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La terza metà del tutto
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E-book227 pagine3 ore

La terza metà del tutto

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Info su questo ebook

Genova, 3 febbraio 1975. Durante una grande manifestazione operaia scoppiano improvvisamente violenti scontri tra polizia e manifestanti. Teo Angius, uno studente universitario, spintonando a terra un celerino, sottrae alla carica della polizia una ragazza che non conosce. Fuggono insieme tra i vicoli della città vecchia mettendosi in salvo.

Accade tutto in un attimo e quell'attimo segnerà per sempre le loro esistenze. Unirà due vite in maniera indissolubile, attraverso l'evolversi della storia di quegli anni. Anni tragici e tumultuosi, ma al contempo spumeggianti di energia innovatrice e portatori di una cultura nuova.
LinguaItaliano
Data di uscita28 mag 2013
ISBN9788867559855
La terza metà del tutto

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    Anteprima del libro

    La terza metà del tutto - Francesco Marras

    Francesco Marras

    La terza metà del tutto

    A tutti coloro i quali mi hanno sfiorato appena o trattenuto.

    A chi mi ha sopportato con pazienza e pazientemente mi ha lasciato andare.

    A chi mi ha rifiutato per convenienza e a chi, contro ogni ragione, mi ha voluto a tutti i costi.

    A tutti loro un grazie, per avermi insegnato con il loro agire ad amare.

    "Mille anni al mondo mille ancora

    che bell’inganno sei anima mia

    e che bello il mio tempo

    che bella compagnia"

    F. De Andrè

    Preludio

    Stavamo abbracciati in quei pomeriggi rubati all’impegno, abbracciati in quella piccola stanza della casa di via Ghiglione. Pochi mobili e dalla finestra una luce ovattata, che fluttuante, occupava lo spazio intorno a noi. Il letto comodo, che profumava di lei. Ce ne stavamo abbracciati, dopo aver fatto l’amore, e lei mi appoggiava il viso sul petto. Mi sorprendevo ad inspirare tra i suoi capelli, mentre ascoltavo il suo respiro e, i due respiri insieme, divenivano un mantra celebrativo del nostro esistere. Eravamo noi, che inconsapevoli generavamo noi stessi e il divenire, in un bisbiglio sonoro vitale appena percettibile, sospeso nel presente, sgravato dal peso di un qualunque futuro.

    Tea si abbandonava, indifesa, ed era accolta in un mondo con altre regole. L’avvolgeva un sonno leggero come una garza e dalle trame larghe di quel velo, a volte, quando la quiete era contagiosa, potevo scorgere i suoi sogni.

    Si creavano in paesaggi luminosi di sole, profumati di colori intensi, sgargianti di suoni festosi. Spesso, vedevo me stesso. Sorridevo in quei sogni, sorridevo e correvo, lasciando ondulate scie d’oro, in un campo di grano maturo, danzavo, cantavo e la baciavo. E lei sorrideva nei suoi sogni, fuggiva sorridente da me e si faceva raggiungere, per farsi baciare. Sbadatamente ci baciavamo, intensamente ci baciavamo, profondamente ci davamo baci, che provenivano dal precipizio più estremo della nostra anima e che avevano vissuto infinite vite per giungere a noi, così come erano, in quell’istante preciso, di un esistere eterno.

    Così come vi era entrata, improvvisamente e senza rumore, Tea usciva da quel sonno tenue e vaporoso.

    «Dimmi Teo, qual è l’aspetto più importante dell’esistenza? Cosa pensi sia davvero insostituibile?»

    E senza aspettare una mia risposta, esprimeva il suo concetto.

    «Il tempo Teo, il tempo è l’aspetto essenziale e insostituibile del nostro esistere.»

    La parola e ciò che ne consegue, le avrei voluto dire. La parola e l’uso che ne facciamo è davvero importante e non vi è niente di insostituibile nella mia esistenza. Solo tu, le avrei voluto dire. Solo tu, ma a quel tempo, non lo dissi mai.

    La canzone del Maggio

    Avevo conosciuto Tea ad una manifestazione.

    Era il febbraio del 1975 e a Genova come in tutta Italia soffiava forte il vento della rivolta.

    Era un vento quello che strappava le vesti e le vite, ma portava con sé, potente, il meraviglioso delirio di grandiose idee.

    Il mondo si può cambiare, gridava forte; una società più giusta è possibile, sussurrava quel vento. Un uomo nuovo bussa alle porte del nostro tempo, è giunto il momento di farlo entrare decretava, ma per quanto quel vento mi inebriasse, non riuscivo proprio a nascondere a me stesso, il disagio imbarazzato per il modo in cui, questo nuovo mondo stava nascendo.

    Vecchi orrori si riproponevano per dar vita al nuovo. Esistenze venivano stroncate, in nome del giusto e degli ideali, altre vite venivano spente, per reprimere ciò che queste idee affermavano con forza. Ed io tremavo angosciato e con me molti altri ancora.

    Nonostante ciò, la partecipazione era d’obbligo, partecipazione era emancipazione, era una nuova visione del tutto.

    Una grande manifestazione operaia si stava svolgendo quel giorno. Il corteo del ponente era partito come al solito dalla stazione marittima. I lavoratori delle fabbriche di Sestri si erano uniti ai lavoratori del porto e insieme, avevano iniziato ad avanzare verso De Ferrari dove vi sarebbe stata la convergenza di tutti i cortei provenienti dal levante. Canti e bandiere rosse, gli eskimo verdi, le sciarpe e i fazzoletti con l’effige del Che, l’Unità nella tasca dei jeans e la focaccia in mano.

    Quel torrente impetuoso di umanità mi affascinava, era il mio torrente, era l’acqua in cui nuotavano i miei sogni, le mie speranze e le mie certezze, era il mio esercito armato dei propri ideali che avanzava inarrestabile come i miei vent’anni.

    All’altezza di Porta dei Vacca il corteo imboccò via delle Fontane, una strada stretta che congiunge via Gramsci a piazza della Nunziata. Mi trovavo sul lato sinistro della strada, vicino agli uffici universitari, un po’ in disparte, perché mi è sempre piaciuto guardare, come uno spettatore, l’evolversi di ciò che sto vivendo. Una sorta di distacco fisico che mi permette un’analisi mentale più reale. Quasi più meditata.

    D’improvviso fu l’inferno. Si udirono colpi dalla testa del corteo come di arma da fuoco, ma forse furono i lacrimogeni che improvvisamente invasero l’aria. Un odore acre, sanguigno, che si diffuse come un'epidemia, inarrestabile. Nell’aria aspra risuonavano le urla, nello spazio ristretto le spinte, la gente che cadeva. Vedevo persone con il volto insanguinato, non capivo, era successo tutto troppo in fretta, come inciampare e cadere in un precipizio. Come in un film vidi i celerini in divisa da combattimento avanzare tra la folla impazzita. Fumo, manganelli, sangue, lacrime e urla, rumore assordante.

    Qualcuno non retrocedeva. Le bandiere divennero bastoni da brandire.

    Mi protessi gli occhi brucianti e tra le lacrime, come un fotogramma immobile e silenzioso, vidi una ragazza; aveva raccolto qualcosa da terra scagliandolo contro i poliziotti a non più di due metri da lei. La vidi indietreggiare e cadere, il poliziotto avanzare verso di lei, lo scudo di protezione al braccio destro, quello sinistro alzato brandiva il manganello.

    Vi sono volte in cui appare chiaro, nell’evolversi delle nostre azioni, che il risultato finale di ciò che abbiamo appena compiuto, non è la somma esatta delle nostre capacità, ma qualcosa in più. Un intervento esterno, che si esprime esplicito potenziando le nostre forze sino a spingerle oltre le nostre più ardite possibilità. Un miracolo, un prodigio senza incertezze.

    Io da bambino ero una gran schiappa nel gioco delle bocce. Se in altri posti questa è solo un'attività ricreativa per pensionati, a Genova è una sorta di religione con adepti fedeli.

    Due provetti giocatori discutevano sulla difficoltà di un tiro e avevano tesi completamente opposte. Uno affermava con convinzione la sua impossibilità, l’altro asseriva che anche o figgio abelinòu da Jole lo avrebbe potuto fare. Venni scelto, forse somigliavo a quello che nel loro immaginario sarebbe dovuto essere il figlio abelinato della Jole. Mi misero una boccia in mano che mi pareva pesante come un tuono nel grembo di un giorno d’estate. «Boccia» mi dissero e così feci.

    Obbediente effettuai due passi indietro, titubante, e traballando per lo sforzo, presi una breve rincorsa, lanciai la boccia davanti a me e in quell’attimo medesimo chiusi gli occhi. Sentii solo il ciocco secco della sfera di bronzo sull’altra, un attimo di silenzio e poi l’esplosione di applausi e risa di chi mi stava attorno. Avevo fatto quel che si chiamava in gergo cianta. Non solo avevo colpito la boccia avversaria, ma al suo posto si era bloccata la mia, facendo punto. Quello fu un vero miracolo. Fu l’espressione più prossima all’opera del Divino. Seppi che Dio si era espresso in me. Nel suo linguaggio inarrivabile mi aveva parlato.

    In quel fotogramma di vita, la ragazza a terra, il manganello alzato pronto a colpire, tutto fu silenzio nella mia mente. Non decisi nulla, non feci nulla, tutto si decise e si fece da sé. Il mio corpo scattò in avanti e con una forza primordiale, la mia spalla andò a colpire il costato del celerino che urlante rotolò a terra. La mia mano afferrò il braccio della ragazza mentre le mie gambe vorticavano nella corsa. Dio mi aveva nuovamente parlato o forse questa volta era stato il diavolo, Belzebù in persona.

    Poi tutto fu di nuovo rumore. Le urla, le sirene, colpi sparati da qualche parte.

    Vidi tre poliziotti indicarmi e cominciare a correre.

    Correvo, tirando per un braccio la ragazza che cominciava a capire e correva con me. Imbucammo via Del Campo, vidi i poliziotti correre più veloci, tirai la ragazza, subito a sinistra svoltammo in vico Croce Bianca; qui un travestito, per un istante, facendoci guadagnare qualche secondo, si inframmise tra noi e i poliziotti che lo spintonarono a terra. Subito a destra, ancora, per vico dei Fregoso.

    Sapevo dove scappare, contavo sui vicoli stretti per far perdere le nostre tracce. Sentivo il calpestio degli anfibi, l’ansimare animalesco nella loro corsa, ma non vedevo più i nostri inseguitori.

    Ad ogni angolo le nostre possibilità di fuga aumentavano. Arrivammo in un amen in via Lomellini, ancora troppo allo scoperto e troppo vicini a Porta dei Vacca; corremmo verso piazza Fossatello, ma prima di entrarvi tirai su per salita San Siro.

    In piazza della Meridiana, per la prima volta la ragazza con un filo di voce sfilacciata per lo sforzo mi parlò.

    «Aspetta, non riesco più a correre dove vuoi arrivare?»

    Non le diedi ascolto, ma rallentai appena il passo, le passai un braccio sopra la spalla e la strinsi come se fossimo lì solo per passeggiare.

    «Cammina piano,» le dissi, «ci sono dei poliziotti là in fondo» e feci un gesto col capo.

    Via Garibaldi era affollata. Impiegati degli uffici del comune, personale degli uffici della camera di commercio, pensionati a passeggio.

    Imboccammo a passo lento il tunnel pedonale che porta sotto la galleria Garibaldi e rincominciammo a correre. Ero sicuro ormai che non ci seguissero più, ma fino a quando non avessi raggiunto il posto che mi ero prefissato non mi sarei sentito al sicuro.

    Attraversammo la galleria e di nuovo il tunnel dell’ascensore che porta a Castelletto.

    L’addetto stava per chiudere il cancello in ferro battuto, ci vide e ci aspettò.

    Con un cigolio antico l’ascensore si mosse e in quel momento ebbi la certezza che eravamo in salvo.

    Genova per chi non la conosce è una città disorientante. Ti puoi perdere in strade strettissime, per ritrovarti come di incanto, dove non ti aspetteresti di essere, in slarghi improvvisi di spazio. O al contrario, imboccare larghe rassicuranti vie che poi non portano a nulla. Ma per chi invece ha familiarità con i suoi passaggi, offre la possibilità di una mobilità inaspettata, che non è solo quella nord sud, est ovest ma anche, sopra e sotto.

    Ci trovavamo adesso in spianata Castelletto, a non più di trecento metri in linea d’aria da piazza Della Nunziata, ma in realtà lontanissimi da dove eravamo fuggiti, certamente introvabili per i nostri inseguitori. Un salto che non sembrava più solo spaziale, ma anche temporale.

    La vecchia borghesia genovese, che da sempre abitava il quartiere elegante e pulito, celebrava i propri riti ai ritmi di sempre. Nella piena consapevolezza del proprio benessere, non curante di quel che stava capitando nelle zone sottostanti.

    Cani a passeggio, signori che leggevano il secolo XIX seduti sulle panchine di spianata, signore che sorseggiavano il caffè al bar della piazza.

    Ci appoggiammo alla ringhiera del Belvedere, Genova sotto di noi era bellissima, il mare smaltato d’azzurro e il cielo, appena di un celeste più chiaro, pulito dalla tramontana fresca, i tetti grigi con improvvise espressioni di verde sui terrazzi coltivati.

    E poi giù, sua maestà il porto. Fucina di traffici, lavoro, idee, drammi e speranze.

    Finalmente guardai lei. Per la prima volta mi resi conto di quanto fosse bella. Era bellissima, il respiro le si stava normalizzando, ma riusciva a mettere in mostra un seno prominente; l’avrei detta magra, ma ispirava un che di atletico, aveva capelli biondi, non lunghi, ma abbastanza da dover ogni tanto spostare un ciuffo che le sfuggiva ribelle sugli occhi e, proprio quegli occhi, non meritavano di essere coperti. Erano di un grigio brillante, vivevano di una luce propria, intensa, argentina, sembravano sorridere ad ogni cambio di espressione.

    Portava una giacca blu di panno pesante, sopra jeans stretti che la fasciavano irriverenti. Mi parve distratta. In seguito capii che quello era il suo modo di affrontare la paura, estraniarsi.

    «Cosa hai tirato a quelli per farli adirare così tanto?» Dissi.

    «Adirare?» Mi guardò divertita, «a me sembravano proprio incazzati e comunque era una bottiglia, forse pensavano fosse una molotov.»

    «Lo era?»

    «Si, ma non era la mia, era arrivata da dietro senza rompersi e senza essere accesa, io l’ho presa e l’ho tirata.»

    «Ti saresti potuta far ammazzare. Con quel manganello ti avrebbe fatta a pezzi.»

    Mi guardò sorridendo, «ma tu pensi sempre a ciò che fai? In ogni caso grazie, sei stato straordinariamente coraggioso. Ero nel panico, non sarei scappata, senza di te mi sarei fatta manganellare. Ti sono grata.» Si voltò, fece qualche passo per andarsene, poi fermandosi per un attimo mi guardò e mi chiese come se la domanda le fosse sbocciata nella mente in quel preciso istante, «ma tu come ti chiami?»

    «Teo» dissi e chinai appena il capo, come a protezione di un imbarazzo antico.

    Lei scoppiò in una risata fulgida che le infiammò il volto, «Teo?»

    «Sarebbe Teodoro» dissi, «per via delle mie origini, ma come ci rincontriamo?» Chiesi quasi a sviare il discorso.

    Lei ancora divertita riprese a camminare, «bazzico dalle parti della Casa dello Studente», disse mentre cercava qualcosa nel tascapane militare che portava a tracolla e che non avevo notato sino a quel momento. Tirò fuori un pacchetto di MS, si accese una sigaretta, rise ancora.

    «Tea, io mi chiamo Tea. Senza Teodora.»

    Rimasi in silenzio incredulo qualche secondo, mentre si allontanava.

    «Comunque no!» Le urlai.«Non penso sempre a quello che faccio.»

    La sentii ancora ridere e voltò per Corso Firenze.

    Chiedo scusa se parlo di Maria

    «Ubi tu Gaius, ibi ego Gaia»

    (formula matrimoniale latina)

    Bazzicai anch’io dalle parti della Casa dello Studente di corso Gastaldi, vi bazzicai per i dieci giorni successivi, ma non la incontrai mai. Passai mattinate nel vento gelido che si incanalava dal forte di San Martino giù per la pedemontana di corso Europa, tentando di riscaldarmi con qualche cappuccino preso al bar sotto i portici. Tenendo entrambe le mani a coppa attorno alla tazza fumante, mi appropriavo di quel calore che mi avrebbe sostenuto in seguito, sulle scalinate esterne della casa. Tentavo di studiare quel poco che la situazione precaria mi consentiva, mentre tenevo d’occhio la strada nella speranza di vederla.

    "I martiri qui sofferenti per la Giustizia la ricordano Casa delle torture ove la barbarie fu vile nella ferocia.

    I Posteri memori delle cure e dei dolori la consacrano Tempio della Patria redenta e libera per il sacrifico dei figli.

    La città di Genova nel LXXIV anniversario della morte di Giuseppe Mazzini - X marzo MCMXLVI"

    Lessi la lapide commemorativa un’infinità di volte, la usavo per non pensare al freddo, che con brividi violenti scuoteva fuori da me il residuo calore che ancora riuscivo a trattenere e per ricordami di cosa era stato quel luogo. Avevo visto le celle della tortura, riscoperte dopo l’occupazione del 1972 da parte di compagni studenti di ingegneria ed ex partigiani.

    Avevo letto dell’uso come forno crematorio delle caldaie che il Maggiore Friedrich Engel capo dell’Aussenkommando Sipo -Sd di Genova ordinò per liberarsi dei corpi di chi moriva sotto tortura, ma constatavo che, nonostante tutto, la vita, come sempre, aveva preso il sopravvento. Quel luogo ora pullulava di giovani, si sentivano risa e si respirava una vitalità costruttiva. Ci avevano affamati, torturati, uccisi ma non erano riusciti a spegnere quell’incosciente voglia di futuro e di libertà che ancora ci pervadeva.

    Chiacchierai con qualcuno, per lo più compagni di Lotta Comunista che conoscevo e ammiravo per la loro costanza e per l’impegno che proponevano nella loro azione politica, ma da cui, per le stesse identiche ragioni fuggivo.

    Avevo bisogno di sentirmi libero. Anche dalle idee. Anche da quelle che condividevo.

    C’era bisogno mi dicevo di una coscienza critica, o forse la mia era solo una scusa per non impegnarmi quanto avrei dovuto.

    Questa scelta si rivelò in seguito la mia salvezza e la mia condanna, in egual misura.

    Di Tea, in ogni caso, nessuna traccia.

    Quella mattina troppo fredda per essere riscaldata alla fiamma dell’attesa, decisi di andare alla Berio, la biblioteca antistante il teatro Carlo Felice e ritrovo di tutti gli studenti universitari di Genova.

    Patologia mi assediava la mente, ero in ritardo con gli esami e non mi potevo certo permettere di sfarfallare dietro paturnie emozionali.

    Concentrazione e impegno. Gli unici veri ausili per chi, come me

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