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La promessa dell'assassino
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La promessa dell'assassino
E-book340 pagine4 ore

La promessa dell'assassino

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Info su questo ebook

Autrice del bestseller Ti sto guardando

Numero 1 in Inghilterra e Stati Uniti

«È agghiacciante.»
«Mai letto nulla del genere.»
«Toglie il fiato.»

Doveva essere il loro segreto. Non avrebbero mai dovuto raccontare la verità su ciò che avevano fatto. Trent’anni dopo, Beth e Sally sono quasi riuscite a lasciarsi il passato alle spalle. Hanno perso i contatti con Carol, ma il patto tra di loro è ancora valido e, nonostante gli incubi continuino a tormentarle, non hanno mai parlato dell’accaduto con anima viva. Quando però novità scioccanti minacciano di riportare a galla la verità, Beth e Sally capiscono che non è più possibile far finta di nulla e assumono un investigatore privato per rintracciare Carol, ormai diventata un’estranea, prima che il loro crimine venga scoperto. Ora non sono più tre adolescenti spaventate. Adesso hanno tutto da perdere. Specialmente Beth, che intende proteggere la sua famiglia a ogni costo. E persino la promessa di non rivelare mai l’accaduto potrebbe essere messa in discussione. Ma c’è qualcuno che le osserva ed è disposto a fare qualunque cosa per impedire che parlino.

Un'autrice da mezzo milione di copie

«Una scrittura superba e una storia avvincente vi terranno con il fiato sospeso fino all’ultima pagina.»
The Sun

«Un noir splendidamente costruito.»
Fiona Barton, autrice del bestseller La vedova

«Appassiona grazie a una scrittura vivida e personaggi splendidi. Non riuscirete a togliervi questo romanzo dalla testa neppure dopo aver letto il finale scioccante.»
Jane Corry, autrice del bestseller Le tre bambine

«Una storia oscura e ricca di colpi di scena. Teresa Driscoll racconta il legame indissolubile tra ex compagne di scuola.»
Woman’s Own

«Segreti, perdita e rimorsi in un thriller pieno di suspense: ma non solo. Questo romanzo mostra anche la potenza dell’amicizia e quanto in là ci si possa spingere per difendere le persone amate.»
My Weekly
Teresa Driscoll
Vive nel Devonshire e lavora come presentatrice televisiva per la bbc. Forte di una lunga carriera da gior­nalista d’inchiesta, ha deciso di scrivere thriller realistici e dal sa­pore amaro che analizzano l’im­patto di un crimine sui familiari del­le vittime. Ti sto guardando, il suo esordio nella narrativa, ha ottenuto un grande successo in Inghilterra, Stati Uniti e Australia ed è stato tradotto in sei lingue. La Newton Compton ha pubblicato anche L’a­mica perfetta e La promessa dell’assassino.
LinguaItaliano
Data di uscita20 dic 2019
ISBN9788822741011
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    Anteprima del libro

    La promessa dell'assassino - Teresa Driscoll

    Capitolo 1

    Beth – 2008

    Conoscete quella strana sensazione che si prova quando un suono del mondo reale si infiltra in un sogno?

    Sto fissando un enorme telefono di plastica rossa che suona nel mio sogno e so che si tratta di un sogno perché quell’apparecchio è troppo ridicolo. All’inizio non riesco a svegliarmi e così sollevo la cornetta. Il telefono, però, continua a squillare. Riaggancio e provo di nuovo, ma il suono non smette.

    Alla fine apro gli occhi e sento il telefono reale che squilla accanto al letto. La sveglia segna le tre di mattina. Mi sento assalire dal panico. È morto qualcuno?

    Guardo Adam che russa pacatamente accanto a me. Penso a Sam nella stanza accanto – con le braccia che pendono da un letto di stelle e pianeti – e a Harry nella sua culla. Ma ci sono altre persone che amo e, tremando di paura, accosto il telefono all’orecchio.

    È Richard che mi parla a bassa voce e in tono concitato. «È per Sally. Puoi venire, Beth? Ha perso il bambino». Fa una pausa, in caso non avessi sentito. «Ha perso il bambino».

    Il letto scricchiola mentre mi metto a sedere. Mi copro la bocca con una mano, ma è troppo tardi, mi è già sfuggito un suono così strano che perfino Adam si sveglia e sgrana gli occhi, terrorizzato. Harry si stiracchia e poi si gira nella culla tirando su con il naso.

    Scosto il telefono dall’orecchio e ripeto sussurrando: «Sally ha perso il bambino. È Richard».

    Adam chiude gli occhi e trasalisce. L’empatia per il dolore di Sally cede subito il posto al senso di colpa. Il fugace sollievo che si prova quando la perdita non è nostra, non è uno dei nostri figli a essersene andato.

    Riaccosto il telefono all’orecchio e chiudo gli occhi. «Cosa è successo? Dove sei? All’ospedale?»

    «Siamo ancora a casa. Sta arrivando l’ambulanza, ma lei si è chiusa in bagno. Non mi lascia entrare. Vuole te, Beth. Non aprirà la porta a nessun altro».

    Borbotto che sto arrivando, sbatto giù la cornetta e salto fuori dal letto. Prendo i pantaloni da jogging e il pullover che avevo lasciato sulla sedia, non indosso nemmeno l’intimo e dico a Adam che devo andare da lei. Lui non obietta, mi raccomanda soltanto di guidare piano.

    Cosa che io non faccio. Corro come una pazza, con le lacrime che mi fanno bruciare gli occhi, picchiando sul volante per sfogare la rabbia.

    Quando parcheggio dietro la macchina di Sally, sul vialetto, mi dimentico di tirare il freno a mano e l’auto comincia a indietreggiare, costringendomi a saltare di nuovo dentro per fermarla. Scendendo per la seconda volta, mi graffio una gamba contro la portiera e sento il calore vischioso del sangue sulla caviglia, ma non provo dolore. Non provo nulla.

    Salgo gli scalini davanti all’ingresso e suono una, due, tre volte. Oh, mio Dio! Dove si sarà cacciato? Mentre, come un drago, esalo nuvolette di vapore nell’aria della notte, Richard apre finalmente la porta e scopro che il drago non riesce a parlargli. Vorrei sputare fuoco e ruggire la mia rabbia, riducendolo in cenere e calpestandolo. Per me, ora come ora, questa tragedia non ha nulla a che vedere con lui. Lo odio. Lo odio per la sua infedeltà, la sua arroganza e per non avere voluto quel bambino che ora se n’è andato.

    Entro in casa, lo spingo da parte e mi precipito sulle scale. Nello specchio sul pianerottolo vedo il riflesso di Richard che apre la porta agli infermieri dell’ambulanza e le luci d’emergenza che lampeggiano nel vialetto. Cerco di aprire la porta del bagno, ma è ancora bloccata.

    «Sal, tesoro, sono io, Beth. Fammi entrare».

    Sento i suoi singhiozzi, poi un rumore di passi strascicati.

    «Ti prego, Sally!».

    Alla fine la chiave gira nella toppa, ma non riesco ad aprire la porta perché lei deve essercisi appoggiata contro. La convinco a spostarsi, ma appena entro Sally torna a barricarsi all’interno e mi chiede di chiudere di nuovo a chiave. Cosa che faccio.

    È seduta sul pavimento, con gli occhi sgranati come una bambina dopo un brutto sogno. Indossa una giacca del pigiama di flanella bianca con i cuoricini rossi e al posto dei pantaloni ha avvolto attorno alla vita un asciugamano macchiato di sangue. È pallida e tremante. La stringo a me e mi accorgo che anche io sto tremando. Poi ci stacchiamo e lei mi fissa.

    «Se n’è andato, Beth». La sua voce è poco più di un sussurro, ma la parola andato rimane sospesa nell’aria come una mano che si tende senza trovare nulla da afferrare.

    Poi arriva il rumore di passi sulle scale e voci alla porta. Gli infermieri. Chiedo loro di aspettare e dico a Sally che dovremmo lasciarli entrare. Ma lei scuote la testa e non mi ascolta.

    «Datemi un minuto per parlarle, per favore», urlo da dietro la porta. Sally dondola lentamente il busto, poi si dirige verso la vasca e prende un asciugamano azzurro appallottolato e macchiato di sangue.

    «C’era qualcosa, Beth. Ho paura di guardare». Dapprima sono confusa, non riesco a seguirla, ma il suo sguardo fisso sull’asciugamano è insistente e all’improvviso sono terrorizzata. Non voglio che lo dica a voce alta, non voglio nemmeno che lo pensi. Il dolore le ha fatto chiaramente perdere la testa.

    «Va tutto bene. Non può essere, tesoro. È troppo presto. Non c’è nulla lì dentro. Nulla. Te l’assicuro». Ma lei ha un’espressione tormentata e continua a sgranare gli occhi.

    «Non possiamo lasciarlo lì. Nel caso… Possiamo, Beth? Nel caso…?». Le trema la mano, è sconvolta. Ha perso troppo sangue. Ha perso troppo. Si dondola di nuovo avanti e indietro e io decido di non perdere altro tempo cercando di convincerla. Le scosto i capelli dalla faccia, le tolgo delicatamente l’asciugamano e le prometto che nessuno lo lascerà lì, che mi prenderò io cura di tutto se permetterà agli uomini dell’ambulanza di entrare. Sally annuisce e io non so se sono più spaventata dalla salvietta che tengo in mano o dalla fiducia che vedo nel suo sguardo mentre apro la porta del bagno e gli infermieri si precipitano dentro per assisterla come io non posso fare.

    Sally si è ormai rassegnata, non protesta nemmeno quando Richard insiste per accompagnarla all’ambulanza. Dico all’autista che li seguirò con la mia macchina e faccio un cenno a Sally, stringendo in mano l’asciugamano macchiato per farle capire che manterrò la mia promessa. E lo farò.

    Metto il fagotto in un piccolo beauty-case vuoto che trovo su uno scaffale del bagno, poi, con la nausea che mi sale alla gola, lo infilo nel bagagliaio della mia auto e seguo l’ambulanza. Mi sembra una cosa terribile da fare, anche se sono sicura che Sally dev’essersi sbagliata.

    All’ospedale ci attendono una lunga attesa e un sacco di analisi. Rassicurano Sally che non ci saranno complicazioni, ma lei continua a piangere. Le liscio i capelli, vorrei stare con lei, ma mi fanno aspettare in questa orribile sala d’attesa mentre lei parla con Richard. È una stanza fredda, con un forte odore di disinfettanti e sigarette proibite. In un angolo c’è un distributore di bevande ammaccato con sopra un cartello FUORI SERVIZIO appiccicato con lo scotch da pacchi. Sono tentata di infilarci una moneta per lasciare anche l’ammaccatura del mio piede. Invece cammino avanti e indietro e penso. Il che non è un bene.

    Rivedo lo scatolone, in un angolo della stanza degli ospiti, dove abbiamo già cominciato a raccogliere le cose per il piccolo Sam. Mai sfidare il destino!

    Allungo comunque un calcio al distributore delle bevande e poi, dopo due ore, mi permettono di rientrare nella stanza di Sally, dove scopro che Richard se n’è andato. Sally l’ha mandato via, non per la prima volta, ma per l’ultima. Così, alla fine, la riporto a casa io, guidando più lentamente, questa volta, e poiché non c’è nulla da dire, mi limito a tenerle la mano quando non sono impegnata con il cambio.

    Non mi sorprende che abbia chiuso con Richard. Sally aveva scoperto il suo ultimo tradimento dopo il test di gravidanza positivo. Non ha più nessun motivo per essere coraggiosa, per riprovarci.

    Ricordo benissimo la notte in cui abbiamo scoperto la sua prima tresca: l’ho guardata mentre se ne stava seduta sul tappeto color crema della loro camera da letto a tagliuzzargli i vestiti: il completo Armani, la giacca Hugo Boss. Zac. Zac. Zac.

    Sally rimane da me due settimane e compro una magnolia – una forma di consolazione piuttosto scontata – che nel suo vaso di plastica nera non ha un aspetto particolarmente speciale, ma è l’unica cosa che mi è venuta in mente.

    Nella scuola dove Sally e io ci siamo conosciute c’era una splendida magnolia. Lei l’adorava e si sedeva sempre contro il suo tronco, all’ombra, per leggere con la luce tra le foglie che danzava sul suo viso.

    Scavo un grande buco e lei annuisce: il suo viso, adesso, è in ombra.

    Entrambe sappiamo che nel beauty-case non c’è nulla. E, naturalmente, è proprio questo il problema. Il nulla.

    Seppelliamo comunque la borsa sotto il nuovo albero del mio giardino, con la consapevolezza che il suo sarà venduto. Poi recitiamo una preghiera e diciamo poco altro.

    Adesso l’albero si staglia alto in tutto il suo splendore. La fioritura delle magnolie è breve ma magnifica, come la gioia di Sally per il suo piccolo. Ogni primavera, quando guardo i petali trasportati dal vento, penso alla fragilità dei nostri sogni.

    È la cosa più difficile che abbia fatto per Sally, ma non la più difficile che ho dovuto affrontare.

    Perché c’è un’altra amica – il fantasma di un’amica – che sta aspettando nell’ombra.

    Con altre cose da chiedermi.

    Capitolo 2

    Beth – Adesso

    Trascorrono sette primavere prima dell’arrivo delle lettere: due buste identiche color crema consegnate a due indirizzi diversi. Sally apre la sua nella tranquillità di un appartamento con tappeti e divani bianchi.

    Io perdo la mia.

    Il postino me la passa attraverso il finestrino dell’auto, nel vialetto davanti a casa, mentre stiamo partendo per le vacanze di fine trimestre. Prima di salire in macchina ci sono volute due ore per fare borse e valigie battibeccando con i ragazzi. Guardo Adam e mi chiedo se pensa quello che sto pensando io.

    Prima che avessimo dei figli, amava sorprendermi. «Porta vestiti caldi, Beth», diceva ghignando. Oppure «vestiti da neve», e si rifiutava di dirmi dove stavamo andando finché non arrivavamo all’aeroporto.

    E adesso? Guardo la pioggia picchiettare sul parabrezza e ringrazio il cielo che il resort Forests for Families abbia una piscina coperta. Poi prendo il foglio della prenotazione per impostare il navigatore satellitare.

    «Oh, mio Dio, Adam… che giorno è oggi?»

    «Il sedici».

    Fisso il foglio davanti a me come se guardandolo intensamente potessi cambiarlo, ma non succede.

    Torniamo a casa e scoppia subito il pandemonio.

    «Ci siamo persi la vacanza! Mi stai dicendo sul serio che ci siamo persi la vacanza?». Adesso è Adam a fissare il foglio, pallido in viso, mentre i ragazzi si rotolano sul tappeto, piagnucolando in stereofonia e agitando le gambe in aria come mosconi colpiti dall’insetticida.

    «Com’è possibile confondere le date di una vacanza? La settimana sbagliata!».

    A dirlo è l’uomo che, da quando sono nati i ragazzi, non ha mai prenotato una vacanza né tantomeno mi ha fatto una sorpresa. Per un nanosecondo sono tentata di farglielo notare, ma poi all’ultimo momento mi trattengo. Sono già abbastanza nei guai.

    Il tono della voce di Adam rispecchia l’espressione incredula della sua faccia. Non posso fargliene una colpa perché nemmeno io riesco a crederci. Persino l’impiegata dell’ufficio prenotazioni non ci crede.

    «Avete davvero sbagliato… settimana?», dice.

    Lo so, lo so. Infilo la cornetta sotto il mento mentre lei controlla al computer e faccio segno ai ragazzi e a Adam di fare silenzio, per favore, così potrò perorare con più efficacia la nostra causa.

    Confesso che è colpa mia e che sono piuttosto disperata. Che quando ho prenotato devo avere confuso le date del fine trimestre. Che sono davvero dispiaciuta, ma che troveremo di sicuro un accordo, visto che siamo clienti abituali.

    Cala un breve silenzio. Mi è già stato ricordato che durante le vacanze scolastiche i bungalow sono tutti prenotati. Ho cercato di offrire più soldi, ma lei ha gentilmente declinato. Allora ho chiesto in tono lamentoso come mai non avevano notato che la settimana precedente non ci eravamo presentati. Chi ha dormito nella mia lussuosa camera prepagata la scorsa settimana? L’argomento è sembrato valido. I mosconi hanno smesso di agitare le gambe per ascoltare.

    Alla fine l’addetta alle prenotazioni mi ha offerto un bungalow con la porta del patio leggermente difettosa. «Tecnicamente è fuori servizio per essere rimodernato».

    Le rispondo che ha salvato la mia vita e il mio matrimonio. Annoto il nuovo codice di prenotazione, riaggancio trionfalmente il telefono e sollevo due dita in segno di vittoria.

    Dev’essere stato in quel momento che la lettera mi è caduta dietro il radiatore. Il che spiega perché resto all’oscuro dell’evento che cambierà così disperatamente e irrevocabilmente le vite di tutti noi finché non ricevo la telefonata di Sally.

    «Cosa hai intenzione di fare, allora?»

    «A che proposito?»

    «Non è il momento di scherzare, Beth. È una cosa seria».

    «Mi dispiace, Sal, ma non ti seguo. Non ho ancora finito di disfare le valigie…».

    «La chiusura della scuola, Beth».

    Sto mangiando un panino al tonno e maionese in cucina, circondata da una montagna di panni sporchi da lavare, e tra un boccone e l’altro parlo con Sally. Ho ammonticchiato il bucato a forma di Kilimangiaro per rievocare i giorni in cui non sapevo che le mie montagne sarebbero state fatte di biancheria da lavare e cumuli di terra. Non riesco a credere che in quattro giorni abbiamo indossato tutti quei vestiti. Alcuni non li riconosco nemmeno.

    Distolgo gli occhi dal Kilimangiaro mentre un calzino giallo che non mi è familiare precipita dalla vetta e mi concentro su Sally. Non ho assolutamente idea di cosa stia parlando, ma in questi giorni è tutto molto strano. Il più delle volte nemmeno lei sa cosa sta dicendo.

    «Non ti seguo. Quale scuola?». Penso alla scuola dei miei figli, ma poi mi rendo conto che non può essere quella. L’avrei di certo saputo prima di lei. Allungo una mano per accendere il bollitore.

    C’è una lunga pausa di imbarazzante silenzio. Poi Sally comincia a parlare a raffica.

    «La chiusura del convento. Non hai ricevuto la lettera? Cristo, Beth, devi rinunciare al tuo stupido orgoglio e tornare su Facebook. È una cosa seria. È ovunque. Anche su Twitter. Il convento è a corto di suore. Stanno vendendo il sito e l’edificio sarà demolito insieme alla scuola, al collegio e a tutto il resto. Ci sarà una festa d’addio. Cristo, ci sei anche tu sul sito web della scuola! Non riesco a credere che non hai ricevuto la lettera».

    Soltanto a quel punto, quando il bollitore comincia a fischiare, mi torna in mente la busta color crema con il codice postale del Sussex che tenevo in mano mentre facevamo rientrare i ragazzi sotto la pioggia.

    «Scusami. È stato tutto molto caotico, ultimamente. Devo averla persa».

    Sally mi guarda con aria di disapprovazione. Da quando ha divorziato, la sua vita non potrebbe essere più diversa dalla mia. Speravo che incontrasse una persona carina, ma non è ancora successo, e così conduce una monotona esistenza in un appartamento troppo ordinato e silenzioso, e a parte la ragione, che ha perso molto tempo fa (lo dico con affetto), lei non perde mai niente.

    Inghiotto l’ultimo boccone di panino al tonno e aggrotto involontariamente la fronte. Una strana sensazione mi stringe lo stomaco. Era da anni che non mi concedevo di pensare al convento di St Colman.

    Sal fa una pausa e io vado a prendere il latte nel frigo. Quando torno, sta farfugliando qualcosa sulle suore. Quante di loro saranno ancora vive? Continua a parlare troppo in fretta, in un tono eccessivamente alto, e il mio stomaco è sempre più contratto.

    «Oh, per l’amor di Dio, di’ qualcosa, Elizabeth!». Ha abbassato la voce, adesso, rinunciando alla falsa allegria.

    Elizabeth? Non mi chiama mai così…

    «Cosa diavolo facciamo, allora?». La voce di Sally è a malapena udibile.

    All’improvviso mi sento attraversare da un brivido freddo, e poi arriva qualcosa di più forte e insidioso, come quando un anestetico cessa di fare effetto. Smetto di dividere le pile di bucato e resto immobile. Sono talmente abituata a non pensarci, che lo shock adesso è fisico. Mi formicolano le mani, il sangue mi pulsa nelle vene come se i miei nervi si stessero risvegliando.

    «Quindi pensi che lei lo sappia?».

    Non dice il suo nome.

    Carol.

    Il nome che non pronunciamo.

    «Non lo so, Beth. Ma… è possibile. Cosa ne pensi? Non facciamo nulla? Lasciamo che se la sbrighi lei?».

    Faccio una pausa, più lunga questa volta, per ascoltare il respiro di Sal e il mio cuore, che mi pulsa sempre più forte nell’orecchio mentre accosto il telefono.

    Carol.

    Chiudo gli occhi, come se questo mi isolasse acusticamente dai respiri e dai battiti, ma non funziona.

    «Pensi davvero che lo sappia?»

    «Non lo so. Non lo so. Ma con i social media… è possibile. Probabile. Quindi sei d’accordo? Non facciamo niente? Eh?».

    Mi siedo.

    Carol.

    Tutti questi anni.

    «Beth! Puoi dire qualcosa, per favore?».

    Passano tre giorni prima che Sally e io riusciamo a incontrarci, tre giorni durante i quali mi muovo nella vita quotidiana come una sonnambula. Pilota automatico. Colazione. Caricare la lavastoviglie. Pranzo. Scaricare la lavastoviglie. Avanti. Indietro. Avanti. Indietro.

    Ogni sera guardo il telegiornale e fisso Adam. Immagino riprese di scavatori, operai e fango puzzolente e poi un annunciatore che dice: Un corpo è stato trovato….

    «Va tutto bene, Beth? Sei bianca come un lenzuolo».

    «Sto bene, Adam», mento. Quante bugie.

    La notte non riesco a dormire e così quando alla fine Sally dice che è pronta a incontrarmi, sono esausta. Propone di vederci da Julio’s, sulla High Street, e so bene perché. È per il comfort e la rassicurazione di essere clienti abituali, per il rumore, il trambusto e il senso di normalità che sono così in contrasto con il disagio che stiamo provando.

    Julio’s è il posto ideale, antiquato e impreziosito da candele che sgocciolano cera su fiaschi di Frascati e stampe sbiadite di città italiane incorniciate sulle pareti. Ci sono anche molte fotografie di Julio con la sua amata famiglia e i clienti preferiti. E alcune di star dimenticate che lo chiamano per fargli gli auguri di Natale e interpretano pantomime nel teatro locale al crepuscolo delle loro carriere. Al centro della parete c’è una foto di me e Sally con gli occhi arrossati dal flash e Julio che sorride accanto a una torta di compleanno rosa.

    Nella fotografia Sally è sorridente e divertita, ma non lo è oggi quando arriva, in ritardo e impacciata; mi fa un cenno dalla porta ma si rifiuta di incrociare il mio sguardo, scuote nervosamente l’ombrello e si ferma a chiacchierare un po’ troppo a lungo al bancone prima di raggiungermi.

    Mi faccio coraggio con troppo gin tonic mentre rileggo la lettera trovata tra le ragnatele dietro il radiatore. L’ordine di St Colman è rimasto senza soldi e senza suore. Originario del Belgio, l’ordine aveva assunto la gestione del convento e della scuola qualche decennio fa, ma a quanto pare c’è stata una crisi sia di vocazioni religiose sia di iscrizioni. Il risultato è che il collegio e la scuola secondaria chiuderanno per ridurre le perdite. Le lezioni continueranno soltanto per gli allievi della scuola primaria e l’intero sito sarà venduto per essere ristrutturato. Le allieve del convitto saranno trasferite in altre scuole, dove potranno portare a termine gli studi.

    Il tono della lettera è triste, ma promette un’uscita di scena spettacolare. Non una rimpatriata, questa volta, ma un addio.

    Sally stringe in mano una stampata del messaggio del sito web e si siede, mentre Julio le versa il vino, evitando per il momento di chiederci cosa vogliamo mangiare.

    «Non mi sorprende che non riescano a trovare abbastanza suore», dice Sally sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Come si può vivere senza sesso?».

    Mi viene in mente che in realtà è da quasi tre anni che nemmeno Sally fa sesso, ma mi trattengo dal dirlo.

    «Quindi…». Sta ancora cercando di sembrare brillante, ma continua a giocherellare con i capelli. «Ho pensato molto, ultimamente». Si versa un bicchiere d’acqua, abbassa la voce e infila un’altra ciocca dietro l’orecchio. «Per come la vedo io, non è cambiato nulla. Abbiamo fatto una promessa, Beth. E questo non cambia le cose. Proprio non…».

    La guardo in faccia. I suoi occhi sono stanchi come i miei. «Ascoltami, Sal. Capisco che per te sia particolarmente dura…».

    «No, Beth. Per favore». Alza la voce e due clienti in fondo alla sala si voltano a guardarci. «Scusa, mi dispiace», dice abbassando di nuovo la voce e giocherellando con le posate. Poi sposta leggermente a sinistra il cestino del pane e dichiara: «Non ho intenzione di parlarne, Beth. Non ci riesco. Non è che non me ne importa. Questo lo sai, vero? Ma tu mi chiedi di parlarne e…».

    Ma io muoio dalla voglia di parlarne. Vorrei dirle che ho paura che ci scoprano, che il mio amato marito mi abbandoni e che la mia famiglia imploda.

    Restiamo sedute a lungo in silenzio. Sal stringe le labbra e chiude gli occhi mentre io mi chiedo cosa fare dopo. Penso al vaso di Pandora e alla lealtà. Penso a una promessa che vorrei non avere mai fatto…

    Penso a una stanza piena di sangue. A una bambina con le labbra blu…

    Ma, soprattutto, penso a Carol.

    Le ultime tre notti non sono riuscita a chiudere occhio pensando a lei. Mi sono sforzata di immaginarla in una vita nuova e normale, con una casa, i figli, gli acquerelli.

    Prendo lo spicchio di limone dal fondo del gin tonic, lo infilo in bocca e succhio forte. «Lo sai che non dirò niente. Non dopo tutti questi anni… A nessuno, Sal».

    «Quindi lasciamo le cose come stanno?»

    «Non possiamo. Non questa volta. È troppo rischioso… quando mi hai telefonato la prima volta, sapevi che…».

    «Ero nel panico. Ma adesso ho avuto tempo di pensarci. Lei vorrebbe che lasciassimo perdere».

    Non voglio essere io a dirlo, e così mi giro verso la porta della cucina. Immagino il convento che viene abbattuto. Bulldozer e fango puzzolente.

    «È lei che deve dircelo, Sally. Mi dispiace, ma ho bisogno di sentirlo dalle sue labbra. Questa volta dobbiamo trovarla», dico, parlando in fretta e con gli occhi chiusi, come se questo lo rendesse in qualche modo meno pericoloso.

    Quando alla fine li riapro, Sally fa esattamente quello che temevo. Fissa a lungo la tovaglia e poi solleva lo sguardo su di me con un’espressione che è al di là della tristezza e delle tenebre, uno sguardo disperato che avevo sperato di non vedere mai più sul suo viso.

    Capitolo 3

    Beth – Prima

    Quando ho visto per la prima volta il convento di St Colman, avevo undici anni e non ho mai dimenticato la mia delusione. È stato come scoprire che Babbo Natale non esiste. Un sogno dell’infanzia che viene infranto.

    A essere sincera, è a Enid Blyton che do la colpa, perché durante il lungo viaggio attraverso i frutteti e le campagne collinose del Kent e del Sussex avevo immaginato battute argute e feste di mezzanotte, come una versione di Malory Towers nella vita reale. Mi ero costruita nella mente l’immagine di un maestoso palazzo con stucchi color crema, roseti che si arrampicavano sulla facciata e pony che brucano nel prato.

    I miei genitori erano gonfi di orgoglio all’idea che la loro figlia sarebbe andata in un collegio e per due settimane mi avevano ricordato quotidianamente che grande prestigio mi avrebbe dato quell’esperienza. Non ci era quindi nemmeno passato per la mente che la scuola potesse essere in rovina.

    Quando svoltammo l’angolo e imboccammo lo stretto vialetto verso il grande parcheggio del convento, mi resi conto che

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