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La resurrezione degli Dei 1 - Il sabba delle streghe
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E-book286 pagine4 ore

La resurrezione degli Dei 1 - Il sabba delle streghe

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Info su questo ebook

Chi era veramente Leonardo da Vinci? L’autore del Cenacolo e di mille altri capolavori, o l’Anticristo in persona? L’uomo di fede o l’eretico? Forse di tutto, forse di più. Dipende da come si osserva.

Ecco qui il primo volume della triologia «La resurrezione degli Dei-Il sabba delle streghe». Racconta, attraverso gli occhi dei suoi discepoli, l’uomo voluto da Lodovico il Moro perché lo aiuti a realizzare le sue sfrenate ambizioni di politico di livello europeo. Con i suoi molti pregi e gli altrettanti difetti. Tra alchimisti alla ricerca della pietra filosofale, streghe impegnate in sabba demoniaci, Inquisizione che arde sul rogo non solo le streghe, ma tutte le opere classiche. Che siano libri, statue o dipinti. Un orrore che ancora oggi viviamo.
LinguaItaliano
Data di uscita13 nov 2015
ISBN9788897093688
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    Anteprima del libro

    La resurrezione degli Dei 1 - Il sabba delle streghe - Dmitrij Sergéevic Merežkovskij

    vanità

    La Diavolessa Bianca

    (1494)

    I.

    A Firenze, a fianco della Canonica d'Orsanmichele, sorgevano i magazzini dell'Arte dei Tintori. Qui, costruzioni goffe e barocche, fabbricate a ridosso delle case e poggiate su pali di legno, si congiungevano in alto con le sporgenze dei tetti d'ardesia, in modo che a mala pena rimaneva visibile una striscia di cielo. Nella via regnavano le tenebre anche in pieno giorno. Dalle travi e dalle arcate, all'ingresso dei negozi, pendevano stoffe di lana di varia guisa, di un bel colore rosso o lillà, o azzurro, provenienti dall'estero, ma tinte tutte a Firenze. Nel mezzo della strada, selciata di ciottoli piatti, scorreva un rigagnolo di acqua putrida e variamente colorata, gettata dalle tinozze dei tintori. Alle porte dei magazzini e dei negozi, i «Fondachi», erano appesi scudi recanti lo stemma di Calimala, tale era la denominazione data all'Arte dei Tintori, che raffigurava un'aquila dorata in campo rosso, con gli artigli appoggiati su un globo di candida lana.

    In uno di questi «Fondachi», circondato da note e registri, sedeva Messer Cipriano Bonaccorsi, il ricco mercante fiorentino, console della nobile arte di Calimala. Nella fredda luce di quella giornata di marzo e nell’umidità filtrante dalle cantine, dove era accatastata la merce, il vecchio si rannicchiava freddoloso, stringendosi attorno al corpo la logora pelliccia di pelo di scoiattolo, sdrucita ai gomiti. Aveva la penna d'oca sull'orecchio. Con gli occhi deboli e miopi, ma ai quali nulla sfuggiva, guardava, apparentemente con noncuranza, in realtà con la massima attenzione, i fogli di pergamena di un registro di conti. I fogli erano divisi longitudinalmente in due parti intestate dare e avere.

    Su quel brogliaccio, la merce era registrata in un corsivo tondo ed eguale, senza punteggiatura e in numeri romani, perché le cifre arabe si consideravano una frivola innovazione, non conveniente alla gravità dei libri d'affari.

    Sulla prima pagina del registro si poteva leggere: «In nome del nostro Signore Gesù Cristo e della beatissima Vergine Maria. Comincia questo libro di annotazioni nell'anno della nascita di Cristo MCCCCLXXXXIV.»

    Passate così in rassegna le ultime registrazioni e corretto un errore di somma in una certa partita di lana, in compenso della quale aveva ricevuto come anticipazione un carico di pepe, zenzero della Mecca e cannella, Messer Cipriano arrovesciò con aria stanca il capo sullo schienale della poltrona, chiuse gli occhi, e cominciò a combinare nella mente una lettera d'affari che doveva scrivere a Montpellier, in Francia, al suo amministratore, colà di passaggio in occasione della fiera della lana.

    A un tratto entrò qualcuno. Il vecchio aprì gli occhi e vide Grillo, il contadino che teneva in affitto da lui i campi e i vigneti della sua villa di San Gervaso, nella valle del Mugnone. Grillo si chinò più volte salutando: aveva in mano un paniere di uova di un color giallo scuro, accuratamente disposte sulla paglia, e alla cintura gli ballonzolavano due galletti con le creste penzolanti, legati insieme per le zampe.

    Oh, Grillo! fece Bonaccorsi con quel garbo che gli era proprio, e che usava tanto nel trattare con i potenti come con gli umili. Come te la manda il Signore? La primavera è buona, a quel che pare!

    Eh, sì, ci vuol altro, Messer Cipriano! A noi vecchi neppure la primavera porta gioia. Anzi ci dolgono ancor più le nostre ossa, e ci fan sentire più vicina la tomba!… Eccovi aggiunse dopo una breve pausa, dei galletti e delle uova per le feste di Pasqua! Ho portato dei galletti e delle uova alla Vostra Signoria!

    Così dicendo, Grillo socchiuse gli occhi verdastri con malizia soddisfatta. La pelle gli si increspò agli angoli in piccole grinze annerite, come avviene in chi è uso sopportare i raggi del sole e i soffi del vento.

    Bonaccorsi accettò, ringraziando il vecchio contadino, poi prese a interrogarlo sull'andamento di un certo affare.

    E così sono pronti gli operai nella fattoria? Giungeremo in tempo a finire prima dell'alba?

    Grillo trasse un profondo sospiro e si appoggiò con tutto il peso del suo corpo sul bastone che teneva tra le mani. Il suo volto si fece pensieroso.

    Tutto è pronto! Operai ce n'è in buon numero… Soltanto, Messere, volevo dirvi… non sarebbe forse meglio aspettare?

    Ma non mi hai detto tu stesso che aspettare è pericoloso? Che può venire in mente a qualche altro?

    È vero… ma c'è sempre d'averne paura… Infine il nostro è un peccato… E pensare che proprio nei giorni santi della Quaresima noi ci occupiamo di questo bel lavoro…

    Non aver paura, che quanto al peccato me lo prendo io sulla mia coscienza. Tu non corri nessun pericolo. Sta sicuro! Piuttosto, ci troveremo poi davvero qualche cosa?

    Certo che la troveremo! Abbiamo troppi indizi. Già i nostri padri e i nostri nonni parlavano molto di questa collina del Mulino nella Valle Umida. Non basta: la notte, sul San Giovanni, corrono delle fiammelle. E poi, bisogna dire che di queste porcherie ne abbiamo un po' dappertutto! Poco tempo fa, per esempio, quando hanno scavato il pozzo nel vigneto dei Marignola, han tratto dalla terra un diavolo intero.

    Che cosa vuoi dire? Che diavolo?

    Sì, sì, un vero diavolo di bronzo, con le corna, i piedi vellosi di capra che terminavano in uno zoccolo fesso, e un muso molto ridicolo e divertente. Pareva che ridesse, saltellando su di un piede solo e facendo scoppiettare le dita. Era tutto verde e coperto di muffa, tanto era vecchio!

    E cosa ne hanno fatto?

    Una campana per la cappella dell'arcangelo San Michele.

    Messer Cipriano montò in furia.

    Perché non me l'hai detto prima, Grillo? domandò.

    Perché eravate andato a Siena per i vostri affari.

    Potevi scrivermelo. Avrei mandato qualcuno, sarei magari venuto io stesso in persona, e avrei dato loro tanto denaro da fondersene dieci di campane. Imbecilli! Fare una campana da un fauno danzante, opera forse di Scopa, dell'antico maestro greco!

    Avete ragione di dire che sono imbecilli! Ma non state a inquietarvi, Messer Cipriano, ché sono già abbastanza castigati. Sono due anni che la campana è stata attaccata, e sono due anni che i vermi rodono i meli e le ciliegie… anche il raccolto delle ulive è gramo. E se sentiste che brutta voce ha quella campana!

    Perché brutta voce?

    Mah! E chi sa dirlo? Non è un suono vivo, di quelli che rallegrano il cuore dei cristiani. Brontola, brontola e non dice mai niente… Del resto si capisce! Che razza di campana può mai venire da un diavolo? Sia detto con licenza di Vostra Signoria e senza farvi andare in collera, Messere, ma forse il nostro prete ha ragione quando predica che da tutta quella robaccia pagana non si può cavare niente di buono. Bisogna andare con cautela e con prudenza, armarsi del segno della Santa Croce e di orazioni, perché il diavolo è forte, è furbo, figlio di un cane: entra per un orecchio ed esce per l'altro. Per esempio, l’anno scorso, quando Zaccheo scavò quella mano di marmo dietro la collina del Mulino, lo sapete mo’ in che razza di imbroglio ci ha ficcato il diavolo? Fa paura perfino il solo ricordarlo.

    Racconta, racconta, Grillo. Come l'avete trovata quella mano?

    "È stato in autunno, proprio alla vigilia di San Martino. C'eravamo appena seduti a cena, e la padrona aveva appena messo in tavola il piatto con le fette di pane abbrustolite, che vediamo spalancarsi l'uscio e precipitarsi nella stanza il nipote di compare Zaccheo. Bisogna che vi dica che giusto quella sera l'avevo lasciato presso la collina del Mulino a sbarbicare i tronconi delle olive, perché contavo di seminarci della canapa. «Padrone! Padrone!» esclama balbettando Zaccheo tutto sconvolto e tremante, mentre batte i denti per lo spavento. «Ebbene, ragazzo, che cos’hai?», «Una brutta cosa succede nel vostro campo: di sotto alle radici vien fuori un morto. Andate voi stesso a guardare se non volete crederlo.» Noi allora prendiamo delle lanterne, e via verso il campo. Incominciava a far scuro. Al di sopra del bosco si innalzava la luna. Ecco le radici, e accanto, in mezzo alla terra smossa, qualche cosa che luccica. Io mi chino, e vedo una mano bianca bianca, dalle dita rotonde e sottili, come le hanno le ragazze di città. «Olà,» penso fra me, «che diavoleria è questa?» e calo la lanterna nella buca per veder meglio.

    "A un tratto, ecco che la mano si muove, e comincia a farmi cenno con il dito. Allora non ho saputo più resistere neppure io, mi sono messo a gridare, e mi si sono piegate le ginocchia. Ma monna Bonda, la mia nonna, una vecchierella ancora arzilla, che in paese fa la medichessa e la comare, una donna che è ancora tutta vita quantunque già vecchia, dice: «Di che cosa vi siete presi paura, sciocchi? Non vedete che questa mano non è né viva né morta, ma solo di pietra?» E afferrandola, la strappa dalla terra, come avrebbe strappato una rapa.

    "Poco sopra il polso la mano era rotta. «Lascia stare nonna» grido io, «non toccarla! Cacciamola giù sotto terra, presto, presto, che non ci capiti addosso qualche disgrazia.», «No» risponde lei, «non sta bene cosi! Bisogna prima portarla in chiesa dal prete, che ci reciti uno scongiuro. »

    "Invece monna Bonda mi ha ingannato… non l'ha portata dal prete, ma in casa, in una certa cassettina, nell'angolo dietro il fornello, dove tiene una quantità di vecchie cianfrusaglie: brandelli di stoffe antiche, unguenti, erbacce, amuleti. Ho avuto un bell'insistere io, un bel rimproverarla perché restituisse quella mano, ma lei sempre dura e ostinata. Da quel momento, la vecchia ha cominciato a fare delle guarigioni addirittura miracolose. Se qualcuno aveva il mal di denti, bastava che toccasse la guancia con la mano dell’ idolo, perché il gonfiore se ne andasse: guariva le febbri, i mal di pancia, le convulsioni. C'era una mucca che si lamentava perché non poteva partorire? La nonna gli toccava il ventre con la mano di sasso, ed ecco che, mentre la mucca mugolava, il vitellino si muoveva già sulla paglia. La voce di questi miracoli corse per i paesi circostanti, e i denari fioccarono in casa. Ma non me ne venne punto profitto, perché don Faustino, il curato, non mi lasciava un momento di pace. Nella chiesa, predicando, mi rimproverava alla presenza di tutti: mi chiamava il figlio della rovina, lo schiavo del demonio, e minacciava di denunciarmi al vescovo e farmi privare della comunione.

    "In istrada, i monelli mi seguivano segnandomi a dito. In coro cantavano: «Veh, veh, Grillo! Grillo è uno stregone, e la sua nonna è una strega!»

    "Credetelo che neppure di notte avevo pace: mi pareva che la mano di marmo venisse a me adagio adagio, mi afferrasse per il collo, delicatamente, come accarezzandomi con le dita fredde e lunghe, poi a un tratto mi stringesse forte, come a strangolarmi. Io allora volevo gridare, ma la voce mi restava soffocata in gola.

    «Ahi! Ahi!» pensavo «brutti scherzi sono questi!» E una mattina che la nonna era uscita all'alba per cogliere certe sue erbe ancora bagnate di rugiada, mi sono levato dal letto, ho sforzato la serratura della sua cassettina, e, presa la mano di marmo, l'ho portata a voi.

    È vero che Lotto il cenciarolo me ne voleva dare dieci soldi, e da voi ne ho avuti soltanto otto, ma non solo di questi due soldi, ma anche della mia vita sono pronto a farvi sacrificio, Vostra Signoria. Che Dio vi mandi la sua santa benedizione, e cosi pure a Madonna Angelica vostra moglie, ai vostri figli, e a tutti i vostri nipotini.

    Stando a quello che tu mi racconti, Grillo, non v'è dubbio che troveremo qualche cosa sotto la collina del Mulino disse Messer Cipriano sopra pensieri.

    Certo che per trovare troveremo replicò il vecchio contadino, traendo un profondo sospiro. Tutto sta che non lo fiuti don Faustino, perché state pur sicuro che, se appena ne indovina qualche cosa, mi pettinerà senza pettine, e in guisa tale che non mi troverò troppo bene! E anche a voi farà del male, perché vi solleverà contro il popolo, e non vi lascerà finire i lavori… Basta, speriamo che Dio ci usi la sua santa misericordia! Ma voi intanto, mio benefattore, non abbandonatemi, e dite una parolina al giudice…

    Per quel pezzo di terra che il mugnaio ti vuol portar via?

    Per quello, Messere. Il mugnaio è una vecchia volpe astuta e spilorcia. Sa dove mette la coda il diavolo, lui. Vedete, io ho regalato al giudice una giovane mucca, e anche lui ha regalato una mucca, ma pregna. Durante il processo, la mucca si è sgravata, e ora ho paura che il giudice decida in favore del mugnaio perché, proprio a farlo apposta, la sua giovenca ha partorito un bel vitello maschio. Ve ne prego, parlate voi in mio favore! Siate un padre per me. Vedete che anche io mi affaccendo per voi in questo affare della collina del Mulino. Nessun altro mi avrebbe fatto caricare la coscienza di un simile peccato!

    Sta tranquillo, Grillo, che il giudice è mio amico, e io mi adopererò per te. Ora va in cucina, che ti daranno qualche cosa da mangiare e del vino, e questa notte andremo insieme a San Gervaso.

    Il vecchio fece un profondo inchino, e se ne andò, mentre Messer Cipriano si ritirava in uno studiolo attiguo al magazzino, dove a nessun altri era permesso l'ingresso.

    Qui, come in un museo, marmi e bronzi antichi si vedevano tutto intorno e appesi alle pareti. Monete e medaglie erano disposte in bell'ordine sopra assicelle rivestite di panno, mentre frammenti di antiche sculture, non ancora classificati, giacevano nei cassetti. Per mezzo dei suoi numerosi corrispondenti commerciali, Messer Cipriano si faceva mandare reliquie della classica antichità da ogni parte dove fosse dato rinvenirne, da Atene, Smirne, Alicarnasso, Cipro, Leucosia, Rodi, dal cuore dell'Egitto e dall'Asia Minore.

    Il console di Calimala volse intorno un’occhiata sul suo tesoro, poi si immerse in gravi pensieri sul quesito della tassa d'importazione sulla lana. Dopo aver ben considerata la questione, cominciò a combinare la lettera che doveva scrivere al suo incaricato d'affari a Montpellier.

    II.

    In quello stesso momento, in fondo al magazzino, stanzone oscuro che di giorno era rischiarato debolmente da un lumicino acceso davanti all'immagine della Madonna, le balle di merce accatastate salivano fino al soffitto. Qui, Dolfo, Antonio e Giovanni, giovani tutti e tre, discorrevano tra di loro. Uno, Dolfo, il commesso di Messer Cipriano Bonaccorsi, giovane dai capelli rossi, dal naso rincagnato e dal volto di un'allegria bonaria, annotava su un registro il numero delle braccia di panno appena misurate. Antonio da Vinci, all'aspetto più simile a un vecchio che a un giovane, con gli occhi vitrei da pesce e i neri capelli radi e ispidi, misurava rapidamente una pezza di stoffa, con una special misura fiorentina nota sotto il nome di canna. Giovanni Boltraffio, studente di pittura venuto da Milano, giovanotto sui diciannove anni, timido e modesto, dai grandi occhi grigi tristi e innocenti e dall'espressione del volto indecisa, sedeva invece su una balla pronta, con le gambe accavallate, e porgeva orecchio attentamente.

    Ecco a che siamo giunti diceva Antonio con voce concitata e sommessa, "a scavare il suolo per trarne gli idoli pagani… Lana bruna di Scozia, trentadue braccia, sei pollici, e otto once…" aggiunse poi volgendosi a Dolfo, che prese nota nel registro.

    Piegata la pezza misurata, Antonio la gettò con ira, ma nello stesso tempo con tanta destrezza, che quella cadde là dove doveva cadere, poi, alzando l'indice in tono di profetica minaccia, imitando fra Gerolamo Savonarola, esclamò:

    "Gladius Dei super terram cito et velociter! San Giovanni ebbe sul Patmos una visione. Vide cioè un angelo afferrare il drago, l'antico serpente simbolo del demonio, incatenarlo, gettarlo nell'abisso, e rinchiudervelo sotto suggello, perché non avesse a uscirne per adescare le genti prima che fossero trascorsi mille anni. Oggi Satana viene liberato dalla sua lunga prigionia, oggi finisce il termine di mille anni e gli dei falsi, i precursori e i seguaci dell’Anticristo, tornano nel mondo per tentare i popoli… Guai a coloro che vivono sulla terra e sul mare!… Lana gialla liscia di Brabante, braccia diciassette, pollici quattro, once nove!"

    Che ne pensato dunque, Antonio? chiese Giovanni con curiosità paurosa. Tutti questi fenomeni confermano…

    Sì, certo. Vegliate che già giunge l'ora! Non solo si vanno a disseppellire gli antichi dei, ma se ne creano di nuovi, simili agli antichi. Pittori e scultori si affannano ora a servire Moloc, lo spirito del male, le chiese di Dio si trasformano in templi di Satana, sulle immagini si dipingono gli dei impuri sotto le parvenze di martiri e di santi, e davanti a quelle il popolo prega, in luogo di San Giovanni Battista mettono Bacco, in luogo della Santa Madre di Dio la svergognata Venere. Bisognerebbe fare un rogo di tutte queste tele, e sparpagliarne le ceneri al vento.

    Un lampo di ferocia passò come un baleno negli occhi dello zelante commesso, mentre Giovanni, non osando ribattere, taceva, e nello sforzo contraeva le sopracciglia delicate e infantili.

    Antonio disse poi finalmente, ho sentito che Messer Leonardo da Vinci, vostro cugino, accetta nel suo studio dei discepoli. Da un pezzo vorrei…

    Se tu lo interruppe Antonio accigliandosi, vuoi perdere la tua anima, va pure da Messer Leonardo.

    Come? Perché?

    "Quantunque Leonardo mi sia fratello e mi preceda di vent' anni, pure nella Santa Scrittura è detto: «Fuggi l'eretico dopo la prima e la seconda censura». Messer Leonardo è un eretico e un empio, il suo intelletto è offuscato da un’alterigia satanica. Basandosi sulla matematicha e sulla magia nera cerca di penetrare i misteri della natura."

    E, sollevando gli occhi al cielo, ripeté le parole che il Savonarola aveva proferito nell'ultima predica: La saviezza di questo secolo davanti al Signore è pazzia. Noi li conosciamo questi scienziati, tutti vanno a casa del diavolo.

    E avete sentito seguitò ancor più timidamente Giovanni, che Messer Leonardo è qui a Firenze? È giunto appena da Milano.

    E perché?

    L'ha mandato il duca per acquistare, se sarà possibile, alcuni quadri che già appartennero a Lorenzo il Magnifico.

    Ci sia o non ci sia, poco m'importa ribatté Antonio, voltandosi bruscamente e mettendosi con maggior lena a misurare una pezza di panno verde sulla canna.

    Dalla chiesa vicina le campane suonarono il vespero. Dolfo si stirò le membra, e ripiegò il libro con aria di sollievo: per quel giorno il lavoro era finito, e si chiudevano i magazzini.

    Giovanni uscì in strada. In mezzo ai tetti umidi appariva un lembo di cielo, che il crepuscolo colorava di un riflesso vagamente roseo. L’aria cheta era solcata da una pioggia minuta. A un tratto, da una finestra aperta su una viuzza vicina, vennero le note di una canzone.

    Era una voce giovane e sonora. Al battere cadenzato del pedale, Giovanni comprese che chi cantava era una tessitrice, che stava ordendo le trame. La ascoltava avidamente, provando un senso di piacere e come ricordò che era primavera, un'indicibile commozione mista a tristezza lo prese d'improvviso al cuore.

    In quel momento, sul pavimento di mattoni risuonò un calpestio affrettato di zoccoli.

    Giovanni rimase immobile, con gli occhi fissi alla finestra aperta. Poi, dopo aver sospirato entrò nella casa del console di Calimala.

    Passando per una scala ripida, dalla rampa fradicia, mal ferma e tutta rosa dal tarlo, sali in una grande camera, che serviva da biblioteca, dove, chino sopra una scrivania, stava Giorgio Merula, lo storiografo di corte del Duca di Milano, Lodovico il Moro.

    III.

    Giorgio Merula era venuto a Firenze per incarico avuto dal suo signore di acquistare alcuni libri rari della biblioteca di Lorenzo il Magnifico e, come era uso, aveva preso alloggio in casa dell'amico Messer Cipriano Bonaccorsi, pari a lui amatore di tutto ciò che di bello aveva prodotto l’arte antica. In un alberguccio sulla strada da Milano a Firenze, lo storiografo aveva fatto conoscenza con Giovanni Boltraffio, e, sotto pretesto che abbisognava di un amanuense e che Giovanni aveva una calligrafia bella e chiara, l'aveva preso con sé in casa di Cipriano.

    Quando Boltraffio entrò nella camera, Merula era assorto intorno a un vecchio libro logoro che somigliava a un salterio. Stava passando cautamente una spugna umida sui fogli di una pergamena sottilissima e delicata. Di tanto in tanto raspava con la pomice, lisciava con la lama di un coltello e con il lisciatoio, indi, alzando il foglio contro la luce, lo guardava.

    Care mormorò, aspirando lunghe boccate di aria dal piacere, care, venite fuori alla luce di Dio! Come siete lunghe e belle!

    Lo storiografo sollevò dal lavoro il capo calvo, e fece vedere il volto gonfio, dalle morbide rughe mobilissime, dal naso paonazzo e dagli occhi color del piombo, piccoli, pieni di vita e di inesauribile brio. Poi prese dal davanzale della finestra una brocca di argilla e un bicchiere, si versò un po' di vino, lo bevve, si raschiò la gola, e stava per rimettersi al lavoro, quando si accorse di Giovanni.

    Buon giorno, monacello salutò scherzosamente il maestro, che era avvezzo chiamare il giovane con questo nome per la sua modestia. Sai che mi annoiavo senza di te? Dove sarà mai andato il mio monacello? pregavo io. Sta a vedere che si è innamorato di una bella ragazza! A Firenze le giovani sono leggiadre e innamorarsene non è certo peccato! Io intanto non ho sciupato il mio tempo! Sono certo che una cosina tanto graziosa non l'hai mai vista in vita tua. Vuoi che ti mostri?…E poi no… Tu andrai a sussurrarlo ai quattro venti… E pensare che l'ho comperata da un cenciaiolo ebreo per un'inezia… era sepolta in mezzo ai cenci. Bene, bene, te la voglio mostrare, a te solo.

    E accennandogli con il dito in aria di mistero, aggiunse. Qui, più vicino, vieni.

    Cosi dicendo, gli indicò un

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