina, avete visto una bambina con un uomo alto con gli occhiali? Una bambina con i capelli lisci e neri! Mia figlia e mio marito… oh mio Dio, ero nel bagno svenuta e sono spariti!».

    Il benzinaio tenta di attenuare la sua angoscia:

    «Signora, cerchi di stare calma, guardi: è appena arrivata una pattuglia della polizia stradale, la accompagno da loro che di certo sapranno aiutarla».

    Chiara ha il respiro strozzato in gola, tiene la bocca aperta annaspando come se fosse stata a lungo sott’acqua; dentro di lei il nero totale, un’angoscia galoppante che la sta straziando. La pattuglia della polizia stradale ha appena parcheggiato e ne escono due ragazzi in divisa.

    «Potete aiutare questa signora? È molto spaventata!» declama l’uomo arancione avvicinandosi, mentre Chiara scruta ogni angolo del parcheggio tenendo sempre d’occhio la macchina per cercare i volti familiari di Serena e Alberto.

    «Signora, che succede?».

    Chiara si getta sul ragazzo che le sta più vicino, afferrandolo per il polso.

    «Vi prego, aiutatemi! Mio marito e mia figlia, sono spariti! Erano qui venti minuti fa, ho avuto un malore nel bagno e quando sono tornata verso la macchina erano spariti! Potrebbe essere successo qualcosa a mia figlia e mio marito non ha fatto in tempo ad avvisarmi, ma il cellulare è staccato!».

    L’agente si mette subito in allerta e, mentre il suo collega interroga il benzinaio, va a comunicare qualcosa alla ricetrasmittente posizionata in macchina.

    «Quindi lei non ha notato nulla di insolito in questi ultimi venti minuti. È sempre stato accanto alla pompa di benzina e non le è sembrato di vedere movimenti sospetti o allarmanti?».

    «No. Vi assicuro di non aver visto bambine piccole girare per il parcheggio, né da sola né accompagnata, e nessuno si è sentito male, almeno non nell’area esterna dell’Autogrill».

    L’uomo sembra spazientito, probabilmente prevede grane poiché si sta assentando dalla sua postazione.

    «Eppure la signora ha detto di essersi sentita male in bagno. Lei non si è accorto di nulla?». L’agente lo incalza insinuando il dubbio.

    «Santo cielo, no… io sono qui fuori, come posso sapere cosa accade dentro l’Autogrill?».

    Nel frattempo Chiara scoppia in un pianto nervoso.

    «Vi prego, dovete trovarla! Dovete trovare mia figlia! Non possono essere spariti!».

    L’agente le prende entrambe le mani in un gesto che le sarebbe sembrato, in altre circostanze, troppo intimo.

    «Signora, stanno arrivando i colleghi, stia tranquilla, non c’è motivo di allarmarsi, magari suo marito avrà avuto un contrattempo e si sono allontanati per qualche motivo che lei non conosce».

    Chiara batte i piedi sull’asfalto.

    «E dove? Sono andati a passeggio sul Raccordo? La macchina è parcheggiata lì. Ma non capisce che qui è successo qualcosa di grave? Mio marito ha il telefono staccato e lui non lo tiene mai staccato, e Gill è in macchina da solo!».

    L’agente la guarda smarrito.

    «Signora, chi è Gill? Un altro figlio?».

    Chiara risponde spazientita alla domanda, che le appare così stupida:

    «Gill è il coniglietto peluche di mia figlia. Non lo lascia mai… deve essere successo qualcosa, oh mio Dio, oh mio Dio…» singhiozza mentre tra le labbra sente il sapore salato del muco che le scende dal naso.

    Un’auto nera a sirene spiegate fa irruzione nel parcheggio e inchioda di fronte a loro. Tre carabinieri scendono in tutta fretta. Parlano brevemente con gli agenti della polizia stradale che si fanno da parte per lasciare il campo ai loro colleghi. L’unica donna in divisa si avvicina a Chiara e le mette una mano sulla spalla.

    «Non si deve preoccupare, siamo qui per aiutarla, qualsiasi cosa sia successa, li troveremo!».

    «Gervasi, porta la signora in un posto tranquillo. Noi cerchiamo di capire che è successo. Signora, le chiavi della macchina».

    La donna in divisa, che il collega ha chiamato Gervasi, accompagna Chiara verso un piccolo ufficio deserto e la fa sedere a una scrivania piena di carte sparpagliate. Un ventilatore rumoroso fa circolare un po’ d’aria sollevando i documenti in modo disordinato.

    «Si sieda e cerchi di stare tranquilla. Ora è importante che, mentre i colleghi interrogano i presenti nell’area di servizio, lei mi dica esattamente cosa è accaduto, indicandomi con precisione gli orari».

    Chiara chiude gli occhi e cerca di fare mente locale. Non sa perché, ancora non riesce a riconoscere questa sensazione che la opprime, ma dentro di lei tutto è scuro, negativo, senza luce. Sente che è successo qualcosa di grave, sa che non vedrà più Serena, è una certezza a cui non vuole dare ascolto, eppure è lì, che la guarda da dentro il suo cuore con occhi beffardi e maligni. Un sospiro profondo per cercare di cacciarla via ma è lì, un ghigno per farle capire quanto è forte.

    Chiara ripercorre con il brigadiere Gervasi i venti minuti che ha passato divisa dalla sua famiglia: le racconta dello svenimento in bagno, dei suoi problemi con la pressione bassa e di come ha trovato la macchina vuota. Gervasi annuisce ogni tanto con la testa, esortandola a ricordare i particolari.

    «Posso chiamare qualcuno che venga qui a farle compagnia? Signora, glielo devo proprio chiedere. Con suo marito i rapporti sono tranquilli?».

    Per Chiara è come ricevere uno schiaffo. Certo che con Alberto i rapporti sono tranquilli, anche se quella belva ghignante dentro di lei le dice che qualcosa non va, che Alberto non l’ama abbastanza per starle accanto in salute e in malattia, come si erano promessi davanti all’altare, ma lui, così schematico e prevedibile, non si sarebbe mai allontanato con Serena senza avvisare.

    «Sì, i nostri rapporti sono okay. Alberto è un padre esemplare. Vi prego, trovate mia figlia! Può esserle successa qualsiasi cosa! Può essere stata rapita da qualche zingaro e mio marito magari è già corso in sua ricerca. Non possiamo stare qui con le mani in mano, la prego, io sto impazzendo! Chiamate mia sorella Claudia… sì, lei verrà subito qui!».

    Chiara passa il suo cellulare al brigadiere e si accascia con la fronte sul tavolino, singhiozzando.

    «Mia figlia! Trovate mia figlia, vi prego!».

    Gervasi prende il cellulare e le rivolge un’ultima domanda:

    «Signora, spesso in questi casi il primo indiziato è il padre: potrebbe aver avuto qualche motivo di allontanarsi da solo con la bambina? Un litigio, una ripicca, un tentativo di portarla all’estero? Se individuiamo presto la causa, possiamo agire tempestivamente».

    Chiara alza la testa dal suo rifugio tra le mani umide.

    «No. Alberto non lo farebbe mai. Ne sono certa».

    Il brigadiere attende con il cellulare in mano che la sorella di Chiara risponda.

    «Ehi, buongiorno!».

    La voce squillante e metallica di Claudia giunge fino a Chiara.

    «Buongiorno signora, sono il brigadiere Laura Gervasi, mi trovo presso un’area di servizio sul Raccordo Anulare a Roma Est con sua sorella e vorrei sapere se può raggiungerci in breve tempo».

    La voce di Claudia assume un tono isterico:

    «È successo qualcosa a mia sorella? Ha avuto un incidente?».

    «No, no. Sua sorella è qui davanti a me, ma suo cognato e sua nipote sono scomparsi dall’Autogrill e stiamo cercando di capire cosa è accaduto».

    Il brigadiere si alza per dare le spalle a Chiara e allontanarsi da lei. Sul volto in apparenza imperturbabile cala un velo di sorpresa.

    «Ho capito. Allora l’attendiamo qui, signora Claudia. Faccia presto».

    Poi si volta verso Chiara, il suo volto è tornato serio e professionale.

    «Sua sorella sarà qui tra poco, la lascio sola soltanto pochi istanti per parlare con i miei colleghi. Mi aspetti qui, per favore».

    Chiara batte con violenza il pugno sul tavolo facendo volare le carte sul pavimento. Il ventilatore le sposta fino ai suoi piedi, il suo corpo non le appartiene più e non avverte nemmeno il solletico dei fogli sui sandali. Si accascia nuovamente sul tavolo con il viso schiacciato sugli avambracci, cerca l’odore di Serena sulle mani, quell’odore col quale si addormenta la notte, odore di biscotti e latte, di talco e zucchero filato… ma non lo trova tra le sue dita. Il dolore che strazia il suo stomaco brucia come l’acido lasciando cicatrici sanguinanti al suo passaggio. Si tortura l’attaccatura dei capelli tirandoli con i polpastrelli, è un tormento che la divora, il sudore le bagna la nuca correndo in rivoli gelidi, le orecchie sono avvolte in un rumore sordo, quello del battito del suo cuore che sembra scoppiare.

    Il brigadiere intanto si avvicina ai suoi colleghi e tutti e tre si raccolgono a cerchio su un lato riparato della stazione di servizio. Poco dopo i due uomini salgono in macchina e Laura Gervasi si incammina verso l’ufficio, dove Chiara sta ancora piangendo.

    «Sua sorella sarà qui tra poco, nel frattempo le vado a prendere qualcosa al bar?».

    Chiara si alza all’improvviso, non vuole arrendersi alla belva nera che si sta impadronendo di lei. Deve reagire, non può stare lì a piangere.

    «Io vado a cercare mia figlia e mio marito».

    Il brigadiere Gervasi insiste, con pazienza:

    «Signora Chiara, non si deve agitare né fare azioni azzardate. Mi creda, so che è difficile ma è molto importante in queste situazioni delicate mantenere la calma. Aspettiamo sua sorella, pensiamo noi a tutto il resto. Capisco che lei è molto preoccupata, ma abbiamo preso in carico il caso e ci occuperemo di ogni dettaglio. Venga, si rimetta seduta».

    Chiara si sente inerme, svuotata, sviscerata. La sua bambina, la gioia della sua vita, indifesa lì fuori nel mondo: come può non impazzire? Vorrebbe correre per il Raccordo e urlare il suo nome, scuotere tutte le persone presenti nel parcheggio e farsi aiutare nella ricerca… ma quella sensazione di impotenza e fallimento la attanaglia. Qualsiasi cosa farai, sarà inutile, le dice la voce della belva dentro di lei, non servirà a nulla. Non vuole cedere, ma quella sensazione di inutilità le blocca le gambe, le strozza il respiro, le annebbia la vista.

    «Chiara! Chiara!».

    La voce di sua sorella interrompe bruscamente i suoi pensieri bui. Claudia le afferra le fragili spalle per abbracciarla.

    «Oh Chiara, sei tutta sudata e con questo ventilatore ti prenderà un colpo!».

    Claudia armeggia con la cerniera della borsa di Chiara per cercare qualcosa al suo interno, poi guardando il brigadiere mima il gesto di bere. Quando la Gervasi esce dall’ufficio per prendere l’acqua, Claudia accarezza con fare materno i capelli della sorella: è così magra e fragile dentro la maglietta bianca che le sembra uno scricciolo impaurito. Le accarezza le spalle spioventi e i capelli corti come faceva quando erano bambine; tre anni di differenza, eppure si è sempre sentita come una mamma per lei.

    L’acqua arriva e il brigadiere torna fuori per lasciare alle sorelle un po’ di intimità. Claudia poggia una pasticca bianca sulle labbra di Chiara.

    «Mandala giù con un sorso lungo, ti sentirai subito meglio».

    Chiara la guarda con gli occhi gonfi di pianto.

    «Serena è sparita… io non ce la faccio… ti prego, aiutami!».

    Sua sorella le stringe forte le mani.

    «Certo. Ci sono qui io. Risolveremo tutto».

    Ninna nanna piccolina

    Fa la nanna mia stellina

    Se tu dormi con la mamma

    Sarà dolce la tua nanna

    Ninna nanna ninna oh

    La tua mano pungerò.

    La lingua accarezza il confetto bianco, è liscio e invitante, e prima di mandarlo giù con l’acqua Chiara sente l’amaro del principio attivo che si nasconde dentro il perlaceo candore.

    2.

    Istanbul, 10 aprile 2016 – La mattina di Beyan

    Beyan aveva perduto un simit¹ lungo la strada, era rotolato per il marciapiede di Kumbaracı infilandosi dentro una grata che raccoglieva l’acqua piovana e non aveva potuto recuperarlo.

    Nella sua testa sentiva i rimproveri di sua madre Hana: Sei un disastro, Beyan, non sei buona a far nulla! Sprecare così il lavoro di tua madre! Dovresti vergognarti!

    Ma Beyan cacciò via quella voce all’istante, pensando che ormai sua madre non potesse più dettare legge nelle sue giornate, neanche sui simit che aveva pazientemente impilato sul carretto, perché questi erano stati preparati da Meltem, nella cucina comune dietro il Tarlabaşı Pazari. Erano i loro simit, simit turchi, che non avevano nulla a che fare con il suo passato e la sua tradizione, persino la farina con cui erano impastati era diversa.

    Meltem li impastava di notte nella piccola cucina, cospargendoli con la melassa di uva e i semi di sesamo, per dargli quell’aspetto scuro e la consistenza croccante, poi buttava le forme nell’acqua bollente e le infilava nel forno senza vetro.

    Meltem conosceva il segreto per farli davvero croccanti sulla crosta e morbidissimi dentro: l’acqua bollente faceva la differenza e pochi venditori ambulanti a Istanbul vendevano dei simit buoni come quelli.

    Il profumo del pane che cuoceva e la fragranza dei semi tostati riempivano la cucina comune, fino ad arrivare nel minuscolo pertugio in cui dormivano lei e le sue singolari coinquiline, spargendosi nella dimensione dei suoi sogni confusi, dove l’odore era quello rancido del latte di capra, misto al sudore di un ospite invadente.

    Per più di una volta Beyan si era svegliata di notte pallida e sudata, e aveva trovato conforto nel profumo dei simit che Meltem aveva appena tolto dal forno.

    Beyan si sentiva al sicuro in quel buco lercio che la ospitava a Tarlabaşı e con Aysun e Meltem si era instaurato un rapporto unico, come una vera famiglia. Quella mattina doveva spingere il carretto fino alla torre di Galata e avrebbe impiegato oltre venti minuti a percorrere tutta la via Postacılar per raggiungere la meta turistica.

    Le scarpe di terza mano che aveva ai piedi la costringevano a camminare più lentamente di quanto avrebbe voluto, perché le suole si stavano già staccando e non voleva rimediarne un altro paio proprio in primavera, visto che di lì a poco avrebbe dovuto usare delle scarpe aperte.

    Beyan si fermò un istante per guardare la sua immagine riflessa in una vetrina abbandonata.

    Si sistemò il velo intorno al viso e respirò a pieni polmoni l’aria del mattino che ancora non si era impregnata di smog e dell’odore untuoso dei passanti che affollavano le strade.

    Il suo corpo era sgraziato come quello di un’oca selvatica e il velo le copriva a malapena la fronte larga e liscia.

    Beyan aggrottò le sopracciglia ispide che contornavano gli occhi a mandorla, poi abbozzò un sorriso e cercò di raddrizzare le spalle: sapeva di essere brutta, ma ormai passava le giornate in strada da troppo tempo per commettere l’errore di risultare anche antipatica.

    Era una delle poche venditrici ambulanti di Istanbul a girare con il carretto senza un uomo accanto. Si spostava di continuo, dalla torre di Galata a piazza Taksim e al Grand Bazaar, fino ai moli dei traghetti per vendere le ciambelle di Meltem ai pendolari che attraversavano il Bosforo.

    Il suo aspetto bonario, con gli occhi grandi dalle palpebre gonfie e quell’espressione ingenua che tanto faceva imbestialire suo padre Goran, lì a Istanbul le erano d’aiuto. I turisti le si avvicinavano senza timore: era una donna col sorriso di una bambina e, nella grande città, quella che era stata la sua maledizione da piccola si era trasformata in pregio. Ritardata, si sentiva ripetere dai suoi fratelli, dai cugini e sempre più spesso dai genitori. Ritardata, le gridavano dietro le ragazzine del suo quartiere ridendo e tirandole i sassi. Ritardata, le sussurrava nell’orecchio Gökhan mentre le sollevava la pesante gonna di lana.

    Tira il sasso, tira il sasso

    È Beyan la ritardata

    Non è femmina né maschio

    È soltanto una svitata.

    Beyan se lo era impresso bene in mente, quell’appellativo: lei era Beyan la ritardata e, anche se aveva ricominciato la sua vita nel quartiere dimenticato da tutti, non poteva cancellare il marchio che portava in viso. Tanto valeva trarne qualcosa di buono.

    Era stata proprio Aysun a consigliarle di sfruttare la sua condizione di inferiorità, dicendole che lì a Istanbul ne avrebbe potuto trarre vantaggio con un po’ di astuzia. Aysun, che si era scelta un nome che voleva dire bella come la luna, sapeva sfruttare al meglio gli aspetti della diversità e aveva istruito Beyan a sorridere nel modo giusto e alzare lo sguardo quando qualcuno le parlava.

    «Le persone non vogliono parlare con te se non le guardi. Guardami e sorridi».

    E così Beyan aveva imparato per la prima volta a sorridere, cosa che non aveva mai fatto da quando era bambina.

    Se ne stava ferma dietro il suo carretto, con la testa alzata a osservare le persone che si accalcavano lungo le strade, che correvano in ogni direzione apparentemente senza una meta, e a volte, in quel mare di gente, qualcuno incrociava il suo sguardo e lei sorrideva.

    Era davvero difficile che il destinatario del sorriso si rifiutasse di sorriderle a sua volta; un sorriso nelle giornate vorticose di Istanbul era una merce rara e quasi sempre quella persona si fermava a comprare i suoi simit.

    «Una lira turca» ripeteva decine di volte Beyan durante l’arco della giornata, e i soldi finivano tra le sue mani callose fin dentro le tasche della gonna.

    Le dita agili conoscevano la strada a memoria e lei non distoglieva mai lo sguardo dai suoi acquirenti. Il sorriso era la chiave per attrarli e il suo volto così singolare faceva il resto, quel volto buono, dai tratti distesi e gli occhi grandi a mandorla, la fronte ampia, la bocca larga e carnosa.

    Beyan strappava sorrisi e lire turche ai passanti e quasi ogni giorno aveva la fortuna di tornare a Tarlabaşı prima del tramonto. I turisti stavano già facendo la fila per visitare la torre di Galata quando Beyan si fermò sul marciapiede accanto a un elegante caffè con le tende rosse.

    Le ruote del carretto cigolarono prima di assestarsi e lei tirò fuori da sotto l’asse di legno che sosteneva le ciambelle impilate il piccolo sgabello a tre gambe. Seduta sul precario treppiedi, Beyan guardò un istante il sole che si stava affacciando dietro gli alti palazzi della piazza. Il suo nome voleva dire mattina e quello era l’orario preferito della sua giornata. Sorrise alle sue ciambelle e si mise ad aspettare pazientemente il suo primo cliente.

    Un ragazzo molto giovane con una borsa portadocumenti sotto il braccio si avvicinò a lei porgendole una moneta. Beyan gli porse un simit caldo e sorrise amabilmente. Il ragazzo era assorto nei suoi pensieri e si allontanò masticando lentamente la ciambella croccante.

    Beyan teneva a mente tutti i clienti della giornata e giocava con se stessa cercando di indovinare chi fossero e quali segreti nascondessero.

    Sarà uno studente d’arte e quella cartellina sarà piena di disegni a carboncino di una donna che lui ama segretamente, per questo ha quel volto così assorto e infelice. Forse la donna non lo ricambia perché è sposata e lui l’adora in segreto ritraendola come la vergine Aisha, moglie prediletta del profeta.

    Beyan fantasticava tutto il giorno sui suoi clienti, facendo passare le sue interminabili giornate ferme in un angolo di qualche strada di Istanbul.

    A mezzogiorno la biglietteria della Torre di Galata aveva una discreta fila di turisti che scalpitavano per avere il loro biglietto. Beyan sapeva che quella non era l’ora di punta per salire sulla torre: la coda triplicava nel tardo pomeriggio, quando i visitatori più informati non si perdevano il suggestivo spettacolo del tramonto su Istanbul dall’altezza dei quasi settanta metri della torre. Beyan si augurò di terminare prima la sua giornata, perché, per quanto conoscesse come le sue tasche le strade di Istanbul, il buio non le era mai piaciuto.

    Meltem invece amava il buio, era il suo compagno di vita da quando era nata, e con il buio parlava, litigava se non trovava le cose e intavolava discorsi d’amore quando nell’oscurità riusciva a scorgere la risposta a una delle sue tante domande.

    «Un simit, grazie».

    Una voce maschile la distolse dai suoi pensieri. Non le succedeva quasi mai di non accorgersi dell’arrivo di un cliente e Beyan si rimproverò di non averlo accolto preparata. L’uomo indossava una divisa nera con un basco calcato sul capo e la stava guardando con curiosità.

    Beyan sorrise mentre gli porgeva la ciambella. Aveva qualcosa di familiare nel volto e cercò nella memoria di capire dove lo avesse già visto. Forse proprio lì, nella piazza della torre di Galata, la settimana prima. Sì, ora ricordava: quel poliziotto si era avvicinato per prendere un simit proprio sette giorni prima, nello stesso posto, allo stesso orario.

    Beyan lo aveva immaginato mentre impugnava una grossa pistola nera e tirava colpi a un bersaglio colorato. L’uomo le diede più di quanto doveva e lei cercò il resto nelle pieghe della gonna.

    «Lascia stare» le disse con gentilezza, e le sorrise mentre si allontanava.

    Beyan notò che non aveva neanche avvicinato la ciambella alla bocca. L’uomo aveva

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1