Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Maschere di Cristallo
Maschere di Cristallo
Maschere di Cristallo
E-book487 pagine6 ore

Maschere di Cristallo

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Una notte di passione getta scompiglio nella vita e nella carriera della bella Loreley, giovane avvocato di New York, alle prese con un delicato caso giudiziario dall’esito in apparenza scontato. Pur di scoprire la verità, la donna decide di vestire anche i panni di detective, intrufolandosi in un ambiente ambiguo e poco raccomandabile. Intorno alla protagonista ruotano diversi personaggi: un vecchio amore, la famiglia, gli amici, i colleghi, ma soprattutto Sonny, un pianista e compositore ancora legato al proprio passato. Alcuni di loro restano fedeli a se stessi, altri si celano dietro maschere di cristallo, che il rapido e incalzante susseguirsi degli eventi finirà con l’infrangere.
416 pagine
 
LinguaItaliano
Data di uscita16 feb 2020
ISBN9788832144376
Maschere di Cristallo

Correlato a Maschere di Cristallo

Ebook correlati

Narrativa di azione e avventura per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Maschere di Cristallo

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Maschere di Cristallo - Terry Salvini

    978-88-32144-26-0

    Terry Salvini

    Maschere di cristallo

    Maschere di cristallo

    di Terry Salvini

    © 201 9 Aporema Edizioni

    www.aporema.com

    Imparerai a tue spese che lungo il tuo cammino

    incontrerai ogni giorno milioni di masche re

    e pochissimi volti.

    (luigi Pirandello)

    Nessuno può portare a lungo la masche ra

    (Seneca)

    Ai miei ex mariti

    Alle mie figlie

    Al mio compagno.

    Prologo

    Loreley riemerse da un sogno confuso, la pelle madida di sudore, la bocca impastata e un doloroso pulsare all e tempie. Le massaggiò, cercando di spiegarsi la ragione di quel malessere , ma la sua mente non voleva proprio collaborare.

    Sbatté le palpebre più volte prima di aprirle del tutto. Ogni cosa intorno a lei era immersa nel buio; solo una piccola e fastidiosa luce a LED disturbava quell'oscurità: come al solito, John si era dimenticato di spegnerla prima di mettersi a dormire.

    Si girò verso di lui sbuffando, pronta a rifilargli una gomitata, quando un dubbio la fece irrigidire. Guardò di nuovo il LED rosso: non si trovava di fronte a lei, dove avrebbe dovuto essere!

    Quello non era il LED del televisore, pensò.

    Si sforzò di mettere a fuoco qualche particolare della stanza e, quando i suoi occhi si abituarono, riuscì a intravedere le sagome scure dei pochi mobili che le stavano intorno: nessuna le sembrò familiare.

    Non era nella sua camera!

    Sentì un respiro più forte degli altri, quasi un rantolo; il letto ondeggiò e capì che il fidanzato si era appena voltato dalla sua parte. Un forte odore di alcool la sconcertò: lui doveva aver bevuto parecchio. E forse anche lei, intuì un attimo dopo.

    Scivolò via lenta da sotto le lenzuola, ma le gambe non la sostennero e dovette sedersi sul letto. Al mal di testa si era aggiunta la nausea.

    Ci mise parecchi secondi prima di alzarsi di nuovo. S olo quando ebbe la sicurezza di reggersi bene, si diresse verso il LED , convinta che segnalasse la presenza di un interruttore della luce. Lo toccò più volte. Non si accese nulla.

    Fu assalita da un altro dubbio.

    Tornò indietro, aggirò il letto e allungò una mano verso l'uomo che appariva sprofondato in un sonno pesante, sfiorandogli i capelli e il viso per studiarne i lineamenti, attenta a non svegliarlo.

    All’improvviso ritirò il braccio, i l cuore sembrò fermarsi un istante, per poi riprendere a battere veloce come non mai.

    Con chi diavolo era finita a letto ?

    Doveva andar via di lì il più in fretta possibile, decise.

    D ove aveva lasciato i vestiti?

    Trovò a tastoni mutandine e reggiseno sotto il lenzuolo.

    Dop o un interminabile minuto, si riappropriò anche del- l'abito, finito ai piedi del letto, e della borsetta, che se ne stava lì impettita sulla poltrona: l'unico oggetto al posto giusto.

    Con la mano tesa in avanti, individuò la porta del bagno e accese la luce. L'immagine che lo specchio le rimandò la fece sussultare: gli occhi azzurro carico erano cerchiati di nero per via del mascara colato e delle occhiaie, mentre il viso mostrava un pallore sconcertante.

    Sospirò: erano anni che non si vedeva ridotta in quello stato.

    Osservò i piccoli contenitori sul ripiano accanto al lavello, i candidi asciugamani ripiegati sulle maniglie e i due accappatoi immacolati, appesi ognuno al rispettivo gancio. Ebbe così la prova di trovarsi in una stanza d'hotel; come ci fosse finita, però, proprio non lo ricordava.

    Lavò il viso e dopo aver sistemato alla meglio i lunghi capelli biondi con il minuscolo pettine in dotazione ai clienti, si girò verso la finestra. Fuori era ancora buio, non riusciva a vedere niente, nemmeno la luna in cielo, allora tirò fuori il cellulare dalla pochette: le quattro e dieci.

    Un suono stridulo l'avvertì che la batteria era quasi scarica. Si affrettò ad abbassare la suoneria e ad attivare la localizzazione. La mappa segnalava un punto nell'Uptown di Manhattan, nei pressi di Central Park. Era poco distante da casa, pensò sollevata, un attimo prima che il telefonino si spegnesse con una lieve vibrazione.

    Lo rimise a posto, accanto a un piccolo e tondo astuccio d'argento: il suo porta pillole. Lo fissò come se all'interno ci fosse qualcosa che potesse aiutarla a riacquistare la lucidità e il giusto equilibrio. Un'ancora di salvezza in grado di fermare tutte le sue sensazioni negative. Fece per prenderlo, ma ci ripensò. Forse era anche colpa di quella sua debolezza se adesso si trovava in una situazione assurda.

    Richiuse la borsetta; meglio lasciarlo dov’ era.

    Si voltò e non appena posò lo sguardo sul suo abito elegante, appoggiato sullo sgabello, le balzò alla mente l'immagine tremolante di due sposi che brindano al loro futuro insieme.

    Tentò di ricordare qualcosa in più, ma rinunciò: non c'era tempo per pensare. Si rivestì in fretta per tornare in camera.

    Accidenti, le scarpe!

    Le c ercò a lungo, nell'oscurità, finché non inciampò sulle su e décolleté. Si tappò la bocca e l'imprecazione che le stava sfuggendo fece inversione di marcia per tornare all'origine. Trattenne il fiato, affinando l'udito: il lieve russare dell'uomo continuava senza interruzioni.

    Lei riprese a respirare.

    Ancora a piedi nudi uscì di soppiatto dalla stanza. Solo quando fu nell'ascensore si rimise le scarpe. Raggiunta la reception, si fece chiamare un taxi.

    Fuori, il cielo notturno tendeva al grigio scuro e l'aria era satura di umidità, così come la strada, dove circolavano ancora pochi veicoli; di lì a qualche ora sarebbe stata invasa da una miriade di automobili e di gente con una fretta indiavolata di raggiungere il posto di lavoro.

    Anche lei quella mattina doveva adempiere al proprio dovere, nonostante la nausea, il mal di testa e la faccia sconvolta: la carriera non si conciliava con le assenze dal lavoro.

    Il taxi arrivò nel giro di pochi minuti. Con passo incerto, si diresse verso la portiera che l'autista nel frattempo le aveva aperto ma, mentre scendeva dal marciapiede, slittò su una piccola pozzanghera. Per non finire a terra si aggrappò all’uomo, che la sostenne.

    Eh, no. Basta cadere fra le braccia di sconosciuti!, si disse divincolandosi dalla sua presa .

    Lo vide fare un passo indietro.

    «Volevo solo aiutarla a entrare...»

    Loreley lo osservò qualche istante: la luce del lampione le rimanda va un viso paffuto dallo sguardo divertito.

    «Faccio da sola, grazie» gli rispose brusca.

    Con movimenti incerti si sedette sul sedile posteriore, mentre il tassista si sistemava alla guida.

    «Dove andiamo, signorina?»

    Loreley gli diede l'indirizzo, poi con una smorfia di dolore si passò una mano sotto la nuca.

    «Sta bene? Se vuole posso portarla in ospedale.»

    «No, non ne ho bisogno. Passerà…»

    «Ha alzato un po' il gomito, eh?!»

    Sbuffò. «Non credo siano affari suoi.»

    «Va bene, ma veda di non vomitarmi sul sedile o sarò costretto ad addebitarle un supplemento…»

    Loreley gli fece una smorfia attraverso lo specchietto retrovisore. «Non succederà. Ho solo un gran mal di testa: un paio di ore di riposo, un caffè e tornerò come prima.»

    «Spero che prima sia molto meglio di adesso » commentò ironico l’autista, un attimo prima di emettere un verso simile a una risatina trattenuta a stento.

    «Vada al diavolo!»

    Se la scampo, giuro che non farò più niente del genere.

    1

    Loreley si alzò dalla sedia e si avvicinò alla finestra del suo ufficio. Era stanca di stare seduta dietro a una scrivania a sfogliare codici e a scrivere al computer, tanto più che di lì a poco avrebbe dovuto recarsi in tribunale.

    Anche se non poteva scorgere le nuvole, avvertiva che presto avrebbe ricominciato a piovere; il suo umore virò sul grigio, come il cielo di quegli ultimi due giorni, un colore che odiava e le metteva tristezza.

    Rimase a lungo con lo sguardo fisso sulle vaste vetrate azzurrine del grattacielo di fronte, il pensiero concentrato su ciò che le era successo la notte prima. Cercava di rammentare la sequenza degli avvenimenti, ma i ricordi nella sua testa assomigliavano a una vecchia pellicola sgranata e rovinata, dove i fotogrammi scorrono veloci per poi incepparsi sempre nello stesso punto.

    Aveva ben in mente la cerimonia delle nozze di suo fratello, il pranzo al ristorante di un hotel a Manhattan, le musiche e i brindisi, tanti quante le attenzioni che aveva subito da parte degli uomini presenti: erano numerosi i volti mai visti prima della festa, altrettanti erano quelli c onosciuti da tempo. F ra que sti ne spiccava uno in particolare, che nelle ultime ore la tormentava e lei temeva che appartenesse alla persona con la quale aveva lasciato il ristorante per salire in camera.

    Spero che non sia proprio lui!

    Stava ancora fissando l'interno dell'ufficio, che si intravedeva attraverso i vetri del grattacielo davanti, quando un rumore alle sue spalle fermò il rincorrersi dei pensieri.

    «Loreley, sei ancora qui?»

    Lei si voltò verso Simon Kilmer, un uomo dalla pelle tanto candida quanto i suoi pochi capelli.

    «Scusami, stavo riflettendo su alcune cose. Vado subito.»

    Si scostò dalla finestra e tornò alla scrivania, in un angolo della stanza, per recuperare i suoi appunti. Urtò una cartella di documenti, che a sua volta sbatté contro il portapenne facendolo rovesciare. Il contenuto rotolò sul ripiano di mogano prima di finire sul pavimento di marmo.

    «Che cos’hai, oggi?» le chiese Simon. «Sei nervosa per il processo Desmond? Mi dispiace, ma dovrai essere presente in quell'aula di tribunale» le disse con voce autoritaria. «È il minimo che puoi fare per indurmi a dimenticare che ti sei rifiutata di accettare il caso. Hai rischiato di giocarti…»

    «Non c'entra niente il processo!» lo interruppe inginocchiandosi a raccogliere penne e matite. Alzò per un attimo lo sguardo e bloccò la successiva domanda. «Stai tranquillo, i miei problemi riguardano soltanto la mia vita privata. E adesso per favore non chiedermi al tro.»

    Sistemò il portapenne al proprio posto, si tolse gli occhiali e li mise nella borsa, senza più parlare.

    Kilmer si toccò la macchia scura sul viso, una voglia a malapena visibile sotto la barba bianca . «Non ho alcuna intenzione di essere invadente. Ma di qualunque cosa si tratti, cerca di tornare sveglia e attiva: sei distratta e sembri esausta. Le feste portano via tante energie…» Le sorrise, come per farle capire che forse aveva immaginato il problema.

    Loreley non rispose alla provocazione e abbozzò un sorriso. Per quanto astuto fosse quell'uomo, non poteva di certo aver intuito ciò che lei aveva fatto. « Seguir ò il tuo consiglio.»

    «Corri, adesso, o arriverai quando tutto sarà finito. Mi raccomando: fammi sapere al più presto com'è andata. Lo voglio sentire da te e non da Ethan, intesi?»

    «Ho forse scelta? So bene che altrimenti me la faresti pagare in qualche modo» ribatté prima di uscire dalla stanza.

    Prese un taxi, come era sua abitudine quando si muoveva per lavoro.

    «Mi porti al 100 Centre Street, i l più veloce possibile, per favore» disse al tassista, un giovane dall'aspetto asiatico e dalla corta capigliatura liscia.

    Percorsi un paio di chilometri, il mezzo vibrò e un rumore anomalo sembrò allarmare il conducente.

    E adesso che sta succede ndo ? si chiese Loreley.

    Maledicendo la cattiva sorte, l’uomo si spostò su un lato della strada per cercare un punto idoneo dove accostare, ma perse altri minuti preziosi prima di riuscire a trovarlo. Aprì la portiera, uscì e fece il giro del veicolo, controllandolo con attenzione.

    «Stamane mi va tutto storto!» esclamò con un gesto di rabbia. « Ci mancava una ruota a terra! »

    Oh, no! Questa proprio non ci voleva ! pensò lei uscendo a sua volta dall’ automobile .

    «Quanto ci vorrà per cambiarla?»

    «Almeno un quarto d'ora, signorina.»

    «Non me lo posso permettere!» La voce subì una forte impennata.

    «Mi dispiace, non dipende da me; lo vede anche lei» rispose mostrandole la gomma anteriore quasi sgonfia.

    Loreley sbatté lo sportello. «Mi dica quanto le devo. In fretta, per favore.»

    «Lasci stare, a quanto pare oggi non è proprio uno dei miei giorni più fortunati.»

    «Nemmeno uno dei miei…»

    Tirò fuori dal portafoglio dieci dollari e li allungò all'uomo, che nel frattempo aveva aperto il bagagliaio per prendere l'attrezzatura necessaria a cambiare la ruota. Lo vide infilarseli in tasca senza esitazioni, ringraziandola con un sorriso.

    Loreley si allontanò fino ad arrivare all'incrocio con la strada principale e osservò le numerose automobili di ogni modello e colore che le sfrecciavano accanto. Quando adocchiò un taxi, alzò una mano per richiamarne l'attenzione, ma questo filò dritto senza nemmeno rallentare.

    Ne vide arrivare un altro e con la speranza di fermarlo enfatizzò il gesto, che però andò a vuoto. Provò di nuovo: niente da fare! Quelle maledette auto gialle proseguivano per la propria strada, indifferenti al suo dramma.

    Possibile che non ci fosse un maledetto taxi libero?

    Tentò un’ultima volta, sbracciandosi fino a sentirsi ridicola: ancora niente! Con un sospiro si voltò e tornò dal tassista.

    «Senta… quanto tempo ci vuole per finire?»

    «Qualche altro minuto, signorina» le rispose mentre avvitava uno dei bulloni della ruota.

    «Ok. Facciamo così.» Prese alcune banconote. «Se mi porta in tribunale entro le undici, questo diventerà per lei uno dei suoi giorni più fortunati.»

    L'uomo arrestò ogni gesto per contemplare la generosa offerta della sua cliente, quindi riprese a lavorare con più solerzia. Nel giro di un paio di minuti era di nuovo al volante con lei che, seduta sul sedile posteriore, guardava il display del cellulare contando i secondi che passavano.

    Il traffico intenso all'altezza di Hell's Kitchen rallentò la corsa del taxi fino a costringerlo quasi a fermarsi. Ormai si procedeva a passo d'uomo. Il suono dei clacson mostrava tutta l'impazienza dei guidatori.

    «Non c'è uno svincolo per uscire da questo casino?» domandò Loreley.

    «Mi dispiace, signorina. Pensa che se ci fosse non lo prenderei?»

    «Mi sto giocando il posto di lavoro!»

    «Non sa quanti clienti salgono qui, ognuno con la propria storia. Alcuni restano muti e quasi immobili, ignorandomi per tutto il tragitto, mentre altri sono così nervosi… come se il sedile gli scottasse sotto al culo. E straparlano come lei.»

    Loreley riuscì a vederlo sorridere dallo specchietto retrovisore e si sforzò di ricambiar lo , incassando la graffiante risposta.

    «Ma c'è una cosa che tutti hanno in comune» proseguì lui. «Una fretta infernale di arrivare a destinazione.»

    Lei fece un respiro profondo per calmarsi. «Mi sono già scusata, cos'altro dovrei fare?»

    «Niente! Preferisco i clienti come lei, signorina, a quelli mummificati.»

    Stavolta Loreley g li sorrise con più convinzione. Con tutti i soldi che ti ho dato !, pensò po sando poi il capo sul poggiatesta. Il s olito dolore dietro al collo era diminuito quel tanto da permetterle di lavorare, ma non l’aveva abbandona t a del tutto .

    Forse quello era il momento buono per ricorrere all’analgesico : il medico le aveva ripetuto più volte di assumerlo quando il dolore non era ancora troppo forte e di raddoppiare la dose soltanto nel caso fosse stato davvero necessario. La testardaggine e i troppi impegni però l’avevano indotta ad agire con casualità, col risultato che nel giro di qualche anno si era ritrovata ad aver bisogno di una dose maggiore.

    Tirò fuori dall a borsa il piccolo contenitore d'argento, l o apr ì, prese una pasticca e lo richiuse, quindi si soffermò a osservare le due L in oro lucente incise sul coperchio: al tempo, Lorenz Lehmann, suo nonno ; oggi, Loreley Lehmann.

    Come temeva, arrivò al tribunale in ritardo. Nonostante il tassista non fosse riuscito a mantenere il patto, gli lasciò l'intera somma già elargita, per compensarlo del fatto che si era dovuto sorbire tutto il suo nervosismo.

    Salì di corsa l'ampia scalinata marmorea che conduceva all'entrata dell'edificio, nella speranza di assistere almeno al verdetto. Per fortuna sapeva dove andare e non doveva sprecare altro tempo a chiedere informazioni; era facile perdersi in quell'ambiente tanto vasto, se non lo si conosceva più che bene.

    Ancora prima di entrare nell'aula, però, capì che la sentenza del caso Desmond era stata già emessa: la porta era aperta e alcune persone ne stavano uscendo.

    Accidenti, troppo tardi! Chiuse la mano a pugno e la batté su un piano invisibile.

    Ferma sull'uscio, diede un'occhiata veloce all'interno: la luce che filtrava dalle tapparelle delle finestre era debole, ma sufficiente a scorgere sui volti della gente la tensione non ancora scemata; pubblico e giurati stavano lasciando il proprio posto, così come il giudice Sanders, una donna anziana e minuta, che imboccò la porta in fondo all’aula.

    Loreley entr ò, tra il brusio in crescendo, per cercare il suo collega Ethan Morris. Lo trovò in piedi ancora accanto all'imputata, Leen Soraya Desmond.

    Come se avesse avvertito il suo arrivo, Ethan si voltò verso di lei e accennò un sorriso tirato. Un attimo dopo anche Leen si girò e i suoi occhi dal taglio orientale si contrassero.

    «Non finirà così, Lehmann!» le urlò questa. «Prima o poi avrò la mia rivincita!» Mentre due agenti in divisa la portavano via, rivolse l'attenzione su un uomo bruno che, poco più in là, stava osservando la scena. «Mio padre non si dimenticherà di te e di quello che mi hai fatto… Mai!»

    «Ne anche io dimenticher ò , Leen! Puoi starne certa» le rispose lu i con voce forte e determinata.

    Incuriosita , Loreley esaminò l'oggetto, o meglio il soggetto, di tanta acredine, e appena lo riconobbe s'irrigidì, fissandolo come in trance. Nella mente, le clip della vecchia pellicola ripresero a fluire, stavolta vivide, veloci, senza interruzioni.

    Oh, mio Dio! È lui !

    «Che ti succede? È per via di quello che ti ha detto la mia cliente?» le chiese Ethan, avvicinandosi.

    Lei si slacciò l'aderente giacchetta blu, che in quel momento le impediva di respirare, finché il petto si sollevò per fare entrare l'aria nei polmoni.

    «Non proprio. Sono solo un po' stanca.»

    L'avvocato le sorrise, annuendo. «Immagino che ieri sia stato una specie di tour de force.»

    «Sì. E poco fa rivedere quella donna…» Guardò la porta da dove Leen era appena uscita. «Beh… non è stato di certo un piacere. Inoltre non sono riuscita ad arrivare in tempo.»

    «Stai tranquilla. A Kilmer non dirò del tuo ritardo, né a lui né a Sarah. Se verrai a pranzo con me, ti racconterò tutto quello che è stato detto, così nel caso ti facesse il terzo grado saprai cosa rispondergli.»

    «Ti ringrazio. Sappi però che non ho tardato di proposito: il taxi ha bucato una gomma.»

    «Kilmer non ti crederebbe, ma io ti conosco meglio di lui. Adesso andiamo a mangiare: è l'unico piacere che mi è rimasto.»

    L'uomo bruno che aveva appena avuto lo scambio di frasi astiose con l’imputata, li raggiunse e li bloccò appena fuori dalla soglia. Loreley strinse il manico della borsa fin quasi a conficcarsi le unghie nel palmo della mano.

    «Avvocato Morris, mi complimento con lei per l'ottima difesa, ma sono felice che non sia stata sufficiente a farla vincere» disse il nuovo arrivato poco prima di sorridergli, mentre lei per discrezione faceva un passo indietro.

    «Posso capirla, mister Marshall.» Ethan sembrava impacciato.

    «Le auguro una buona giornata, avvocato» disse ancora l'altro, poi spostò lo sguardo su Loreley. «Ciao, Lory.» La fissò a lungo, come se volesse parlarle ma non sapesse ancora che cosa dire.

    Sopraffatta da sensazioni e pensieri contrastanti, aprì la bocca per contraccambiare il saluto: non riuscì a pronunciare una sola parola.

    Lui le sorrise, anche se gli occhi dal colore simile all’ambra apparivano seri. «La prossima volta preferirei che ci vedessimo lontano da questo luogo» terminò. L e voltò le spalle e si allontanò.

    Ethan si grattò la nuca rasata a zero. «Che hai, Loreley? Non lo hai nemmeno salutato.»

    «Scusami… non so cosa mi abbia preso.»

    Lo vide scuotere il capo, mentre gli occhi esprimevano confusione.

    «Va be', andiamo: stamane non ho fatto colazione per la tensione e adesso che tutto è concluso la fame si fa sentire.»

    ***

    Trascorse una settimana, durante la quale Loreley si sentì più serena e riuscì a non pensare troppo al guaio che aveva combinato. Le poche volte che succedeva, soprattutto quando era a letto da sola, ricacciava indietro quei ricordi, prendeva un libro a caso e leggeva finché gli occhi non si arrossavano per la stanchezza e crollava addormentata; oppure guardava documentari di vario genere alla televisione. Qualsiasi cosa andava bene pur di concentrare l'attenzione da tutt’altra parte.

    R ammentava ben poco delle ore di passione trascorse con l'improvvisato amante di una notte, ma in compenso iniziava a ricordare cos'era successo prima di salire in camera con quell’uomo.

    Seduta al tavolo di un grande ristorante, insieme ad altri invitati alle nozze, Loreley stava spiluccando una fetta di torta nuziale quando lui, con una coppa di champagne in una mano e una sedia nell’altra, si era piazzato accanto all'amico Steve, di fronte a lei.

    «Tutte le persone a questo tavolo hanno trovato la propria metà: anche Hans ed Ester ce l'hanno fatta. Rimango solo io» aveva detto accompagnando quell'ultima frase con un sorso di champagne, come a volersi congratulare con se stesso.

    «Ti consiglio di restare single ancora per un bel po'» era stata la risposta scherzosa di Steve.

    «Anche io me lo consiglio, sai? Ogni giorno, per non dimenticarlo. Niente impegni sentimentali per i prossimi anni: ne ho avuto abbastanza!»

    Loreley aveva accusato un lieve disagio e abbassato gli occhi sul piatto, intuendo che quell'uomo stava ancora soffrendo per Ester, che invece sembrava una sposa molto felice della propria scelta. Per l'intera giornata lui non aveva lasciato trapelare alcun turbamento, ma poi lo champagne doveva avergli abbassato il livello di guardia.

    «Veramente non sei l'unico single seduto a questo tavolo… oppure io non faccio testo?» lo aveva corretto Lucy, una ragazza bionda dalle curve prorompenti. «A differenza tua, però, io continuo per la mia strada, nonostante tutto…» Aveva rimarcato le ultime due parole, come per far capire a che cosa, o meglio, a chi volesse alludere con quel nonostante tutto.

    «Lo immagino, non ho mai avuto dubbi su questo!» le aveva risposto l'uomo, ironico.

    Una smorfia di disappunto era comparsa sul viso della giovane: «Sempre meglio che piangersi addosso!»

    Loreley aveva trattenuto con difficoltà una risatina. Quella Lucy si divertiva a pungolarlo ogni volta che ne aveva l'occasione e lui la ricambiava come meglio poteva, considerato che di solito non era il tipo da tenere un atteggiamento irriverente con le donne. Per qualche motivo la ragazza trasformava sempre i loro approcci in scaramucce. Ormai era diventato un rituale, l'unica via di comunicazione fra di loro, a tal punto che se avessero cambiato questa consuetudine, Loreley ne sarebbe rimasta stupita e forse anche un po' delusa.

    Quando aveva visto Lucy allontanarsi dal tavolo per buttarsi nelle danze, l’attenzione dell’uomo era ricaduta su di lei, che poi gli aveva tenuto compagnia con un paio di after dinner, d i menticandosi di non prendere analgesici a poca distanza dagli alcolici.

    In quegli ultimi frenetici giorni trascorsi ad aiutare Ester nei preparativi del matrimonio e a discutere con il suo capo del caso Desmond, il dolore sotto la nuca non le aveva dato tregua. La ciliegina sulla torta era avvenuta due giorni prima delle nozze: il fidanzato le aveva telefonato da Los Angeles per informarla, come se fosse una cosa da niente, di non poter essere con lei al matrimonio. La lite che ne era scaturita le aveva accentuato la cefalea costringendola a ricorrere più volte ai farmac i .

    C’era ancora una voragine oscura nella sua mente, tra il tempo intercorso da quando gli sposi avevano lasciato il ristorante, seguiti da esclamazioni festose di buon augurio, a quando si era svegliata in piena notte in una camera ai piani alti dell'hotel. Un buco dove c'erano solo dei flash in cui si vedeva nuda e avvinghiata a un uomo dalla pelle abbronzata che, con il peso del suo corpo, la schiacciava contro il letto mentre la accarezzava e la baciava.

    Dopo, il buio assoluto.

    Di nuovo lui, che rotolando su se stesso la portava sopra di sé, a cavalcioni. Ricordava i suoi occhi felini che le annunciavano passione e le labbra dal sorriso sornione che la invitavano a lasciarsi andare a qualsiasi desiderio inespresso.

    E ancora buio totale, seguito da un confuso risveglio… e da quell'inconfessabile realtà.

    2

    Cosa sarebbe successo una volta che John fosse tornato a casa? Era davvero necessario confessargli qualcosa che nemmeno lei sapeva bene come fosse accaduto? La sincerità a tutti i costi era indispensabile per tenere in vita la convivenza nel migliore dei modi?

    Domande che tornarono a tormentarla anche mentre guidava in mezzo al traffico di Manhattan. Domande che le instillavano dubbi mai avuti prima, incrinando le sue poche certezze. Dopotutto, lei aveva solo ventotto anni e poca esperienza dei rapporti di coppia per essere sicura di avere le risposte giuste.

    Il suono del cellulare la richiamò all'attenzione. Spinse un tasto sul cruscotto e attivò il viva voce.

    «Ciao, Loreley. Come stai?»

    «Davide!» esultò. «Che piacere. È un po' che non ti fai sentire.»

    «Sì, è vero, ma anche tu avresti potuto chiamarmi.»

    «Sai, ero molto impegnata e il matrimonio di Hans mi ha tolto ogni energia. E anche la voglia di sposarmi, se mai John me lo chiedesse un giorno.»

    Sentì una breve risata dall'altro capo del telefono. «Sempre la vecchia storia della volpe che non riesce ad arrivare all'uva…»

    «Non prendermi in giro, dai! Hai qualcosa da raccontarmi, piuttosto?»

    «Sì… qualcosa c'è.»

    «Non tirarla troppo per le lunghe!»

    « È una cosa seria e preferisco parlartene di persona, se non ti dispiace…»

    « Va bene, piacerebbe anche a me passare del tempo insieme.»

    «Se sei libera ci possiamo vedere domani pomeriggio, a casa tua.»

    «Facciamo alle tre?»

    «Alle tre.»

    Loreley chiuse la conversazione ricordando con malinconia il viso delicato e sorridente di Davide. Le mancavano le giornate passate con lui, soprattutto ai tempi dell’università, e i bei momenti spensierati che le aveva regalato.

    Tutto passa e, come spesso succede, le cose più belle sono anche quelle che durano di meno.

    Piantò il piede sul freno e imprecò stringendo il volante tra le mani: l’automobile davanti a sé aveva rallentato di colpo e per un pelo lei non l’aveva tamponata.

    Accidenti a me ! Di solito rispettava la distanza di sicurezza. Restò ferma qualche istante, fece un bel respiro e non appena udì i clacson delle auto dietro la sua ripartì.

    S empre tutti di fretta! Alcune volte rimpiangeva la sua amata Zurigo, con il suo ordine e la sua calma. Così diversa dall’elettrizzante e frenetica New York.

    Una leggera pioggia iniziò a picchiettare sul parabrezza. Sbuffò: aveva dimenticato di prendere l’ombrello. Eppure lo sapeva che a ottobre il tempo era imprevedibile.

    ***

    Il pomeriggio seguente, vestita con un semplice paio di jeans e una camicetta della stessa stoffa e tinta, Loreley uscì di casa. Fuori dal portone c'era l’amico Davide ad attenderla.

    Appena gli fu vicina gli gettò le braccia al collo e per parecchi secondi non lo lasciò andare.

    «Quanto entusiasmo!» esordì lui stringendola a sua volta.

    «Non eravamo mai stati lontani tanto a lungo» si difese lei separandosi. «Dove vorresti andare?»

    «C'è un bel sole oggi, potremmo passeggiare un po'.»

    «Va bene!»

    Loreley si aggiustò la borsa a tracolla sulla spalla e lo prese per mano, ma dopo qualche passo lo fermò. «Guai a te se metti mano al portafogli» gli disse alzando l'indice in aria. «Stavolta ci penso io, intesi?»

    «Sai che sforzo per una come te!»

    «Cosa vorresti insinuare?» gli domandò, le mani sui fianchi. «Sto aspettando.»

    «I tuoi sono… ecco, non se la passano così male.»

    «Sono ricchi, puoi dirlo. Ma questo non ha nulla a che fare con me.»

    «Lo so, Loreley, non ti infervorare, stavo solo scherzando.»

    «Lasciamo stare questo discorso e andiamo a rilassarci un po'. Qualsiasi cosa tu voglia fare a me sta bene.»

    Davide non volle fare niente di eccezionale. Lasciarono l'automobile e passeggiarono al Corona Park. In quella giornata autunnale il parco era poco frequentato e immerso in una leggera coltre di silenzio e di finissima nebbia, con tappeti di foglie multicolori ai piedi degli alberi spogli a metà, che rimarcavano il languido e nostalgico incanto dell'autunno, nonostante la persistente presenza di macchie floreali che viravano dal giallo intenso al violetto.

    Avrebbero potuto scegliere di passeggiare a Central Park, più vasto e poco distante dalla sua abitazione, invece di attraversare l'intero borough del Queens, ma lei sapeva che a Davide non piacevano i luoghi troppo ampi e affollati. A dire il vero, lui non amava nemmeno frequentare posti dove la ricchezza, e soprattutto chi la sosteneva, la facesse da padrone, pensò mentre gli camminava a fianco. La sua unica amica abbiente era lei.

    Quando i muscoli delle gambe iniziarono a dolere per la stanchezza, sostarono seduti su un muretto vicino all’ Unisphere , un enorme monumento di acciaio raffigurante il globo terrestre. Loreley parlò del matrimonio del fratello e di ciò che era successo quella notte, omettendo però il nome dell'uomo con il quale aveva condiviso il letto: non si sentiva ancora pronta a rivelarlo, nemmeno a ll’amico . Lui sembrò capirlo perché evitò di chiederglielo, ma sulla sua fronte si era disegnata una ruga che prima non c'era.

    «Lo so quello che stai pensando» disse lei guardandolo negli occhi cerulei, che parevano rimproverarla. «Mi prenderei a sberle da sola. Johnny non merita quello che gli ho fatto e non so come uscirne senza ferirlo.»

    «Sei indecisa se dirglielo o meno, vero?»

    «Ho paura che non me lo perdoni. E mi manca anche il coraggio…» Distolse lo sguardo per qualche attimo.

    «Se ti conosce bene come ti conosco io, si renderà conto che tu non saresti mai finita in quel letto da sobria.»

    « La fai semplice ! »

    Davide la guardò contrariato . «Non è mai semplice . Credi che a me non sia costato tanto confessarti il mio tradimento? Avevo una paura folle di perderti per sempre, anche come amica. Ma poi tu hai capito…»

    «Sono stata male lo stesso, anche se non l'ho dato a vedere più di tanto. Per anni n on ho più voluto saperne di ragazzi: per me ormai contava solo lo studio e il pattinaggio.»

    Lui sospirò. «Ne è passato di tempo, ma vedo che ancora ti agiti quando ne parliamo.»

    Lei scosse la testa. «Scusami, Davide…» Gli accarezzò la guancia. «Non sono agitata per il passato, ma per il presente.»

    «Ti ho appena detto come la penso. »

    «Ci rifletterò su, te lo prome tt o » lo rassicurò per chiudere quell’imbarazzante argomento.

    Meglio trovarne un altro .

    Lo guardò come se solo in quel momento si fosse ricordata qualcosa di importante. «A proposito di confessioni: ancora non mi hai parlato delle novità di cui mi hai accennato al telefono.» Si mise in una posizione più confortevole. «Sono qui e ti assicuro che ascolterò ogni tua parola.»

    Lo vide rasserenarsi e sorridere.

    Davide si accomodò accanto a lei, lasciò passare qualche secondo e poi buttò fuori la lieta notizia. «Dopo tanto tempo… e tanto cercare, penso di aver trovato la persona giusta per me. Fra qualche mese, forse andremo a vivere insieme.»

    Lei spalancò gli occhi. «Oh Dio, non sai quanto sia contenta!» Esultò battendo le mani e poi lo abbracciò. «Il suo nome?»

    «Si chiama Andrea, ci siamo conosciuti in ambulatorio: mi ha portato il suo cane da curare.»

    «Sono davvero felice, sai?!»

    «Grazie! Io invece mi sento un po' spaventato.»

    «Lo so cosa si prova, soprattutto agli inizi.»

    «Per questo ne sto parlando con te. Volevo sapere come ti sei trovata con John. Come ci si sente.»

    «Beh… posso dirti che all'inizio mi sentivo impacciata e non sapevo come comportarmi. Avevo timore che ogni cosa che facevo potesse dargli fastidio. Dovevo mantenere la calma, essere comprensiva e avere la mente elastica per accettare anche il suo modo di fare e di pensare. Alcune volte desideravo prenderlo a schiaffi, altre volte abbracciarlo. Il giorno prima ringraziavo il cielo di averlo conosciuto e quello successivo volevo non averlo mai incontrato. In più di un’occasione ti sembrerà di non riuscire a farcela e di rimpiangere la libertà perduta, ma ti assicuro che poi tutto si sistema. Basta volerlo veramente.»

    «È questo che hai sentito con John?» la interruppe lui, stupito.

    «Ti assicuro che non me ne pento affatto.» Mentre rispondeva, si chiese come mai, se davvero non era pentita, non riuscisse a prendere in considerazione quello che aveva appena detto all’amico, per rassicurare anche se stessa.

    «Mi basta così.» Davide rise allegro e le prese le mani. «Vedrai che le cose si aggiusteranno anche per te; basta volerlo veramente, giusto? »

    «Sei un gran…»

    Lui le tappò la bocca. «Ahhh… non si dicono certe cose.» Gli sorrise. «Adesso è meglio andare a bere qualcosa.»

    Dopo una bevanda fresca e una visita veloce al museo della scienza e della tecnologia, decisero che era giunto il momento di cercare un posticino tranquillo dove cenare. Nel frattempo il sole stava cedendo il posto alla luna, che di lì a poco comparve come un disco maculato di luce e ombre, a tratti occultato dalle nuvole.

    La cena fu leggera, con due sole portate e una piccola porzione di cheesecake alla frutta. Per fortuna la temperatura non si era abbassata tanto da farli desistere dall'andare in giro per le strade di Manhattan e soltanto quando furono davvero stanchi si accorsero che la mezzanotte era passata da un pezzo. Sentendosi in colpa per avergli fatto fare tardi, Loreley decise di ospitare l'amico in casa sua: le faceva piacere avere la sua compagnia ancora per un po'.

    ***

    Era a impigrirsi nel letto, quando sentì una mano sulla spalla. Si girò e sollevò appena le palpebre: si aspettava di vedere la faccia di Davide, ma gli occhi che in quel momento la stavano osservando erano troppo scuri per appartenere al suo amico, che invece li aveva azzurri.

    «John ny !» Si tirò su, appoggiandosi sui gomiti. «Quando sei arrivato?»

    «Ieri sera ti ho mandato un messaggio: non lo hai letto?»

    «Scusami, non me ne sono accorta.»

    «Troppo impegnata a fare altro? Ho incrociato Davide in sala. Stava andando via.»

    «Ieri abbiamo passato il pomeriggio insieme e avendo fatto tardi l'ho ospitato a casa.» Si mise a sedere sul letto. «Vado a salutarlo.»

    «Lascia stare.» La fermò per le spalle. «Mi ha detto di darti i suoi saluti. Andava di fretta.»

    Stava per protestare, ma John si chinò su di lei e le chiuse la bocca con un lungo bacio. Allora Loreley gli passò un braccio intorno al collo e lo ricambiò.

    Quando lo vide staccarsi per togliersi in fretta i vestiti, con un unico gesto si sfilò la corta camicia da notte, mettendo in mostra il corpo dalla carnagione diafana.

    «Volevo farmi la doccia, ma adesso…» le disse lui.

    Loreley lo esamin ò veloce: aveva i capelli in disordine e i lineamenti del viso tirati, come di chi stesse cercando di riprendere il controllo sui

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1