Relazioni pericolose: Amori e altri disastri
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Info su questo ebook
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Ma quanti di noi si sciolgono guardando due vecchietti che si tengono per mano, o vedendo due ragazzini che si abbracciano?
Il testo di Alessandro Gianesini esplora, attraverso una serie di racconti e di storie intense e complicate, l’amore in tutte le sue sfaccettature.
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Grazie alla sua scrittura lineare e all’ottima caratterizzazione dei personaggi, l’autore ti consente di conoscere ed entrare in alcuni prototipi di relazioni che, come si evince dal titolo del libro, lui definisce “pericolose”.
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Ha le sue ragioni, ovviamente. Infatti, sebbene molte abbiano un lieto fine, ciò che le contraddistingue è una trama sicuramente complessa, magari non così lontana dalla nostra realtà, che in qualche caso ha portato verso una fine tragica.
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Il testo, nel suo complesso, attraverso la narrazione di brevi racconti, porta il lettore a una riflessione introspettiva.
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Anteprima del libro
Relazioni pericolose - Alessandro Gianesini
163
Petrarca
Sabato 12: il risveglio
Solo et pensoso i più deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,
[…]
Cazzo, i carabinieri: e ora che faccio?
Nessuna pianta, nessuna stradina, cosa mi è saltato in mente? Ok, mi giro e faccio finta di niente. Merda! Mi hanno visto…
La luce del mattino entra dalla tapparella rimasta aperta e mi trafigge le palpebre; mi giro dall’altra parte, ma la mia faccia finisce nei suoi capelli biondi: hanno un buon profumo e io me ne riempio i polmoni.
«Ehi, che c’è?» ha la voce impastata e si dimena un po’.
«Niente, sta’ tranquilla» la bacio dietro l’orecchio e mi alzo. «Tu continua pure a dormire» anch’io ho la bocca impastata, e la bottiglietta d’acqua sul comodino è vuota.
Che razza di sogno era? Petrarca? La quarantena?
Vado in bagno e mi lavo la faccia. E perché l’ho fatto? Perché l’ho baciata? Nemmeno ricordo il suo nome…
Mi stiracchio e mi metto a pisciare, sbirciando fuori dalla finestra: è sabato ed è l’alba, praticamente. Che cazzo ci faccio già in piedi? «Alice!» sorrido trionfalmente; lo scrollo e lo rimetto nei boxer. Sì, il nome è quello… forse.
Mi lavo le mani e vado in cucina. Accendo la macchinetta e mi faccio un caffè: c’è la sua borsetta sul divano. Mi guardo intorno come se fossi un ladro, ma alla fine ci guardo dentro: telefono, agendina, chiavi della macchina. Ecco, il portafoglio!
Come fa a starci tutta ‘sta roba in una borsetta così piccola? C’è pure la mia cravatta, ma se la tolgo, poi, se ne accorge che ci ho guardato dentro e magari mi fa una scenata. Fa niente: se la tiene, me ne comprerò un’altra.
La carta d’identità conferma: Alice. Alice Quintana: ma che razza di cognome è?
Rimetto tutto com’era e torno in camera da letto.
Quasi mi dispiace svegliarla, ma già ho fatto un’eccezione a farla dormire qui: non era certo in grado di guidare ieri sera. E poi dicono che sono un bastardo: ho fatto in modo che non si ammazzasse e sono fiero di me. Certo, avrei potuta riaccompagnarla e tornare a piedi, oppure riaccompagnarla e poi ritornare a casa con la sua auto, ma questo mi costringeva a rivederla. Un bel pasticcio. Ormai è fatta. Però è bello guardare le sue tette che si alzano e si abbassano a ogni respiro.
Sì, certo: a chi la racconto? Sto solo temporeggiando. Non ci credo nemmeno io a… Hai finito? Basta con questa sceneggiata: se ne deve andare!
Mi chino accanto al letto e col dito le sfioro i capelli e glieli levo dalla fronte per poi baciargliela; lei sorride senza aprire gli occhi.
No, non posso. Un idiota, ecco cosa sono. È ora che se ne vada, meglio per entrambi.
«Alice?» le sfioro il nasino e le bacio pure quello; mi risponde con un «Mhmm». Scuoto la testa e guardo il soffitto.
«Alice, tesoro» le sussurro all’orecchio «non vorrai farti trovare qui quando torna mia moglie, vero?»
Spalanca gli occhi e si mette a sedere, tirandosi su il lenzuolo a coprire il seno nudo; se non fosse che la sto cacciando, tornerei a letto con lei: non so se è stata la migliore scopata, ma era da un po’ che non me la spassavo così.
«Tua… tua mo… moglie?» balbetta, sbattendo le palpebre e inizia a guardarsi attorno.
«Sto scherzando, tesoro» le sorrido. «Avresti dovuto vedere che faccia!» mi lancia una scarpa tacco dodici e per poco non mi prende in un occhio. «Ehi, ma sei impazzita?»
«Sei uno stronzo» mi ringhia contro nell’alzarsi. «Solo uno pezzo di merda fa di questi scherzi» si china a raccogliere il reggiseno. «Girati, non voglio che mi guardi!»
Ahia, l’ho fatta incazzare e un po’ mi spiace, ma la scena è comunque divertente, così mi allungo e afferro le sue mutandine di pizzo bianco. «Posso tenere almeno queste, come ricordo?» sghignazzo e schivo il suo slancio per venirsele a riprendere.
«Ridammele! Sei proprio uno stronzo, sai?» ma io faccio di no con la testa, tenendole lontane dalla sua portata, quindi si mette a battere i pugni sul mio petto, e sembra che abbia le lacrime agli occhi. «Sì, sei proprio uno stronzo.»
Mi insulta a ogni colpo e sento che singhiozza: il rimmel le cola lungo le guance.
Lascio cadere per terra il suo intimo e le blocco i polsi: «Sono uno stronzo, hai ragione, ma posso sempre farmi perdona…» mi assesta una ginocchiata nelle palle che mi toglie in fiato. Mi accascio boccheggiante.
«Tienitele pure…» si riveste davanti a me senza rimettersi le mutandine. «Però stasera, quando torno, le voglio lavate e stirate come si deve, stronzo!» mi appoggia il piede sulla spalla e sotto la gonna corta si intravede la peluria della sua vagina. «Capito, stronzo?» annuisco e lei mi spinge indietro, facendomi finire lungo e disteso. «Stasera vedi di farti perdonare» mi scavalca e io riesco a dare un’altra sbirciata «oppure te li ritrovi in gola, i coglioni.»
Due volte di seguito con la stessa? Alice.
Mi sto rammollendo, è così. Però, Alice…
Idiota, sono solo un idiota. Alice Quintana: che cosa mi hai fatto?
Venerdì 11: la cena
Dove sei finito, Andrea? Non è che mi dai buca, vero?
Sono qui da quasi un’ora e ho già bevuto due bicchieri di prosecco: il barista, quando non fa battute per provarci, mi guarda le tette; continuo a ridere come un’oca, ma sento che il vino sta facendo effetto.
E tu non arrivi: dove sei? Ti ho anche mandato un messaggio, ma non l’hai ancora letto. Ora ti chiamo…
«Ehi, ciao!» mi prende per le spalle e mi bacia sulle guance «Scusa per il ritardo, ma l’ultimo cliente…» sì, l’ultimo cliente, certo… Non lo ascolto nemmeno, mi sta dicendo qualcosa sul farsi una doccia, ma non riesco a smettere di fissare quel suo bel faccino, la barbetta incolta e gli occhi: come si fa a non perdersi in quel verde? «Che dici, andiamo?»
«Come, scusa?» sbatto le palpebre e deglutisco.
Mi si avvicina e me lo ripete all’orecchio: «Ho chiesto se vogliamo andare. Tutto a posto, tesoro?».
Annuisco e mi schiarisco la voce: «Ce… certo» continuo a far cenno di sì, mentre cerco nel portafoglio i dieci euro: il barista li prende, lascia il resto e saluta, ma si vede che gli girano le palle. Cosa credeva? Che fossi lì per lui?
«Hai bevuto qualcosa, intanto che aspettavi?» mi cinge i fianchi e mi scorta all’uscita «Se vuoi guido io…» continuo ad annuire. Avrò le guance rosse da far spavento: perché ho bevuto? Farò la figura dell’idiota e non lo rivedrò più, ci scommetto. Lui però spinge la porta del bar e mi fa passare. Io, intanto, traffico ancora con la borsetta in cerca delle chiavi.
«Tieni…» gli sfioro la mano e lui mi sorride, iniziando a premere il pulsante d’apertura. Le frecce lampeggiano, si sente il bip della chiusura centralizzata e ci dirigiamo verso l’auto. Anche se si è tolto la cravatta, che gli spunta dalla tasca della giacca, è elegante in quel completo blu.
«Prego, prima le signore…» mi apre la portiera e attende di fianco, ma non stacca gli occhi dalle mie gambe: bene! Soldi ben spesi, quelli dall’estetista. Sale anche lui e sistema sedile e specchietto: «Era per le otto, giusto?» allunga il braccio verso di me e sussulto, ma si sta solo appoggiando al sedile per fare la retromarcia e uscire dal parcheggio.
«Sì, avevi detto alle otto, otto e un quarto…» mi metto la cintura e lo guardo: «Siamo in ritardo?».
«No, sta’ tranquilla: conosco una scorciatoia per evitare il traffico» mi guarda e ammicca. «Scusa per la macchina, ma la mia mi ha lasciato a piedi col motorino d’avviamento» scrolla le spalle e inclina il busto verso di me, con una mano sulla leva del cambio e l’altra sul volante. «Sei mai stata al Belvedere?»
Io scuoto la testa: «No, mai stata» mi guardo la gonna nera. «Dici che il vestito va bene…»
«Non te l’ho ancora detto che sei bellissima? Allora sono proprio un maleducato» mi rimira da capo a piedi e io abbasso subito la testa. «Ehi! Che succede, tesoro?» mi prende la mano e se la porta alla bocca. «Non mordo mica! Non subito, almeno…» e si porta le mie dita alla bocca, fingendo di addentarle.
«È che…» non ho più salivazione e fatico a deglutire «Niente, sono solo contenta di uscire a cena con te» ritiro la mano e gli prendo la cravatta che fa capolino della giacca. «Se vuoi, questa, te la tengo io.»
Mi fa cenno di sì, tornando a guardare la strada: «Grazie, me n’ero scordato: meglio che in tasca, sicuro».
Il panorama è stupendo e il tavolo che ci hanno riservato è proprio vicino alla balaustra: si scorge buona parte del lago. Lui è brillante e si vede che è a suo agio: ordina il vino e le pietanze per tutti e due, ma prima mi chiede se va bene la scelta. È strano essere qui con lui: fino a un mese fa nemmeno sapeva chi fossi e aveva una ragazza diversa…
Oddio: non è che poi, dopo stasera… Sì, può essere; però, se mi comporto come si deve, magari…
Basta, cerchiamo di goderci questo momento; poi vedremo che succede, ma intanto la testa si abbassa.
«Ehi, tesoro» mi sento addosso i suoi occhi verdi e quando sollevo lo sguardo dalle mie mani, appese al bordo del tavolo, li incrocio: il tempo sembra rimanere sospeso per un momento, poi lui fa un cenno e io allungo la mano, che lui mi afferra con delicatezza; col pollice mi carezza le nocche: «Allora, ti piace il posto?» mi guardo di nuovo intorno e le luci accese dei paesi del lungolago si riflettono sull’acqua creando un effetto meraviglioso. «Volevo che fosse tutto perfetto: per fortuna non ha piovuto.»
Il cameriere porta il vino e gliene versa un goccio: lui assaggia e dà l’ok. Poi versa a me per prima. Andrea mi guarda, mi strizza l’occhio e, quando l’altro se n’è andato, alza il calice: «A questa splendida serata?».
I bicchieri tintinnano e io bevo: è buonissimo. «Sai che non me l’aspettavo un tuo invito?» poso il bicchiere e mi sporgo verso di lui: «Mi piace star qui con te, però ecco…».
«Non è colpa di nessuno se non ci hanno presentati prima!» sorseggia il vino e sbircia verso i tavoli che ci affiancano «Ogni tanto vengo qui con dei clienti, ma credo non mi abbiano mai visto con una donna» si protende in avanti. «No, mi sbaglio: una donna ce l’ho portata, in effetti» ridacchia «ma aveva almeno il triplo dei tuoi anni, quindi non conta.»
«Scemo…» bevo un altro goccio di vino e il cameriere arriva con gli antipasti.
Mangiamo e parliamo, lui racconta aneddoti divertenti e ascolta quando gli racconto