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Naftalina
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E-book172 pagine2 ore

Naftalina

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Info su questo ebook

Friuli, anni settanta. Inizia da qui la storia di un bambino che si chiama Vito.
Tra fossi e libri di scuola, morra friulana e Refosco, Vito è innamorato perso di Margherita, da sempre compagna di giochi. Margherita ha una madre bellissima, con un’ambizione smisurata che le ha progettato l’intera esistenza. Vito però ha la tigna di suo padre, uno scorbutico taglialegna aspro come le cortecce e la fede di sua madre, una massaia con la faccia da santino di chiesa.
È lotta serrata nel tranquillo comune di Tavagnacco.
Il fragile carattere di Margherita la fa vacillare sotto i colpi proibiti della madre, disposta a tutto pur di vedere la figlia sistemata secondo le sue aspirazioni sociali.
E ci riesce. Margherita si sposa all’improvviso col figlio di un ricco imprenditore, Leandro.
Vito decide di partire per un viaggio e una mattina, dopo la laurea, affida la scelta della meta a una nocciola lasciata cadere su una cartina dell’Europa: in primavera vola in Islanda.
Tuttavia dopo qualche mese, una telefonata da Tavagnacco irrompe nell’ostello in cui alloggia e lo fa saltare sul primo aereo disponibile per un viaggio contro il tempo. Margherita è tornata a casa dai suoi genitori.
LinguaItaliano
Data di uscita26 mar 2021
ISBN9788869632662
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    Anteprima del libro

    Naftalina - Danilo Paolucci

    Danilo Paolucci

    NAFTALINA

    Elison Publishing

    © 2021 Elison Publishing

    Tutti i diritti sono riservati

    www.elisonpublishing.com

    ISBN 9788869632662

    1

    Era fine pomeriggio, l’aria scialba e appiccicosa toglieva il fiato.

    Vito stritolava un sasso, con gli occhi strizzati perlustrava la vasta conca di rena grigiastra davanti a lui. Alle sue spalle, una gigantesca parete di tufo appesa a nuvole plumbee grosse come case.

    Si guardava intorno; la sua testa nera, la pelle nivea nel verde felce delle erbacce pronte a divorarlo.

    Terminato l’acquazzone, saltò alla bersagliera sulla sua Graziella mandarino e si scapicollò alla cava, sicuro come la morte di trovarci una vasca di pioggia ad attenderlo. In testa, il record personale dei cinque rimbalzi a pelo d’acqua lo martellava.

    Assordato dal frinire di un plotone di cicale, avanzò furtivo tra le scavatrici abbandonate sotto al temporale dagli operai. Il livido sul culo a forma di Svizzera faceva ancora male, gli rammentava alla perfezione il torso ossuto dello spilungone senza denti che lo aveva preso a calci la settimana prima.

    Appena certo di essere solo, si piegò sulle ginocchia, con una leggera torsione del busto effettuò il lancio.

    L’ultimo anello d’acqua si dissolse, i suoi piedi scalzi slittarono su un viscido tappeto di melma.

    A mollo in quella brodaglia, lasciò all’aria solo la sua faccia di pompelmo rosa, per lanciare il suo nome contro quei muri sventrati intorno a lui.

    Osservò le nuvole stracciarsi nel cielo e fare posto a quel sorriso a gondola che gli sballottava tutti i ragionamenti, peggio del terremoto. Una fretta improvvisa lo fece schizzare fuori dall’acqua come un rospo spaventato.

    Con un fuscello di paglia schiacciato tra le labbra, l’occhiata più cruda tra quelle scippate agli western di suo padre, scrutò i suoi vestiti sgocciolanti appesi al ramo di quercia nana accanto a lui.

    Esigeva l’aria di uno che la sapesse lunga. Con un’occhiata rapida addosso si rese conto invece di essere soltanto un sudicio bamboccio, nudo come un lombrico sterrato sotto al sole e per giunta in ritardo.

    Grazie al caldo fermo dell’estate appena iniziata, rindossò presto i suoi vestiti e tornò in oratorio.

    «Ragazzo, quante volte ancora dovrò ripetertelo?» tuonò don Petris, «la comunione si riceve con il palmo della mano sinistra sopra alla destra! Hai la testa più dura di quel caprone di tuo padre!»

    Un ceffone a mano aperta gli lasciò cinque dita di fuoco tra capo e collo, uno per ogni minuto di ritardo. «Ora a lavurar, ragazzo…» don Petris si voltò e ciondolò via diretto in sagrestia.

    Istruiva lui e altri monelli a chierichetti della parrocchia, coltivando la remota speranza di crescere qualche aspirante parroco. Ma a Vito delle stronzate di don Petris non importava un accidente.

    Era lì per un solo motivo.

    Come ogni martedì e giovedì, lustrò da cima a fondo la chiesa di Santa Ermagora, insieme a Margherita Bisanti e Mario Paratore. Svuotarono un intero bidone di strofinacci impregnati di cera lucidando il pavimento e le panche di legno, a turno ci alitarono sopra e scrissero – ciao – sull’alone delle loro anime.

    «Vito ma che hai mangiato? Hai un alito di fogna», sogghignò Margherita, la punta del suo piccolo naso francese dietro al polso scoperto.

    Vito buttò lo sguardo sui suoi sandali spellati. «Divertente… lo sai che mia madre mette la cipolla in tutto quello che cucina…»

    Ora quel sorriso a gondola era proprio accanto a lui.

    «E cosa è successo alla tua maglietta verde? Ah, ma certo, sei andato di nuovo giù alla cava…» disse Margherita con un sorriso bonario.

    Spazzarono il confessionale e l’altare sotto il grande Crocifisso almeno dieci volte.

    «Chiunque entri in chiesa e pretenda di guardare Gesù Cristo, dovrà uscirne accecato della sua luce!» biascicò don Petris, riapparendo in abito talare dal muro di fumo davanti alla porta della sagrestia.

    I raggi del sole filtravano i mosaici traslucidi di Santa Ermagora e San Francesco.

    Sul crocifisso bagliori rosso vivo e blu elettrico impazzavano.

    L’applauso di don Petris rimbombò tra le colonne della chiesa. «Bravi i miei monellacci! Guardate i colori del Signore!»

    Fece un passo e indicò la cesta di vimini piena di caramelle poggiata sulla panca accanto a lui. «Prendete il vostro bottino piccoli serpenti e sparite, per oggi va bene così…»

    Se quel lavoro non gli avesse garantito di vedere tutti i giorni la sua amata Margherita, Vito avrebbe disperso le sue tracce in un lampo. Perché solo fuggendo il più lontano possibile si sarebbe liberato di quel parroco così poco timorato di Dio, che pure per lui nutriva un affetto paterno.

    «Stattene in chiesa, ragazzo, che la cattiveria si impara senza maestri», gli predicava con l’indice contro il suo naso a patata.

    Eppure, don Petris coi suoi occhiali avorio e la faccia sempre sbarbata alla fragranza di Acqua Velva, esibiva lo sguardo di un pastore di tutto punto.

    Oltretutto, i capelli corti e cotonati, fatti del fumo delle sue MS morbide, accendevano il verde petrolio degli occhi in un aspetto ameno, per nulla indifferente ad alcune pecorelle smarrite del suo gregge.

    Per l’appunto, se la sua casula era appesa all’omino di mogano della sagrestia, collezionava vizi e peccati da paura. Gioco d’azzardo, whisky e il culo delle donne: ingredienti segreti di vent’anni di rispettoso sacerdozio. Più di un confessionale pareva si fosse trasformato in qualcosa di parecchio intimo.

    «Lingue infamanti… che si secchino e poi, anche Dio è friulano, se non paga oggi, paga domani…» aveva sempre ribadito.

    Vito ne sapeva qualcosa. Nessuno frequentava la chiesa quanto lui.

    Non aveva mai dimenticato quella volta in cui con mezza faccia fuori dalla porta della sagrestia, aveva scoperto sotto le onde del drappo violaceo del confessionale, la punta delle nere scarpe lucide di don Petris di fronte ai bianchi ginocchioni della signora Iolanda, genuflessa nel pentimento di un peccato appena commesso e intenta a scontare le sue assoluzioni speciali: pacche sonore sulle sue enormi natiche di marmo di Carrara e qualche Padre Nostro.

    Vito si era tuffato dietro la porta, tappandosi le risate con le mani, sotto gli occhi teneri di Giovanni Paolo II, incorniciato nell’argento sopra la scrivania di don Petris, ed era sparito nel buio della sera, proprio come la signora, che non era una gran bellezza, ma che con le sue chiappe rigogliose e i carnosi seni grossi come zucche, gli aveva fatto vibrare il piffero.

    A quell’arioso sculettare verso l’oscurità, doveva anche la prima volta in cui se lo era smanettato, scoprendo la sua fiorente sessualità.

    Quel pomeriggio, la madre di Margherita andò a recuperarla presto. Prima di andarsene Vito decise di sottoporsi all’ennesima umiliazione sul tavolo da ping-pong con Mario Paratore.

    Quel Mario! Un siciliano cresciuto in Friuli; le braccia lunghe due metri, guantoni da baseball al posto delle mani. Impossibile batterlo. Vito lasciò l’oratorio con la coda tra le gambe.

    Pedalava in mezzo a sbuffate d’aria calda e umida e si massaggiava il collo ancora segnato da quella giacca bianca abbottonata fino al gozzo, che gli stritolava anche i respiri.

    Di svestirla non se ne parlava. C’era di mezzo Margherita, il suo chiodo fisso, l’argento vivo addosso ogni mattina per andare a scuola.

    «Figlia di Venere, Dea della bellezza…» farneticava per le strade di Tavagnacco.

    Era sempre stato un bambino dolce e rispettoso. La pelle di cashmere e un paio di guance rubiconde, i segni dei pizzicotti e dei baci a stampo di sua madre Rosina.

    Un bambolotto infilato in completini a festa, i capelli corvini spalmati da un lato, due castagne al posto degli occhi.

    Tuttavia, ora che aveva quasi tredici anni, le cose iniziavano a essere diverse.

    L’educazione non era in discussione, Rosina ne sarebbe morta di crepacuore e lui l’avrebbe raggiunta all’altro mondo per le mazzate di suo padre.

    Anche la timidezza era sempre salda al suo posto. Il fatto era che la sua Margherita, non era ancora sua, e questa faccenda lo stava consumando.

    Prima di tornare a casa, passò da scuola, smanioso di sbirciare gli allenamenti di Margherita. All’orizzonte, la finale del campionato regionale di pallavolo, storico traguardo per Tavagnacco e soprattutto per lei, che sognava la serie A1 e la maglia della nazionale.

    Le finestre spalancate sputavano sul cortile l’eco delle urla risonanti in palestra e lungo i corridoi. All’interno, una testa di carota spiccava dal gesso bianco dell’ultima fila della tribuna deserta: Ornella, amica inseparabile di Margherita.

    Vito salì i gradini due per volta e l’avvicinò.

    «Mandi Bocca Vitoni, da dove salti fuori? A occhio e croce da una pozzanghera…» civettò Ornella inquadrandolo attraverso i suoi grandi occhiali fucsia.

    «Che sei venuto a fare? Non vedi che Marghe non c’è?» Arricciò il naso e gli staccò gli occhi di dosso.

    Ornella era l’ombra di Margherita. Ogni volta che lo incrociava non faceva che sfruculiarlo alla pazzia.

    Vito si voltò verso il campo. «Ma come, sua madre è venuta a prenderla in oratorio… e poi quando la smetterai di stravolgere il mio nome coi tuoi stupidi anagrammi?» Tirò un sospiro e sedette accanto a lei.

    Ornella agganciò i pollici bianchicci alle bretelle della sua salopette di jeans e strusciò il sedere sui gradoni allontanandosi da lui.

    «Infatti,» disse osservando le ragazze, «l’ha portata qui per avvisare il Coach che sabato non giocherà la partita…»

    Vito sgranò gli occhi. «Un’altra volta? Ma è la semifinale! Se superano il turno giocheranno la finalissima al Palazzetto di Udine! È sicuro che ci saranno anche gli osservatori delle nazionali giovanili…»

    «Credi che non lo sappia, Einstein? Cos’è, hai dimenticato come la pensa sua madre…» Ornella si alzò di scatto. «Beh, ora ho da fare, ti saluto Bacconi.»

    Scese le scale della tribuna zampettando sulle punte e lasciò la palestra. Vito la seguì con lo sguardo, le sue labbra si appiattirono per il disappunto. Osservò alcuni minuti le ragazze provare il muro e le ricezioni: senza il bagher del capitano la squadra perdeva la sua sicurezza.

    Margherita aspettava quell’incontro da sempre, ma quella megera di sua madre non faceva che ricordarle quanto quello fosse solo «uno stupido gioco per oche starnazzanti».

    Tutti sapevano di cosa fosse capace Morena. Come quel pomeriggio, nel bel mezzo di una partita: fece irruzione nel campo, afferrò Margherita per un braccio e la trascinò fuori col culo per terra sotto gli occhi di pietra delle sue compagne e del coach, rimbrottandola come una iena digiuna per aver berciato senza ritegno in una fase di gioco concitata.

    Margherita non sapeva immaginare la sua vita senza la pallavolo.

    Quello sport le scorreva nelle vene. Adorava sistemarsi con cura le ginocchiere, massaggiare i muscoli con l’olio canforato, lo struscio sordo delle scarpe contro la gomma sintetica del campo, l’esplosione dell’adrenalina dopo una ricezione in tuffo sulla linea.

    In campo, i suoi occhi blu pervinca sbrilluccicavano, una carica misteriosa cancellava la sua riservatezza ermetica.

    Ma «a disattendere la Morena, si rischia grosso.»

    Vito l’aveva sentito dire una sera a sua zia Rita in una chiacchierata con la madre.

    «Conosco alcune tirocinanti della Bergamini S.r.l…» bisbigliava sua zia con la mano rovesciata contro l’angolo della bocca. «Sì, la grande industria tessile di Udine… che ha sedi anche in Liguria…»

    Sua madre aveva fatto spallucce.

    «A ogni modo, dicono che ha uno sguardo ambrato minaccioso, che quando perlustra le macchine da cucire dello stabilimento, negli occhi delle ragazze il terrore schizza su e giù come un elettrocardiogramma.»

    Sua madre fece una smorfia e disse no con la testa.

    «Mi hanno detto…» sua zia Rita si guardò intorno, «che tiene i capelli castani in una coda di cavallo stretta a morte che le fa gli occhi da diavola.»

    Sua madre si segnò la fronte e bisbigliò qualcosa.

    «Pensa, Rosina, che ha iniziato quel lavoro a quindici anni. Quando suo padre, un muratore alla giornata e un ubriacone squattrinato nel tempo libero, si bevve pure la voglia di alzarsi al mattino, fu

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